Padre James Martin: basta con la caccia alle streghe contro i sacerdoti gay
Articolo di padre James Martin SJ* pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 30 agosto 2018, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Non sorprende certo che i cattolici siano furiosi di fronte agli abusi sessuali recentemente venuti alla luce con: le accuse all’ex cardinale ed ex arcivescovo di Washington DC, Theodore McCarrick; con il rapporto del Gran Giurì della Pennsylvania, che documenta settant’anni di abusi in quello Stato; ed il memorandum di 11 pagine dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò, secondo il quale molti alti prelati, incluso papa Francesco, avrebbero insabbiato questi abusi.
I cattolici hanno tutto il diritto di infuriarsi con i preti abusatori, con i vescovi che li hanno coperti e con un sistema clericale sclerotico, il quale ha permesso che questi crimini avvenissero ed ha fatto sì che andassero avanti per decenni. Ma non ricordo di aver mai visto un tale livello di odio e di rabbia verso i sacerdoti gay.
Con “sacerdoti gay” intendo uomini ordinati, dall’orientamento omosessuale, che rimangono fedeli alla promessa di celibato (o al voto di castità, se sono religiosi). È necessario definire il termine “sacerdoti gay”, vista la diffusa disinformazione che circonda uno dei temi più roventi del momento. Alcuni opinionisti sono arrivati a dire che il termine “gay” sottintende il fatto che questi sacerdoti siano sessualmente attivi, ma io utilizzo il termine “sacerdote gay” nel senso di persona ordinata con un orientamento omosessuale.
La rabbia, che covava da molto tempo, contro i sacerdoti gay e la cosiddetta “sottocultura omosessuale” o “mafia lavanda”, è stata attizzata fino a diventare un fuoco che minaccia di inghiottire non solo ottimi sacerdoti gay ma, in generale, le persone LGBT.
Il disprezzo verso i sacerdoti gay è manovrato da un pugno di cardinali, di vescovi e di sacerdoti, oltre che da un gruppetto di opinionisti cattolici, ed è tanto intenso quanto pericoloso: “È tempo di ammettere che esiste una sottocultura omosessuale, all’interno della Gerarchia della Chiesa Cattolica, che sta compiendo una grande devastazione nela vigna del Signore” ha scritto il vescovo di Madison nel Wisconsin, Robert Morlino. Un vescovo svizzero, Marian Eleganti, ha affermato che bisogna indagare nella “rete” dei sacerdoti gay prima che la “grande purificazione” possa avere inizio. Secondo un vescovo del Kazakhstan, Athanasius Schneider, uno dei rimedi per contrastare gli abusi sessuali è “fare piazza pulita, senza compromessi, delle cricche omosessuali nella Curia Romana e nell’episcopato”. Il cardinale Raymond Burke, l’influente ex arcivescovo di St. Louis, ha detto: “Esiste una cultura omosessuale, non solo tra i sacerdoti, ma anche all’interno della Gerarchia, che deve essere eliminata alla radice”. Michael Hichborn, presidente dell’Istituto Lepanto, parlando con l’Associated Press arriva all’inevitabile conclusione che c’è bisogno di ”una rimozione completa e senza sconti di ogni sacerdote omosessuale”.
Negli ultimi giorno sui social media ho letto una quantità esorbitante di commenti omofobi, e non c’è da stupirsene, dopo certi commenti da parte dei vescovi e degli opinionisti cattolici e dopo titoli come questi: “Abusi sessuali: il Papa dà la colpa al clericalismo, non all’omosessualità”; “Gli abusi sessuali nella Chiesa si devono all’omosessualità, non alla pedofilia”; “Il cancro mortale della Chiesa sono i predatori omosessuali, non i preti pedofili”.
Anche il “memorandum” di monsignor Viganò fa sfoggio dello stesso tipo di linguaggio: “Queste reti omosessuali, ora diffuse in molte diocesi, seminari, ordini religiosi etc. agiscono in segreto e nella menzogna, con la forza dei tentacoli di un polpo: strangolano vittime innocenti, strangolano vocazioni sacerdotali, strangolano l’intera Chiesa”. [Nota bene: sia monsignor Viganò nel suo “memorandum”, sia il cardinal Burke in una recente intervista, citano il mio nome.]
È importante precisare che, nella maggioranza dei casi di abusi sessuali da parte del clero (ma non sempre), le vittime sono bambini e adolescenti maschi, così come, nella maggioranza dei casi di molestie sessuali (ma non sempre), i protagonisti sono uomini che molestano altri uomini o ragazzi. Lasciando da parte complesse questioni psicologiche, come il ruolo degli abusi nella sessualità di una persona, quanto conti l’autorità di chi abusa e quanto la sua vicinanza, dobbiamo affermare con chiarezza che molti dei sacerdoti che hanno compiuto abusi hanno un orientamento omosessuale. Questo è innegabile.
Però, se vogliamo fare un ulteriore passo, la discussione può prendere una piega pericolosa. Che molti sacerdoti abusatori siano gay,non significa che tutti, o la maggior parte dei sacerdoti gay siano abusatori. Questo è uno stereotipo pericoloso e ingiusto: il fatto che una determinata percentuale di un gruppo agisca in una certa maniera, non significa che l’intero gruppo, o la maggioranza del gruppo, agisca nella medesima maniera.
Allora, come mai sembra ci siano tanti sacerdoti gay che compiono abusi? Una delle ragioni è che non sono stati resi noti al grande pubblico degli esempi di sacerdoti gay che vivono sanamente il loro celibato e che possano contrastare questo stereotipo. Perché no? Perché i sacerdoti gay non sono disposti a rendere pubblica la loro identità, come possono esserlo i sacerdoti eterosessuali. Per esempio, in un luogo in cui si assiste a una ondata di violenza contro le persone LGBT, probabilmente nelle omelie domenicali non ci sarà nessun riferimento al bullismo omofobo, e il sacerdote non dirà “Quando ero un ragazzino, anch’io sono stato vittima di bullismo, perché sono gay”.
Perché i sacerdoti gay non se la sentono di farsi conoscere come tali? Per molte ragioni. Primo, la paura di uscire allo scoperto in un ambiente sempre più tossico (chiedetevi se voi fareste coming out in una Chiesa in cui i vescovi invitano a “fare piazza pulita” degli uomini come voi). Secondo, i vescovi e i superiori degli ordini religiosi temono che i loro uomini (che vivono nel celibato o nella castità) possano venire presi di mira dai media e dai siti web omofobi. Terzo, una strisciante vergogna della propria sessualità. Quarto, un innato desiderio di mantenere privato un aspetto personale della propria vita. Quinto, il timore che, in assenza di altri sacerdoti gay dichiarati, si possa diventare un “emblema” del gruppo.
Tutto questo significa che l’esempio dei molti sacerdoti gay attivi nella loro missione e sanamente celibi (o casti, se membri di un ordine religioso) è quasi del tutto assente dalla consapevolezza della Chiesa e del pubblico. Ci sono alcune eccezioni, come padre Gregory Greiten, dell’arcidiocesi di Milwaukee, e padre Fred Daley, della diocesi di Syracuse, due sacerdoti gay dichiarati, ma i sacerdoti che, come loro, hanno fatto coming out si contano sulle dita di una mano. Fino a che i vescovi e i superiori non avalleranno il desiderio dei sacerdoti gay di dichiararsi pubblicamente, e questi ultimi non saranno disposti a pagare il prezzo della sincerità, è difficile che la situazione cambi.
La conseguenza è che oggi predomina lo stereotipo del “prete gay che abusa”. Facciamo un esempio: immaginate che le uniche storie diffuse dai media a proposito dei membri di un determinato gruppo (etnico, sociale o religioso) siano quelle dove alcuni dei membri commettono crimini; immaginate inoltre che non vengano diffuse le storie positive di quei membri che rimangono fedeli alla legalità; sicuramente dominerebbe uno stereotipo negativo: “Tutti i membri di quel gruppo sono criminali” (purtroppo questo non è uno scenario inverosimile: sono molti i gruppi etnici su cui pesano questi stereotipi).
Questa paura innesca un circolo vizioso: se pochi sacerdoti gay celibi escono allo scoperto, si diffondono gli stereotipi; se si diffondono gli stereotipi, aumenta la paura; se aumenta la paura, sempre meno sacerdoti escono allo scoperto.
Ci sono altri stereotipi molto negativi che vengono spacciati per veri, come l’idea che l’omosessualità conduca inevitabilmente all’abuso sessuale. Questo stereotipo è contraddetto da quasi tutti gli studi in proposito, come il John Jay Report, uno studio esauriente degli abusi sessuali nella Chiesa Cattolica tra il 1950 e il 2010. La maggior parte degli abusi sessuali avviene in famiglia, ma non mi risulta che qualcuno dica che l’eterosessualità conduce inevitabilmente all’abuso.
Dietro tutto questo, forse c’è una spiegazione più esauriente: l’intensa omofobia che ancora esiste in certi settori della Chiesa, e che deve essere chiamata con il suo nome: odio. Qualche giorno fa un sacerdote omosessuale mi ha scritto questa intelligente osservazione: “Siamo così abituati al fatto che gli omosessuali vengano trattati in questo modo dalla Chiesa che rischiamo di interiorizzare il bigottismo omofobo, che ora sta infuriando e di cui Viganò è un esempio, e di non riuscire a chiamarlo con il suo nome. Questo è odio profondo, e se attacchi del genere venissero sferrati contro altri gruppi, etnici o religiosi, le reazioni, anche da parte di alcuni settori della Chiesa, sarebbero molto diverse, ma dato che i sacerdoti gay sono stati condizionati a interpretare la parte del capro espiatorio, ci vergogniamo e non ci difendiamo”.
Esiste una “sottocultura gay” nella Chiesa? Non ho mai prestato servizio in Vaticano, quindi non so dire nulla di quell’ambiente, ma in trent’anni di vita nell’ordine dei Gesuiti ho visto che i sacerdoti gay, nelle diocesi statunitensi e negli ordini religiosi, lavorano fianco a fianco senza problemi con i confratelli e i laici eterosessuali: assistenti alla pastorale, consigli parrocchiali, semplici fedeli, presidi, amministratori e insegnanti; anche negli ordini religiosi, vivono pacificamente con i loro confratelli eterosessuali.
Dirò di più: conosco centinaia di sacerdoti gay e posso dire sinceramente che tutti loro si impegnano a mantenere la loro promessa di celibato o voto di castità, che nessuno di essi cospira con altri sacerdoti omosessuali e che molti di loro sono demoralizzati da questa caccia alla streghe sempre più accanita.
Da dove viene questo odio estremo nei confronti dei sacerdoti gay? Dalla paura. Paura dell’”altro”. Paura di chi è diverso. Talvolta, paura della propria complicata sessualità. In un’epoca di paura, dare la colpa all’”altro”, trattarlo come capro espiatorio, fa sentire forti. Come scrive il filosofo René Girard, il capro espiatorio unisce le persone attorno a un nemico comune e le induce falsamente a credere di aver risolto il problema.
Questo odio, aizzato da alcuni influenti vescovi e opinionisti, se non controllato ci porterà in tenebre fitte, dove l’odio sempre più accanito contro individui innocenti e la condanna di un intero gruppo di persone svieranno l’attenzione dai veri problemi sottostanti gli abusi sessuali.
Molte cose andrebbero analizzate quando si parla di questi scandali: la cattiva scelta dei candidati al sacerdozio; la cultura clericale prevalente, che privilegia la parola dei sacerdoti rispetto a quella dei laici (e dei genitori); la formazione scadente dei seminari e degli ordini religiosi, soprattutto sulle tematiche legate alla sessualità; la necessità di regole che puniscano i vescovi responsabili degli insabbiamenti, e molti altri fattori.
Non abbiamo certo bisogno di demonizzare i sacerdoti gay. Non abbiamo certo bisogno di altro odio.
* Il gesuita americano James Martin è editorialista del settimanale cattolico America ed autore del libro “Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt” (Editore Marcianum, 2018). Padre James ha portato un contributo sull’accoglienza delle persone LGBT nella Chiesa Cattolica all’Incontro Mondiale delle Famiglie Cattoliche di Dublino e porterà una sua riflessione anche al 5° Forum dei cristiani LGBT italiani (Albano Laziale, 5-7 ottobre 2018).
Testo originale: The witch hunt for gay priests