Le bugie hanno le gambe lunghe. Io, mio padre e il funerale del mio ex amante
Testimonianza* di Mark Dowd pubblicata sul sito del quotidiano The Guardian (Gran Bretagna) il 9 gennaio 2009, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Il mio compagno d’appartamento mi salutò con un’espressione insolitamente severa. Erano le 10 di sera, venivo dall’ennesima lunga giornata di lavoro e mi lasciai cadere sulla poltrona. “Dovresti ascoltare i messaggi in segreteria” mi disse. Allora andai vicino al telefono e premetti il pulsante rosso. Un parente di Manchester mi avvertiva che mio padre, 65 anni, era morto.
Dopo diversi cicchetti di whisky, trovai il coraggio di chiamare a casa. Mi rispose una voce famigliare: “Stai bene? Non mi pare, a giudicare dalla voce”. Era mio padre, ancora vivo e vegeto. Cosa stava succedendo? Presentivo qualche macchinazione, così terminai in fretta la chiamata e riascoltai il messaggio. Era un uomo che si definiva “zio”, ma non ricordavo di averne uno con quel nome. Aveva lasciato il suo numero e quando, nel soffice accento di Manchester, rispose dicendo “Ronnie Craddock”, il suo nome mi riportò subito indietro al 1979.
Avevo 19 anni e avevo trovato un lavoretto estivo come aiuto saldatore in una ditta di mobili. Il saldatore era un divorziato di poco meno di 40 anni, Bob Craddock, un tipo bruttarello e molto diretto nei modi, che mi attrasse fin dal primo istante. Era un tardoadolescente molto nervoso e stavo cercando di gestire la mia omosessualità; cosa che anche Bob stava cercando di fare. Ero attratto dalla sua personalità decisa e sicura di sé e intrattenemmo una storia tumultuosa, perlopiù consumata nei recessi più bui dell’officina.
Un pomeriggio, dopo molte settimane che lavoravamo insieme, avemmo il nostro primo battibecco. In pochi istanti mi tolsi la bardatura da saldatore: “A quel paese tu e il lavoro, io me ne vado” gridai, poi infilai il cancello della ditta. Saltai su un autobus che passava, ma cinque minuti dopo una donna seduta vicino a me mi diede una gomitata nelle costole e mi disse “C’è un uomo in macchina dietro il bus. Credo stia cercando di attirare la sua attenzione”.
Una Ford Cortina blu metallizzato si era fermata di fianco a noi in modo da bloccare il traffico. I passeggeri del bus allungarono il collo mentre Bob si sporgeva dal finestrino. Senza la minima coscienza di sé, ecco erompere l’amore che questa volta stava osando presentarsi per quello che era: “Ho bisogno di te, cacchio, ti adoro. Non voglio che finisca così. Per favore. Ti darò un aumento, ma cazzo, scendi da ‘sto bus!”. Non ci volle molto perché i passeggeri capissero a chi erano dirette queste frecciate di passione. Cominciarono a urlare e battere i piedi. “Frocetti!” gridò qualcuno. In un lampo scesi dall’autobus e mi infilai nella Cortina.
Un sorridente Bob innestò la marcia e partì a tutta velocità. “Ha funzionato, neh?”. “Bastardo idiota, tutti su quel bus lavorano alla ditta. E domani, cosa diciamo?”. Il suo volto divenne teso: “Qualcosa mi verrà in mente”. E fu davvero così. L’indomani mattina alle 7.45, con il cuore che batteva a mille, traversai zoppicando il cancello della ditta. Una folla di quegli operai che il giorno prima erano sul bus mi stava aspettando. “Ci dispiace per ieri” disse il loro portavoce non ufficiale “Sapevamo che avesse un figlio, ma non avevamo idea che fossi tu. Tutta quella commozione, quel sentimentalismo… pensavamo foste una coppia di… hai capito cosa”. Mi diedero delle pacche sulle spalle mentre Bob mi guardava con un ghigno compiaciuto. Gli chiesi di spiegarmi cosa stesse succedendo: “Mio figlio aveva solo due anni quando io e mia moglie ci separammo. Non l’ho più visto da allora, e francamente neanche ci tengo. Si chiamava Mark”.
Questa bugia tornò a galla dieci anni dopo, quando Bob morì in un incidente domestico nel suo piccolo appartamento di Hulme, a Manchester. Non era mai uscito allo scoperto con i suoi famigliari e anche a loro aveva detto che io ero suo figlio perduto. Andai a trovare suo fratello Ronnie, l’uomo che mi aveva comunicato la sua morte. Dopo dieci minuti passati con lui e sua moglie Sheila, capii che non avevano idea di chi fossi realmente. In mezzo al salotto troneggiavano due scatole piene di foto mie e di Bob in vacanza a Vienna nell’81, miei articoli di giornale e videocassette dei programmi che avevo condotto da giornalista. La nostra relazione, tra alti e bassi, era andata avanti per due anni, ma poi Bob aveva continuato a collezionare ossessivamente tutto ciò che mi riguardava.
“Lei porta il cognome da nubile di sua mamma, vero?” chiese fiduciosa Sheila. Il cuore mi sobbalzò, poi spiegai che ero semplicemente “un buon amico” a cui Bob si era affezionato in modo particolare. Mi guardarono a lungo, increduli. Poi chiesero quale fosse, allora, il vero figlio. Alzai le spalle. “Guardi, al funerale non lo vogliamo. Le foto sono tutte di lei e Bob. Ne sono in possesso tutte le zie e vogliono tutte conoscere lei” disse Ronnie; poi, dopo una lunga pausa “Vede, non voglio che pensino che mio fratello è un bugiardo. È meglio se viene, d’accordo? Il funerale sarà venerdì”. Mi stavano chiedendo di seppellire il mio ex amante, perché i famigliari credevano fossi suo figlio.
La notizia della morte di Bob arrivò ai suoi ex colleghi e decine di saldatori machissimi vi videro l’occasione di fare un giorno di ferie. Dall’altro lato dell’universo di Bob, diverse drag queen provenienti dall’ambiente gay di Manchester volevano offrire al “Bacardi Bob” una gloriosa festa d’addio. Poi, la sera prima del funerale, venne il colpo di grazia. Ero con i miei genitori e mio padre mi chiese cosa mi avesse portato a Manchester. “Una circostanza un po’ triste. Un funerale” mormorai. “Chi è morto?” “Non credo tu ti ricorda di lui, era un tipo con cui ho lavorato prima dell’università.” Mi ricordavo che lui e Bob si erano stretti brevemente la mano, un giorno in cui Bob mi aveva dato uno strappo a casa. Poi arrivò la frase che rimarrà per sempre scolpita nella mia mente: “Domani non ho niente da fare. Verrò con te a farti un po’ di compagnia”.
Non so come mai non ci restai secco. Più cercavo di dissuaderlo, più era concreto il pericolo di far trapelare la verità. Mio padre sapeva che ero gay e la cosa non lo sconvolgeva più di tanto, ma una cosa è parlare in generale della tua attrazione per gli uomini, un’altra confessare la mia relazione con un uomo più o meno della sua età.
Fu quasi un miracolo arrivare al giorno dopo senza incidenti. Nominai assistente mio fratello minore: doveva accompagnare papà e impedirgli di parlare con i parenti. Arrivati nella cappella, lo “zio” Ronnie ci mostrò i nostri posti. “Quello chi è? E cosa fa qui?” mi sussurrò Ronnie facendo cenno verso mio padre. Gli spiegai tutto e fece un cenno di contenuta insofferenza: “Speriamo bene”. Diedi uno sguardo ai banchi dove le drag queen tutte in ghingheri occhieggiavano gli uomini e facevano gesti significativi. Pregai.
Ma fu dura, molto dura.
Il mondo frammentato di Bob gli cantò il suo addio sulle note di Dio dell’immensa speranza e mio fratello fece da paraocchi a papà, tenendolo separato dal clan Craddock. L’unico grande pericolo fu quando si avvicinò una coppia di zie sbaciucchianti: “Oh, hai gli stessi occhi di tuo papà!” disse una di loro; papà sorrise e si sporse “Oh, molte grazie”. Le zie sembravano confuse, ma prima che accadesse il disastro, arrivò mio fratello e offrì a papà un’altra pinta. E così per due ore al ricevimento degli intervenuti: strinsi mani, feci grandi sorrisi, e sopravvissi incolume.
Molti anni dopo cominciai a scrivere una sceneggiatura per un film comico ispirato a questo episodio. Mi confidavo di più con papà, che aveva incontrato molti dei miei compagni, così in un momento di follia gli spedii una copia della sceneggiatura. Qualche giorno dopo, mi trovai con mia madre al telefono: “Ho letto quello che hai scritto. Io ho capito, ma tuo padre no. È Alan Bennett allo stato puro”. Mio padre è morto nel 2005. È andato nella tomba senza sapere mai di questa incredibile storia.
* Alcuni nomi sono stati cambiati.
Testo originale: I went to my ex-lover’s funeral as his son