Quando un figlio è gay. Mila, Jacopo e l’attivismo civile
Intervista di Lidia Borghi tratta dal dossier ‘I familiari cristiani di persone LGBT si raccontano‘, luglio 2011, pp.15-18
Mila Banchi è forse la più nota attivista LGBT (acronimo per Lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) dei diritti civili in Italia.
Sulla sessantina, sempre sorridente e propositiva, trentadue anni fa mise al mondo Jacopo, un mite ed intelligente ragazzo che si scoprì omosessuale all’età di diciassette anni.
Durante un’assolata giornata di inizio maggio le ho fatto visita a Livorno, la cittadina toscana che le ha dato i natali e che la vede in prima linea nella lotta per il riconoscimento di pari dignità alle persone LGBT.
Armata di telecamera per non perdermi neppure una virgola delle sue parole e sostenuta dalla mia compagna, comincio a dialogare con lei sui più recenti fatti di attualità, per approdare, subito dopo, all’annosa questione dell’esclusione totale, da parte della chiesa cattolica, delle persone omosessuali.
Quando avvertì che l’orientamento sessuale di Jacopo non era quello etero, si preoccupò fin da subito delle reazioni di una società, quella italiana, intrisa di omofobia: «Pensare alla vita di tuo figlio in mezzo a quelle difficoltà non è piacevole.
Per i propri figli si vorrebbe sempre il meglio, si vorrebbe risparmiare loro il dolore… Ricordo che ero titubante ed ho atteso che il momento fosse quello giusto, per andare a chiedergli qualcosa. Dopo di che tutto è arrivato all’improvviso…»
Per Mila il bene di Jacopo è sempre venuto prima di ogni altra cosa e, soffermandosi sulle reazioni, spesso rabbiose, di molte madri e di molti padri, di fronte al coming out di figlie e figli, mi confessa: «Dietro a quella rabbia c’è di tutto: paura, sensi di colpa…
Non credo che ci siano così tanti famigliari che siano propensi a cacciare i propri figli di casa, nonostante tutta la tristezza che la scoperta della loro omosessualità comporta. C’è anche molta confusione…
E anche questa è spesso motivata dalla paura… Sai, molti genitori sanno essere assai pesanti, come quel padre che raccontava spesso barzellette umilianti sui gay.
Da quando ha saputo dell’orientamento sessuale del figlio, non solo non lo fa più, ma ne è divenuto l’alleato più caro… Una persona eccezionale…»
Il nostro dialogo diventa sempre più intenso. Insisto sui sensi di colpa dei famigliari delle persone omosessuali – soprattutto di madri e padri – e le chiedo di approfondire il concetto.
Mila mi risponde che, nel suo caso, il ragionamento che seguì alla presa di coscienza dell’orientamento sessuale di Jacopo, fu: “Se ho dovuto intuirlo da sola, ciò vuol dire che lui non si è sentito abbastanza libero per dirmelo. Allora qualcosa non è andata come avrebbe dovuto…”
Nonostante la famiglia di Jacopo sia composta da persone aperte ed esenti da pregiudizi, in merito all’omosessualità, una madre come Mila ha pensato di non essere stata accogliente a sufficienza, nei confronti del figlio.
Inoltre, di fronte ad una società così omonegativa, la donna ha pensato di essere in possesso di tanti strumenti validi che, davanti all’atteggiamento di chiusura dimostrato anche da molti famigliari di persone LGBT, a poco servono se si pretende di tenere intere parti delle famiglie di origine all’oscuro di tutto.
E mi fa un esempio concreto: «Emma, la nostra nipotina (figlia quattordicenne di Marta, la sorella maggiore di Jacopo. n.d.a.): nei suoi confronti abbiamo avuto un’apertura totale, come famiglia.
Il nostro percorso di trasparenza ed autenticità è a tutto tondo ed ha coinvolto tutta la famiglia, anche i parenti meno stretti. Ciò le sta fornendo alcune sicurezze in più, in un delicato momento di crescita personale come l’adolescenza.
Dico sempre che sarà quel che sarà e che, in ogni caso, nessun nostro gesto ha fatto sì che lei potesse sviluppare un atteggiamento omofobico nei confronti dello zio».
Inutile sottolineare che tutti i famigliari di Jacopo, da quelli più stretti in poi, sanno del suo orientamento sessuale “altro” e ciò ha conferito ancor più autenticità non solo al ragazzo, ma all’intera compagine famigliare di Mila.
Quindi, affronto con la donna il discorso della totale chiusura dimostrata dalla chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali. La distinzione che Mila fa tra i vertici del Vaticano e la sua base è importante; la chiusura della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) è intransigente e, quel che è peggio, rivolta a tantissime questioni, tutte inerenti – e non è un caso – alla libertà individuale: «Questo che sta vivendo la chiesa cattolica – continua Mila – è un momento particolare: molte persone se ne stanno allontanando a causa della mancanza totale di adeguamento alla modernità da parte del Vaticano.
E poi si stanno affacciando, anche in Italia, diverse altre confessioni, non ultima quella islamica, per non parlare della chiesa evangelica, di quella valdese, ecc. Tutte confessioni che, qual più qual meno, stanno portando via fedeli al cattolicesimo.
L’atteggiamento dei suoi vertici è, secondo me, dettato da una politica sbagliata perché, invece di affrontare, di comprendere e di riprendere il cristianesimo delle origini, al fine di riportare al centro del messaggio evangelico la sacralità della persona, va nella direzione opposta.
Dio è amore per la persona! E purtroppo il Vaticano è diventato un potere politico ed economico mondiale, per cui ha tutte le sue cose da curare e, magari, sta perdendo di vista tutta la parte vera della chiesa».
Dalle sue parole emerge un fatto ancor più problematico di quello rappresentato dall’ostracismo della chiesa di Roma nei confronti del mondo LGBT ovvero la mancata accettazione, salvo rarissimi casi, delle persone omosessuali credenti da parte delle associazioni LGBT italiane. E mi spiega: «Esse non hanno mai accolto in modo pieno e totale queste persone… E ciò accade in prevalenza perché questi gruppi sono molto politicizzati e tendono a vedere nel connubio politica/fede qualcosa di incomprensibile.
Il fulcro sta tutto qui, nel concetto di laicità di uno stato: spesso si tende a non voler capire che si può essere credenti, indipendentemente dalla confessione religiosa, pur continuando ad essere laici… Altra cosa è l’impegno civico di ognuno di noi.
Ogni cittadina ed ogni cittadino ha necessariamente dei rapporti con uno stato che dovrebbe tutelare ogni persona, in modo laico, indipendentemente dal credo, dal sesso, dall’orientamento sessuale. (…) Non ravviso la necessità di tutta questa chiusura…».
E, spinta da una mia domanda riguardante il dolore che può provocare la chiusura del Vaticano nei famigliari delle persone omosessuali, mi confessa di provarne molto, in quanto madre e in quanto persona. A ferirla, aggiunge, è l’ignoranza di persone che si spingono ad un punto tale di ostinazione, da giungere a negare la dignità delle persone e la libertà individuale.
Arrivate quasi alla conclusione di questo proficuo dialogo, inframmezzato da telefonate, brevi scambi di battute fra Jacopo e Laura e rapide incursioni da parte della micia di casa sul luogo delle riprese, Mila ed io ci ritroviamo a parlare del diritto ad amare delle persone omosessuali, quel particolare che, dalla chiesa cattolica, è considerato come qualcosa di insignificante e viene collocato in secondo piano rispetto alla presunta mancanza di moralità di un’intera fetta della popolazione italiana: «E già… Il diritto ad amare… Mi chiedo come si possa riconoscere il diritto ad amare…
La trovo una cosa impensabile… Chi può mettersi su un piedistallo e dire “io amo meglio, io sono più bravo come genitore e la mia famiglia è la più bella?” Già una persona del genere a me darebbe evidenti segni di squilibrio…»
La mia intervista a Mila Banchi termina con un suo riferimento chiaro e netto all’omogenitorialità. La madre di Jacopo è convinta che la chiesa cattolica si sia resa complice della diffusione di una falsa convinzione, in Italia, quella che vuole le coppie omosessuali sterili o incapaci di amare e, a proposito dello scottante tema delle adozioni negate alle persone LGBT, aggiunge: «(…) come se ci fossero due modi diversi di amare, uno lecito e l’altro illecito perché immorale.
Si tende troppo spesso a dimenticare che l’importante è che il bimbo o la bimba da adottare è in cerca di amore e che, se quell’amore proviene da una coppia lesbica o gay, piuttosto che una etero, il discorso non cambia. È il contesto affettivo ad essere basilare…».
E conclude dedicando un pensiero alle tante veglie in ricordo delle vittime dell’omofobia che, a partire dal 12 maggio 2011, si sono svolte in molte città italiane, a volte all’interno delle parrocchie: «ritengo che (le veglie. n.d.a.) andrebbero diffuse di più, perché tante persone questo fatto dell’omosessualità collegata alla fede non lo conoscono. (…)
Il concetto di omosessualità nella fede, in un periodo storico, in Italia, in cui il dibattito sulla spiritualità è così forte, andrebbe approfondito.
Lo ritengo assai importante, anche perché è necessario mostrare una società possibile per tutte le persone che, attraverso i flussi migratori, giungono nel nostro Paese e vedono una società omofobica.
Quindi, se noi non riusciamo a lavorare su questo particolare così importante e se non riusciamo a scrollarci di dosso la falsa credenza di una chiesa cattolica preminente, con la sua omonegatività sociale così radicata, non facciamo altro che incoraggiare certi atteggiamenti che, magari, le persone che giungono in Italia, non hanno. (…)
L’importanza delle veglie, io credo, dovrebbe prevedere momenti di preghiera e di riflessione che coinvolgano anche i migranti e le loro diverse confessioni.
Questo è un vero modo di andare avanti, altrimenti rischiamo di restare al palo».