“Ero forestiero e non mi avete ospitato” (Mt 25,43)
Articolo pubblicato sulla rivista Qol, n. 186/187 di Aprile/Maggio/Giugno 2018.
Il Giudizio finale, così come descritto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, ci propone non una norma giuridica da applicare con valore retroattivo a chi sembra non essere a conoscenza della modalità con le quali vengono valutate le opere compiute, ma un modello di vita capace di costruire una società a misura d’uomo secondo il piano di Dio.
Quella che Gesù prospetta è una controsocietà, o meglio: una società rovesciata, che tende a scardinare le modalità umane di intendere il potere e il convivere in un contesto sociale organizzato. Le azioni che ci propone non sono, come una certa lettura moralizzante vorrebbe farci intendere, opere di misericordia corporale (come tali di livello apparentemente inferiore alle opere di misericordia spirituale), ma un disegno preciso e mirato, volto a stigmatizzare i falsi valori su cui l’uomo tende a fare affidamento nel suo rapportarsi con gli altri uomini.
Sei sono le azioni che l’uomo (non il credente, si badi, ma qualunque uomo) è chiamato a compiere.
In ordine seguendo il testo: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, ospitare i forestieri, vestire i nudi, visitare i malati, andare a trovare i carcerati. Non è chiesto di pregare, di compiere precetti, di partecipare a riti liturgici, di digiunare o di fare penitenza, ma è posta come discrimine tra l’essere e il non essere fedeli al piano di Dio la capacità di promuovere la dignità dell’uomo partendo dagli oppressi, dai poveri, dagli emarginati, da chi non ha voce e da chi è condannato a vivere in una condizione di non umanità, molto spesso per colpa nostra o con la nostra omertosa complicità.
Qualche teologo potrebbe obiettare che non ci si salva grazie alle opere ma solo per fede e qualcun altro potrebbe sostenere che le sei opere (non sette come vorrebbe la suddivisione canonica delle opere di misericordia corporale) sono categorie morali generali che prefigurano una più complessa articolazione delle azioni da compiere nel mondo come cristiani o come uomini di fede. In realtà, le parole di Gesù sono categoriche e non lasciano spazio a dubbi interpretativi: le chiavi della salvezza, quelle in grado di aprire le porte del Regno dei cieli o del mondo a venire, sono nelle mani di chi è affamato, di chi ha sete, di chi è forestiero, di chi è nudo, di chi è malato e di chi è carcerato. Ed è da loro, e solo da loro, che possiamo meritare di ottenerle, qui ed ora. Non da altri, nemmeno da Dio. E questa, forse, è la parte più radicale e sconvolgente dell’insegnamento di Gesù di Nazaret.
Se lo era ieri, a maggior ragione lo è oggi in una società fondata esclusivamente sulla visibilità sociale e condizionata da potentati economici che determinano, senza alcun vincolo morale, le sorti di miliardi di uomini, molti dei quali sono costretti, per diverse ragioni e temperie storiche ed economiche, a lasciare la loro casa e la loro terra per trovare altrove condizioni che li possano rendere (forse) finalmente uomini. Ecco allora che la condizione del forestiero diviene l’icona del nostro tempo e, alla luce delle parole del Vangelo, la nostra via di salvezza. Oggi, infatti, il forestiero che migra verso le nostre terre e viola quei confini che alcuni vorrebbero rendere intoccabili, è anche colui che ha fame, colui che ha sete, colui che è nudo, colui che è malato e, in molti casi come ci mostrano le statistiche, colui che è in carcere.
Oggi, quindi, se davvero vogliamo essere fedeli a quel Vangelo che troppo spesso amiamo brandire in mano come arma della nostra (pseudo) identità o declamare con parole che rischiano di rimanere vuote e vane, è al forestiero (lo xènos, secondo le parole del Vangelo; il gher, secondo quelle della Bibbia ebraica) che dobbiamo rivolgerci per ritrovare in quella dignità che dovremmo sforzarci di riconoscergli, la nostra nascosta sotto scorze che non ci permettono più di vedere nel volto del forestiero il nostro stesso volto.
Per trovare conferma alla necessità di seguire la via dell’accoglienza e del riconoscimento, affidiamoci alla parole di Martin Buber che così traduce il passo di Levitico 19,18 : “Amerai il prossimo tuo, è te stesso”.
Chi è oggi il prossimo tuo? Il forestiero.
Facciamo, allora, in modo che, non possano essere rivolte a noi le parole del Giudice: “Ero forestiero e non mi avete ospitato”.