‘Chi è il mio prossimo?’ (Lc 10, 20). Riscoprire nell’altro l’amore di Dio
Riflessioni del pastore Eric Noffke*, settimanale Riforma n. 23, 10 giugno 2011, pag.3
La parabola proposta in occasione della domenica del rifugiato (il 20 giugno) è una delle più note del Nuovo Testamento: ad un maestro della legge, che chiede a Gesù chi sia il prossimo da amare e di cui si parla nella regola aurea, il Nazareno risponde raccontando la storia di un uomo ferito dai briganti e abbandonato in fin di vita sul ciglio della strada.
Non soccorso da un sacerdote e da un levita di passaggio, il malcapitato ebreo viene invece salvato da un samaritano (Luca 10, 29b-37).
L’interpretazione più comune del passo si appoggia sull’ultimo versetto, in cui Gesù esorta lo scriba ad usare misericordia come fece il samaritano, identificando così quest’ultimo con il credente.
Ne risulta, però, una banalizzazione del messaggio, limitandosi ad una generica esortazione ai buoni sentimenti nei confronti di chi pare essere più sfortunato di noi.
Se non vogliamo annacquare una parabola che, al contrario, intende scardinare le umane ipocrisie e il normale concetto di «prossimo», allora dobbiamo tenere presente almeno un altro elemento del testo.
Lo scopo principale del racconto di Luca, infatti, non è tanto di esortare alla compassione per il malcapitato, quanto, piuttosto, di mettere in evidenza il modo paradossale e provocatorio in cui l’amore di Dio si manifesta, invitandoci a riflettere su come noi viviamo nei confronti del prossimo quell’amore che da Lui riceviamo.
Non si tratta di dare lo spicciolo allo zingaro o di accogliere il rifugiato, perché ci appaiono più sfortunati di noi.
Si tratta di amare chi non vorremmo, di accogliere o soccorrere chi non ci saremmo mai aspettati. Per attualizzare il discorso, il nostro prossimo da amare non sono tanto il tunisino in fuga o il barbone che dorme per strada, quanto piuttosto Gheddafi e i suoi soldati, gli inquinatori del pianeta, il nostro vicino di casa insopportabile…
Si tratta di impostare la nostra vita e le nostre relazioni con gli altri annullando le categorie di amico e nemico. Ma chi di noi è davvero in grado di far questo?
Penso che solo il Signore, per il suo amore incondizionato per la sua creazione, possa essere rappresentato dal buon samaritano. E noi?
A noi farebbe bene imparare a vestire i panni del poveretto, aggredito dai ladri. Di fronte a Dio, dobbiamo riconoscerci come coloro che sono stati privati di tutto e che morirebbero se non intervenisse Lui a prendersi cura di noi.
Noi europei forse ci sentiamo ricchi signori che possono aiutare il prossimo, ma non potremo aiutare proprio nessuno se prima non ci scopriamo bisognosi a nostra volta di aiuto.
Tutti abbiamo bisogno di ricostruire la nostra vita su qualcosa di vero, altrimenti non faremo che condividere delle catene e delle gabbie. O Dio interviene a liberarci da esse, oppure ci ritroveremo tutti e tutte ad affondare sulla stessa barca.
Se ci comprendiamo sconfitti e umiliati, come il malcapitato della storia, allora forse avremo la possibilità di identificarci con l’oste, il quale riceve dal samaritano quanto necessario per aiutare chi gli viene affidato.
Solamente se partiamo dai nostri talenti, potremo pensare di aiutare qualcuno; ma, in fondo, che cosa abbiamo noi che non abbiamo ricevuto da Lui?
Finché considereremo come nostro possesso privato i doni di Dio, non saremo mai liberi dalle catene che ci imprigionano, e così ogni «buona azione» sarà solo un atto ipocrita, utile ad illuderci di poterci pulire la coscienza.
Con la parabola del buon samaritano, dunque, Gesù chiama i suoi lettori ad uscire da una interpretazione del presente fatta di paura, egoismo, ipocrisia, per immaginare il mondo e la nostra vita in esso alla luce della parola di un Dio che si fa prossimo nostro, strappando le nostre catene, scardinando le nostre gabbie e rivelandoci così prossimi l’uno dell’altro proprio là, dove prima ci avevano detto di essere nemici.
Allo stesso modo in cui il malcapitato salvato dal samaritano potrà ricominciare la sua vita, anche noi, nel contesto di un mondo pieno di ladri e di briganti, troppo sovente in doppiopetto, dobbiamo trovare il nostro posto come coloro che vogliono ricominciare il loro cammino dopo aver perso il superfluo ed aver ricevuto tutto l’indispensabile dal Signore.
Solo allora avremo qualche cosa da condividere e i doni del Signore potranno aiutarci a soccorrere davvero a nostra volta l’altro o l’altra. Solo allora l’esortazione «Và, e fà anche tu la stessa cosa» comincerà ad assumere un vero significato.
* coordinatore della Commissione Essere chiesa insieme