“Ho sposato mio marito e avuto figli senza lottare”, invece in Italia “le famiglie arcobaleno non possono’
Articolo di Dario Accolla pubblicato sul sito de il Fatto quotidiano il 7 luglio 2018
Tecnicamente parlando, Anna Rita è quella che nel variegato “gergo gay” può essere definita una “frociarola”. Termine affettuoso con cui la comunità Lgbt ama identificare le sue icone quotidiane: persone eterosessuali (donne, ma non solo) che a un certo punto scoprono la comunità arcobaleno, se ne innamorano – ed è amore reciproco – e cominciano un percorso fatto di piccoli gesti e di passi in comune.
Se passi da Cagliari, in questi giorni, non puoi non notare la grande bandiera rainbow che sventola dal palazzo del municipio. È ormai da quasi quaranta giorni che è lì: messa in occasione della Queeresima, la grande rassegna di eventi che colora la Sardegna da fine maggio al giorno del Pride, che si terrà proprio oggi pomeriggio, e che offre alla città momenti di cultura, svago e aggregazione. È lì, in quella piazza, che l’ho incontrata, per un caffè sotto i portici, di fronte alla marina.
«Quando ho detto, a quella mia amica, che i miei figli non sono omosessuali e che vado al Pride perché penso sia giusto, mi ha guardato come se fossi un alieno», mi dice sorridendo, mentre sorseggia un succo di pompelmo e mentre il vento proveniente dal mare mitiga un’altra giornata che rinchiuderà la gente del luogo dietro le persiane delle case basse del centro, nelle ore più calde. «Come se fosse qualcosa che non mi riguardasse» mi fa ancora, quasi incredula, «ma io penso che certe lotte le fai e basta, e non perché ti toccano direttamente».
Anna Rita un bel giorno si è accorta che tutta quella che era stata la sua vita, non era altro che un felice accidente. Un privilegio. Lo definisce così, lei stessa. «Mi sono innamorata di mio marito, l’ho sposato. Ho avuto i miei figli e non ho mai dovuto lottare per questo». E le fa rabbia che altre persone non abbiano la sua stessa fortuna: «Penso alle Famiglie Arcobaleno, a tutti quei bambini che non hanno gli stessi diritti». Le ricordo delle dichiarazioni del ministro Fontana, allora. Si ferma, come le se si fermasse il respiro. Scuote la testa: «Non ci si può credere…»
Il suo incontro con l’universo Lgbt avviene per caso. Nasce proprio a casa sua, quando i suoi figli – un ragazzo e una ragazza, tra i diciotto e i vent’anni – andavano alle scuole medie e rendendosi conto che tra gli adolescenti c’era troppo pregiudizio: «Usavano il cognome del ragazzino di turno e gli affibbiavano la parola “gay”, come insulto. Proprio la parola “gay”». Decide di parlarne con suo marito, quindi, perché sente di dover fare qualcosa: «I rimproveri lasciano il tempo che trovano, pensai. Bisognava dare l’esempio». E così è cominciata una narrazione, proprio in famiglia, in cui il termine gay, senza virgolette, non portasse con sé ombre e pregiudizi.
«Guardavo i telefilm con personaggi Lgbt. Ad un certo punto i miei figli andavano a scuola e dicevano che sì, mamma guarda i film con i gay» e si mette a ridere, un po’ imbarazzata, un po’ orgogliosa. «Ho sempre avuto una forte empatia nei confronti delle persone e di certe questioni. Mi ricordo negli anni 90, quando con la Lila, qui a Cagliari, si cercava di sensibilizzare la gente sulla questione dell’Aids». Si ferma un attimo, come a raccogliere i pensieri. «Mi auguravo, già allora, che la società avrebbe fatto passi avanti» riprende, con una punta di amarezza, «ma oggi nel 2018 devo constatare che ne sono stati fatti davvero pochi».
Intanto il tempo scorre, a casa l’aspettano e c’è da dar da mangiare al gatto, il nuovo arrivato: «Ha tre mesi e mezzo, è un cucciolo!» e lo dice con tenerezza, mentre realizza, ancora, che «succede sempre così, a un certo punto i ragazzi vanno via di casa e arrivano gli animali». Prendiamo accordi per il giorno dopo, perché faremo un pezzo di corteo insieme. «Quest’anno partecipa anche mia nipote. Mi ha detto che viene con i suoi amici. Lei è come me…» e sorride.
Una famiglia di “frociarole”, si direbbe appunto a Roma. Anche se forse bisognerebbe parlare, più ad ampio spettro, di un’unica grande famiglia. Quella che, nell’idea di Anna Rita, prevede «una società in cui tutti e tutte possano essere realmente se stessi». E me lo dice così, lei che ai Pride ci viene solo perché pensa che sia giusto farlo. Con queste parole precise.