Realtà negata, silenzio imposto, comunione fittizia. Sulla relazione tra sesso e ministero ordinato
Riflessioni di Andrea Grillo pubblicate sul suo blog “Come se non“ il 2 giugno 2018
Alcune settimane fa il card. Mueller, ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) , sosteneva in una intervista che “l’omofobia non esiste…”; alcuni giorni dopo il suo successore come Prefetto, Mons. Ladaria, ha riproposto una comprensione del tutto antitetica del rapporto tra ministero ordinato e sesso femminile, dicendo, sostanzialmente, che tale rapporto “non esiste e non può esistere”. Credo che sia molto utile una riflessione sul “metodo” con cui queste dichiarazioni affrontano la realtà, non solo ecclesiale, ma anche mondana e secolare. Io credo che siano rivelatrici di un approccio distorto e troppo unilaterale o, come lo definisce Amoris Laetitia, “pusilli animi”, meschino (AL 304).
E’ evidente che la storia offre sempre realtà nuove, che pongono in questione la tradizione umana ed ecclesiale. La Chiesa non sta altrove: deve fare i conti, apertamente e schiettamente, con queste novità della storia. Tra le quali ci sono quelle che riguardano la “sfera della sessualità”, così come sono entrate potentemente nella cultura comune e come obbligano anche la Chiesa ad una comprensione rinnovata, accurata, attenta e non generica di se stessa.
Che la identità della donna sia una delle “novità” più significative del XX secolo non può essere discusso; esattamente come non può esserlo la trasformazione del “sesso” in “sessualità”, con tutta la incidenza che ciò determina sulla identità e sulla coscienza dei soggetti. Su entrambi questi livelli, se si pretende di ragionare “come se nulla fosse cambiato”, come se ogni novità fosse il frutto di una ideologia sospetta, di una perversione dei cuori, di una distrazione delle menti, allora davvero tutto è compromesso e la Chiesa perde l’occasione non solo di “comprendere il reale”, ma di dar voce efficacemente al Vangelo.
Lo stile autoreferenziale
Come dicevo, mi colpisce molto, in queste dichiarazioni di Prelati di prima fila, il modo di aver a che fare – o, meglio di non aver a che fare – con la realtà. Anzitutto si deve negare la realtà problematica: che si parli di omofobia, o di donna, la cosa più importante sembra quella di “squalificare” l’interlocutore. O negando che ci sia una realtà di cui occuparsi o riducendo quella realtà ad una caricatura. Si può dire così, del tutto senza controllo, che la omofobia è “una invenzione marxista”, oppure che la donna “pretende un potere e rivendica un diritto che non la riguarda”. Questo modo di pensare e di provvedere è una pesante eredità dell’antimodernismo. Dipende da opzioni culturali ed ecclesiali che ne restringono la prospettiva e la portata. Ovvero risente del sospetto verso tutto ciò che è moderno e che “altererebbe” le forme storiche di esercizio della autorità e del potere. Tutte le forme di “emancipazione” – dalla schiavitù o dalla malattia, dalla emarginazione o dalla irrilevanza – tendono ad essere lette, in questa prospettiva, semplicisticamente come “disobbedienze” o come “insubordinazioni”. La incomprensione del principio di libertà e il facile ricorso ad un “principio di autorità” totalizzante costituiscono il cuore di una reazione, tanto viscerale quanto poco meditata. Così, anziché difendere la tradizione cristiana, si finisce col difendere soltanto la sua traduzione in forme culturali una volta di certo efficaci, ma ora vecchie, unilaterali e inadeguate.
Nessun confronto, ma solo obbedienza
Se questo è l’orizzonte che circonda le recenti reazioni considerate – e che non si identifica affatto con lo stile della Chiesa post-conciliare – una sua ricaduta inevitabile è la soluzione proposta, che evita il confronto e che si rifugia nella “obbedienza all’autorità”. Il silenzio diventa l’unica alternativa. Tale pretesa, che già nel 1994 aveva segnato Ordinatio Sacerdotalis, e che ora viene
ripetuta, per quanto su un livello di autorevolezza e di autorità sicuramente minore, costituisce il segnale di una grande difficoltà. La Chiesa cattolica sembra non sapersi confrontare in modo equilibrato con la tradizione del Vangelo e della esperienza degli uomini. A tal proposito occorre ricordare ciò che ha detto in modo indimenticabile GS 46: “il Concilio, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana, attira ora l’attenzione di tutti su alcuni problemi contemporanei particolarmente urgenti, che toccano in modo specialissimo il genere umano”. Ed è da sottolineare che la “luce”, in questo testo, viene dal Vangelo e dalla esperienza umana: quindi abbiamo bisogno non solo di leggere l’esperienza alla luce del Vangelo, ma anche il Vangelo alla luce dell’esperienza umana. E la grande trasformazione della esperienza femminile nell’ultimo secolo deve condurre ad un cammino ecclesiale, ad un processo di discernimento, che riguardi le forme possibili di “esercizio ufficiale della autorità” da parte dei membri della Chiesa di sesso femminile. Questo, ovviamente, deve riguardare anche il ministero ordinato, nel modo di concepirlo e di esercitarlo. Su questo papa Francesco ha aperto un dibattito utile e positivo, che rilancia questa domanda di fondo, sul modo con cui sappiamo accogliere e ripensare la autorità femminile nella ufficialità ecclesiale. Senza pretendere immediatamente tutto, occorre predisporre un “cambio di paradigma” e una “rivoluzione culturale”, che provveda quanto prima ad integrare le donne nell’ ambito dell”ordine sacro”, accettando una prudente logica della gradualità, ma mai irrigidendosi in una schema “apologetico”.
Una comunione “diffidente”
Se invece di un sereno dibattito e di un discernimento comunitario, si preferisce imporre il silenzio e non ascoltare la realtà, è inevitabile che si determini uno stato ecclesiale, dal quale si genererà una “comunione mancata”, in una condizione forzata e in una comunità diffidente. Ascoltare il popolo di Dio, nella sua componente femminile, e riconoscerne in modo nuovo e più radicale la “eminentia auctoritatis” è oggi un compito inaggirabile. Non sarà un cammino breve, ma esso deve iniziare senza veti e senza resistenze di principio. Solo così potremo costruire una vera comunione. Se pensiamo di negare la realtà e di imporre il silenzio, come potremo realizzare una autentica comunione ecclesiale? Perché mai, in un tale contesto, parlare della “autorità femminile” dovrebbe essere considerato come un “turbamento della comunione”? Questa strategia del sospetto, che è tipica di una società chiusa, non si addice alla Chiesa. Essa non deve avere paura di esporsi alla verità, anche quando questa la costringe a mettersi in cammino, a rivedere i propri progetti e a convertirsi. Così anche lo “scandalo” deve essere completamente riconsiderato: non è scandaloso voler approfondire il profilo autorevole della componente femminile della Chiesa, per attribuire ad essa il dovuto riconoscimento; scandaloso è, piuttosto, utilizzare ogni tipo di argomento – storico, cristologico, antropologico, mariologico – pur di impedire alla donna ogni rilevanza in fatto di autorità. Capovolgere la concezione di che cosa è scandalo – come suggerisce Francesco in AL – è l’inizio di un cammino promettente e di un processo di integrazione. Scandaloso non è parlarne. Scandaloso è tacere e ancor più chiedere agli altri di tacere.
Francesco ai teologi argentini e alle future “accademie cristiane”.
La voce del Concilio Vaticano II, che da queste forme di mentalità ristretta e asfittica viene puntualmente offuscata, trova provvidenzialmente ben altra risonanza nel magistero di Francesco, che in diversi casi ci ha chiesto di “ascoltare” e di renderci attenti alla realtà, il cui primato sulla idea è un dato inaggirabile del suo magistero. Vorrei ricordare due punti particolarmente espliciti in questo campo di riflessione.
Scrivendo alla Università Cattolica di Buenos Aires (2015), Francesco ha detto:
“Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro, nel confronto, nel
contatto con le diverse culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano una maggiore riflessione di fronte a quanto non esplicitato prima. Perciò gli eventi pastorali hanno un valore considerevole. E le nostre formulazioni di fede sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente.
In un cristiano c’è qualcosa di sospetto quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo
davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una teologia che non nasce nel suo seno ha l’olezzo di una proposta che può essere bella, ma non reale.“
Ma, in modo ancora più significativo, nello straordinario proemio della Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium (2018) troviamo questa espressione grandiosa e profetica del magistero che oggi ci è richiesto:
“L’esigenza prioritaria oggi all’ordine del giorno, infatti, è che tutto il Popolo di Dio si prepari ad intraprendere “con spirito” una nuova tappa dell’evangelizzazione. Ciò richiede «un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» …Questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della formazione accademica e dell’indagine scientifica, l’impegno generoso e convergente verso un radicale cambio di paradigma, anzi – mi permetto di dire – verso «una coraggiosa rivoluzione culturale»[27]. In tale impegno la rete mondiale delle Università e Facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte.”
In questa prospettiva occorre dialogare, ascoltare e sognare, non tacere. Una chiesa viva parla e discute, anche delle cose più fondamentali. Così essa potrà generare silenzio: il silenzio della comunione, non il silenzio della imposizione. La intelligenza della fede non può mai accontentarsi di tale silenzio imposto: deve produrre il silenzio della comunione attraverso il dialogo e il confronto. Altrimenti, per usare una bella espressione di S. Tommaso, rischieremo di scontrarci con questa lucida denuncia della riduzione della teologia ad atto di autorità
“Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota“.