La lotta dei cristiani LGBT africani contro la retorica dell’omofobia
Articolo di Adriaan van Klinken* pubblicato sul sito della London School of Economics and Political Science (Gran Bretagna) nel giugno 2017, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
L’emergere di politiche ostili all’omosessualità in Africa viene spesso spiegato con il fattore religioso. Benché in effetti la religione sia uno dei principali fattori nell’incrudelirsi dell’omofobia in Africa, la Bibbia e la fede cristiana non sono solamente motivo di guerra, perché gli attivisti LGBT africani se ne sono appropriati a sostegno della loro causa. Secondo Adriaan van Klinken dobbiamo andare oltre le nostre vedute parziali sull’omofobia religiosa africana, in quanto la religione gioca un ruolo complesso e multiforme nelle dinamiche sessuali dell’Africa contemporanea.
Negli ultimi anni si è parlato molto di omofobia africana, tanto che questo continente viene persino considerato “il più omofobo al mondo”, come risultato della retorica anti-gay di alcuni leader politici, come il presidente dello Zimbabwe [ora deposto, n.d.t.] Robert Mugabe, dell’introduzione di leggi anti-omosessualità in Uganda e Nigeria, e infine dell’arresto di attivisti LGBT in Paesi come il Camerun e lo Zambia.
In questo articolo non parlerò di “omofobia africana” in quanto tale; vorrei piuttosto chiedermi se “omofobia” sia o meno il termine più utile per comprendere le politiche riguardanti l’omosessualità e i diritti LGBT nelle società africane contemporanee; né mi occuperò delle ragioni per cui i media occidentali tendono a parlare dell’”omofobia africana” in modo per lo più sensazionalistico; probabilmente questo ha a che fare con la percezione (che ha radici profonde) dell’Africa come continente “retrogrado” e dell’autopercezione dell’Occidente come “progressista” e “moderno”.
Mi focalizzerò piuttosto sul ruolo della religione nelle dinamiche concernenti l’omosessualità e i diritti LGBT in Africa. L’emergere di politiche ostili all’omosessualità nel continente viene spesso spiegato facendo ricorso alla religione. Data la predominanza del cristianesimo in molti dei Paesi protagonisti dei rigurgiti omofobi, le varie Chiese, in particolare, vengono identificate come protagoniste della repressione delle persone LGBT. È facile reperire prove a supporto di questa idea: i vescovi anglicani africani sono tra i protagonisti della crisi in atto nella Comunione Anglicana a causa di questo tema; i pastori evangelicali ugandesi si sono spesi attivamente per le proposte di legge anti-omosessualità; i leader cattolici e pentecostali nigeriani hanno accolto calorosamente la proposta legge che proibisce i matrimoni omosessuali.
I leader politici di molti Paesi fanno spesso ricorso ad argomentazioni esplicitamente religiose contro l’omosessualità, bollandola come contraria alla cultura africana, alla Bibbia e alla fede cristiana. Nei media e tra l’opinione pubblica il dibattito sull’omosessualità spesso assume toni religiosi, come in Zambia, dove il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon è stato persino considerato un agente del demonio per aver invitato il Paese a riconoscere i diritti umani delle minoranze sessuali.
Ci sono molte prove del fatto che la religione sia uno dei fattori che più attizzano l’omofobia in Africa, ed è un grosso ostacolo sul cammino che dovrebbe portare le persone LGBT africane a venire accettate nelle loro comunità e nella società. Negli ultimi sei anni ho esaminato criticamente il ruolo dei leader religiosi, delle loro organizzazioni e della loro fede nella mobilitazione contro l’omosessualità e i diritti LGBT. Più di recente, però, mi sono interessato a un’altra questione: la religione costituisce solo ed esclusivamente un ostacolo o può essere anche un fattore facilitante per l’identità e l’attivismo della comunità LGBT africana? Può la religione avere un ruolo nel (ri)costruire l’Africa come continente che valorizza le diversità, anche in tema di sessualità?
Non condivido il concetto, diffuso presso alcuni teologi africani, secondo cui gli Africani sarebbero “notoriamente religiosi”, secondo le famose parole di John Mbiti [filosofo e teologo anglicano kenyota, n.d.t.], ma è vero che la religione, in tutte le sue varianti, è un importante aspetto dell’identità e della socialità di molti Africani, che permea le culture e le società del continente. Se Stephen Ellis e Gerrie ter Haar hanno ragione nel dire che “è in gran parte attraverso le idee religiose che gli Africani di oggi pensano il mondo; esse forniscono loro i mezzi per diventare attori sociali e politici”, possiamo chiederci come questo possa essere vero anche per le persone LGBT e i loro canali di attivismo comunitario. Nel mio attuale progetto di ricerca mi occupo di questo nel contesto del Kenya, in particolare in relazione al cristianesimo, attraverso un’ampia casistica.
Un collettivo artistico kenyota di nome The Nest (Il nido) ha da poco portato a termine un progetto che racconta la vita di alcune persone LGBT, per il quale ha raccolto oltre 250 testimonianze in varie parti del Paese, tra persone di età e condizione molto diverse. Il risultato è un’antologia, Stories of Our Lives (Storia della nostra vita), un affascinante scorcio della vita delle persone LGBT in un Paese africano e del loro navigare nelle varie complessità culturali, sociali e politiche.
Molte di queste testimonianze fanno riferimento alla religione, all’educazione religiosa in famiglia, a scuola e in chiesa; ci sono poi le testimonianze di un costante impegno religioso, di un’attiva partecipazione a una comunità di fede, di una incrollabile fede in Dio. In questo modo si può capire come le persone LGBT kenyote fanno i conti con la sessualità e la fede, spesso trovando il modo di conciliare i due ambiti, per esempio attraverso la narrazione dell’amore di Dio, la convinzione di essere create ad immagine di Dio o il ministero inclusivo e accogliente di Gesù Cristo.
Il progetto Stories of Our Lives non ha fini esplicitamente religiosi, ma molte delle sue testimonianze dimostrano come per molte persone LGBT kenyote la fede cristiana rimanga un’importante fonte di identità, a dispetto delle esperienze negative che spesso toccano loro nelle chiese. Mentre il progetto rivela come tutto questo funzioni a livello individuale, un altro studio rivela come la fede possa essere la base per una nuova comunità cristiana LGBT. Sto parlando di una comunità cristiana LGBT di Nairobi, fondata nel 2013 da un gruppo di attivisti che volevano creare uno spazio accogliente dove i credenti LGBT potessero trovare nutrimento spirituale.
Gli attivisti hanno ricevuto un sostegno morale, pastorale e finanziario dall’organizzazione statunitense Fellowship of Affirming Ministries (Associazione per un ministero inclusivo), un ministero afroamericano che si propone di promuovere “una teologia radicalmente inclusiva” all’interno delle “Chiese di colore”, prima negli Stati Uniti e, più recentemente, nel continente africano, attraverso la United Coalition of Affirming Africans (Coalizione unita degli Africani inclusivi). Particolarmente interessante in questa iniziativa, oltre alla sua ideologia panafricana, è il tentativo, esplicitamente progressista e nero, di contrastare l’influenza delle Chiese evangelicali bianche, anch’esse provenienti dagli Stati Uniti; per questo la razza e la sessualità costituiscono il cuore di una lotta per il futuro del cristianesimo africano.
Ovviamente la comunità di Nairobi si sta giocando molto, e si capisce da alcuni sermoni che ho ascoltato di sfuggita sullo “riscrivere gli Atti degli Apostoli”; questo tema significa che, proprio come la Chiesa cristiana primitiva due millenni fa, questa piccola comunità LGBT sta cercando di capire la sua identità e la sua missione, la quale sarà decisiva niente di meno che per la natura e il futuro del cristianesimo non solo in Kenya, ma in tutta l’Africa.
Tutto questo può sembrare troppo ambizioso, se non pretenzioso, ma la chiesa di Nairobi svolge in effetti un ruolo cruciale per i suoi membri, compreso un gruppo di rifugiati ugandesi che hanno dovuto abbandonare la patria a causa dell’ostracismo verso le persone gay e che in Kenya continuano ad essere emarginati e maltrattati. Attraverso la preghiera, la predicazione, il culto e la cura pastorale, ma anche lo sport, le attività ricreative e l’attivismo LGBT, questa comunità è un autentico punto di riferimento sociale e spirituale per i suoi membri. Secondo il loro documento fondativo, la chiesa “proclama l’amore incondizionato di Dio, che abbraccia l’intera umanità”. Simili iniziative sono spuntate come funghi negli ultimi anni in altri Paesi africani, il che testimonia della nascita di un movimento cristiano LGBT nel continente.
Al di là dei confini dell’attivismo LGBT esplicitamente cristiano, esistono altre espressioni interessanti che toccano i temi cristiani, come il video musicale Same Love, pubblicato nel febbraio 2016 da alcuni musicisti e attivisti kenyoti e subito censurato dalle autorità. Presentato come “canzone kenyota sui diritti omosessuali”, il video fa diversi riferimenti alla religione: da un lato, denuncia il ruolo delle credenze e dei leader religiosi nella demonizzazione delle persone LGBT e nell’odio che subiscono “nel nome della pietà”; dall’altro lato, forse in modo ancora più significativo, il video contiene una raffigurazione positiva della religione. Il verso “Uganda… Nigeria, Africa… veniamo dallo stesso Dio, siamo fatti della stessa pasta, proviamo lo stesso dolore e abbiamo la stessa pelle” è un concetto panafricano secondo il quale l’unità-nella-diversità africana trova le sue radici nel fatto di essere stati tutti creati da Dio.
Nella canzone troviamo anche “lo spirito di Martin Luther King”, che si ricollega all’eredità cristiana del famoso leader afroamericano del movimento per i diritti civili perché questa possa sostenere la lotta per i diritti LGBT in Africa. Altro punto molto importante: la canzone termina con una lunga citazione biblica, il classico testo sull’amore di 1 Corinzi 13, e l’ultimo verso recita “L’Amore è Dio e Dio è Amore”. Questo dimostra chiaramente che la Bibbia e la fede cristiana non costituiscono semplicemente il campo di battaglia per l’omofobia dei leader religiosi e politici africani, ma anche un luogo di cui gli attivisti LGBT si appropriano per la loro causa.
Non è ancora prevedibile l’impatto a lungo termine di queste appropriazioni dei temi cristiani a sostegno dell’identità LGBT e delle sue comunità di attivisti in Africa, ma questi esempi illustrano bene la necessità di andare oltre la nostra immagine ristretta dell’omofobia religiosa africana per comprendere i numerosi e complessi ruoli della religione nelle dinamiche delle identità sessuali in Africa.
* Adriaan van Klinken insegna religione e discipline africane all’Università di Leeds ed è copresidente del Settore Religioni Africane alla American Academy of Religion, oltre che redattore della rivista Religion and Gender. Le sue ricerche vertono su religione e vita pubblica nell’Africa contemporanea, in particolare per quanto riguarda le tematiche del genere e della sessualità.
Testo originale: Beyond African religious homophobia: How Christianity is a source of African LGBT activism
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