Per superare il Clericalismo nella chiesa cattolica. Dieci idee per cambiare
Testi di Bruno Bouvet, Claire Lesegretain, Malo Tresca, Gauthier Vaillant, Julien Tranié, Nicolas Senèze pubblicati sul sito cattolico de “La Croix” (Francia) il 30 agosto 2018, traduzione di www.finesettimana.org
Nella Lettera al popolo di Dio, il papa definisce il clericalismo il male principale che influisce sul funzionamento della Chiesa. Inizia un tempo di lavoro per l’insieme dei battezzati. La Croix propone dieci piste di riflessione: dal ruolo dei preti al governo della Chiesa, alla teologia del
battesimo.
La rivelazione di terribili abusi sessuali nella Chiesa americana, fino alla messa in discussione del cardinale Theodore McCarrick, arrivate dopo tanti scandali (Cile, Australia…) ha spinto, il 20 agosto, papa Francesco a fare un gesto di portata simbolica inedita: rivolgere una lettera all’insieme dei cattolici del mondo intero. 1,3 miliardi di persone. Fin dalle prime righe, scrive: “Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi”.
Francesco lo ha capito: come continuano a ricordargli le vittime in questi ultimi giorni, il perdono non basta. Bisogna cercare ormai un cambio di cultura. Il compito, immenso, può sembrare molto vago e rischia di sfuggire sotto il peso di un sistema che scoraggia le riforme. I prossimi mesi mostreranno come i battezzati risponderanno concretamente alla lettera del papa.
Fin d’ora, La Croix, schizza dieci piste per rimediare al male che il papa ha identificato come il terreno fertile degli abusi di ogni sorte nella Chiesa: il clericalismo. Dietro a questa parola si nasconde un gran numero di comportamenti, talvolta così radicati da sembrare innati, che mantengono una maniera cristallizzata di concepire la vita nella Chiesa e particolarmente la sua governance. Il papa invita
ogni cattolico a porsi interrogativi sulle sue pratiche, senza anticipare conclusioni a questo esame di coscienza.
1/ Mettere i preti al loro giusto posto
In primo luogo, etimologicamente, il clericalsimo sembra mirare ai preti. Il papa lo definisce come una “maniera deviante di concepire l’autorità nella Chiesa”. E riguarda sia il prete, nel modo in cui si percepisce, sia i laici, nel loro modo di comportarsi nei suoi confronti. Una considerazione del prete come superuomo, una fiducia cieca nella sua autorità, un’ignoranza delle sue fragilità e, in senso più ampio, della sua umanità… sono alcune delle modalità in cui può esprimersi il clericalismo e di cui, molto spesso, si trova traccia nei fatti di abusi commessi da preti.
L’attaccamento ai titoli gerarchici è un altro esempio di ciò che denuncia il papa. Lui stesso ha ridotto di molto, fin dal gennaio 2014, l’attribuzione dei titoli onorifici di “Monsignore” ai preti. Un modo per lottare contro il carrierismo del clero. Oggi, nel modo in cui sono formati i giovani preti, “la nozione di carriera o ambizione clericale è superata”, assicura padre Jean-Luc Garin, superiore del seminario interdiocesano di Lilla. E anche la collaborazione con i laici è vista in maniera molto meno gerarchica. “Il sacerdozio è fatto per il
servizio, non per se stesso”, ricorda padre Garin. La dimensione umana del prete è anche tenuta di più in considerazione. Ad esempio, al seminario di Lilla, è previsto un accompagnamento dei seminaristi da parte di una psicologa.
Il momento di formazione dei futuri preti, determinante per l’esercizio del ministero, sembra quindi essere pensato oggi proprio in modo da evitare le derive del clericalismo. La nuova Ratio fundamentalis, il “programma” edito dal Vaticano per la formazione dei preti, pubblicata nel 2016, va in questa direzione.
2/Dare ai laici il loro giusto spazio
Non mancano gli esempi di clericalismo laico: parrocchiani presenti da vent’anni nelle équipe di animazione pastorale e che ne impediscono il rinnovamento, altri che difendono l’ordine prestabilito con il pretesto che il parroco ha affidato loro una missione…
Alcuni hanno talvolta tendenza a “ridurre il popolo di Dio ad una piccola élite”, conferma Mons. Jérôme Beau, presidente della Commissione episcopale per i ministri ordinati e i laici in missione ecclesiale. Concretamente: c’è chi ritiene che essere un buon cristiano equivale ad avere un incarico dal parroco. Questa concezione comporta frizioni e divisioni nelle comunità in cui ognuno fatica a trovare il proprio spazio, in particolare i giovani.
Secondo Mons. Beau, la nozione chiave per ridare il giusto spazio ai laici sta nel servizio. “Un laico clericale esercita un potere, non rende un servizio”. Con la diminuzione del numero dei preti, un numero sempre maggiore di battezzati si vede affidare dei servizi. “Questo ci invita a ripensare la comunione ecclesiale”, insiste l’arcivescovo di Bourges, che vede il futuro delle parrocchie come delle “comunità autoportanti”, in cui nessuno, nemmeno il prete, è al di sopra degli altri.
In questa prospettiva, ridare ai laici il loro giusto spazio invita a parlare di missione piuttosto che di funzione, a cui sarebbe legato un potere. Da alcuni anni, i laici in missione ecclesiale ricevono un incarico di una durata limitata di tre anni, rinnovabile. In definitiva, la missione del laico è “rinunciare a un potere che domina, per servire nella carità”, riassume Mons. Jérôme Beau.
3/Ricordare l’uguaglianza di tutti di fronte al battesimo
“Tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana”, ha affermato il Concilio Vaticano II (Lumen gentium V,40). In questo senso, ricorda il teologo gesuita Christoph Theobald, insegnante al Centre Sèvres, “il battesimo instaura un principio fondamentale di uguaglianza tra tutti i battezzati, e questo è più importante di tutto il resto”. Il Vaticano II ha anche affermato che tutti i battezzati hanno “il senso della fede” e che questo dà loro certi diritti, tra cui il diritto di associarsi. “I fedeli possono organizzarsi in gruppi come vogliono, per leggere il Vangelo o per esercitare la solidarietà, prosegue padre Theobald. E se si tratta di una associazione di diritto privato, i fedeli non devono rendere conto al clero di ciò che vivono”.
Christoph Theobald riconosce le difficoltà reali a vivere l’uguaglianza battesimale, ma constata anche che tali difficoltà non sono specifiche della Chiesa: in tutti i settori della società, si instaura una gerarchia tra gli specialisti e gli altri. “È facile prendere i preti per degli ‘specialisti del religioso’ e lasciar fare a loro il lavoro. Questo produce delle angosce, sia nei preti, sommersi di impegni, sia nei fedeli delusi di non avere più preti disponibili”.
L’uguaglianza tra fedeli e preti è tanto più fondamentale in quanto si basa sul rapporto di “gerarchia rovesciata” vissuta da Gesù: “Il più grande tra voi diventi come il più piccolo”, dichiara Cristo dopo l’istituzione dell’Eucaristia (Lc 22,26). Dato che Gesù ha invertito l’ordine
gerarchico, “i chierici sono in una posizione seconda e non prima”, prosegue padre Theobald, che ama usare l’immagine di un prete rabdomante di fronte alle immense falde freatiche della Chiesa e della società. “Loro sono chiamati anzitutto a lasciarsi sorprendere dalle relazioni fraterne e dalle iniziative dei fedeli, prima di lanciare dei progetti di loro unica iniziativa”.
4/Farsi carico pubblicamente delle colpe della Chiesa
Ogni cattolico che parla pubblicamente delle colpe della Chiesa, si espone a due tipi di reazioni. O lo complimenteranno per il suo coraggio e il suo desiderio di trasparenza, o sarà biasimato per aver “ferito” la Chiesa e alimentato gli argomenti dei suoi detrattori. Anche quando si tratta di reati.
Sull’aereo di ritorno dall’Irlanda, il papa non ha esitato a ricordare che il silenzio veniva mantenuto in primo luogo nelle famiglie toccate dagli abusi sessuali commessi da membri del clero. “Molto spesso sono anche i genitori che coprono i preti che abusano. Non credono ai loro figli, e il ragazzo e la ragazza restano così”, ha affermato Francesco, lanciando un appello a “parlare” e a “parlare ancora”.
È proprio la cultura del silenzio, accompagnata da una tendenza alla chiusura di certi ambienti, che viene denunciata da papa Francesco, quando evoca “la corruzione spirituale”, di cui la complicità passiva è il fermento. Per la teologa domenicanoa Véronique Margron, “bisogna proprio che scompaia questo impero dell’omertà. Tale silenzio, che si speiga a volte con l’argomento, mediocre, di ‘non far male alla Chiesa’, e con la corruzione, la complicità, non è più possibile”. Per la moralista, non basta però rompere il silenzio. “Assumere le colpe della Chiesa non è solo chiedere perdono, è fare degli atti forti nei confronti degli abusatori, caso per caso, riparare finanziariamente ciò che è riparabile e instaurare delle procedure meno opache. Troppo spesso, non si sa che fine fanno i dossier dei preti abusatori”.
5/Organizzare dei luoghi di dibattito nella Chiesa
Chi dice libertà di parola dice libertà di esprimere dei disaccordi, sia tra laici sia nei confronti di un prete, nozione esplicitata nel codice di diritto canonico. Qualche mese fa (31 gennaio), La Croix si era interrogata sulla possibilità di discutere nella Chiesa. E aveva constatato l’assenza di una cultura di dibattito tra cattolici e l’inesistenza di luoghi dedicati a tale esercizio.
Una mancanza senza dubbio legata alla struttura piramidale dell’istituzione, che spinge a rivolgersi ad una autorità superiore piuttosto che a dibattere tra eguali. Ma anche alla sociologia del cattolicesimo francese, spesso descritto come una giustapposizione di “cappelle” o gruppi che si incontrano poco e che, spesso, non si stimano.
Questo problema non è stato risolto da internet, dove si sono moltiplicati i blog e gli account Twitter, e dove i laici si esprimono in totale indipendenza. Ma questi nuovi attori hanno sempre tendenza a parlare “ai loro”. Per entrare in una sana cultura di dibattito, “occorre utilizzare i mezzi giusti, sottolineava padre Jean-François Chiron, teologo: occorre formarsi e scegliere il giusto
quadro istituzionale, che può essere la parrocchia o una facoltà di teologia, non pretendere di
erigere una nuova norma…”. Esistono già iniziative in questo senso, come il Centre Sèvres a Parigi, che riprende la tradizione della disputatio tra gli studenti. Ma sono iniziative rare.
6/Usare la propria libertà di parola
“È una realtà ancora terribilmente radicata: i laici si annullano davanti ai loro parroci, non osano comunicare loro direttamente il loro disaccordo”, deplora Monique Hébrard, giornalista e autrice
del libro Prêtres. Enquête sur le clergé d’aujourd’hui (ed. Buchet Chastel). Come spiegare che molti fedeli siano refrattari ad esercitare questa libertà che pure è iscritta nel codice di diritto canonico, di esprimere la loro opinione nella Chiesa? Paura di entrare in conflitto, sensazione di non essere abbastanza preparati…
“La libertà di parola dei laici dipende dall’atteggiamento del prete, se mantiene una relazione di distanza e non di servizio come frutto della sua consacrazione”, sostiene padre Christian Delorme, parroco dell’insieme parrocchiale Saint Come-Saint Damien, a Caluire nella periferia di Lione.
Molto impegnato sul piano politico, anche su temi controversi – come contro l’estrema destra, o a favore del dialogo cristiano-islamico… – nelle fila cattoliche, incoraggia il dibattito tra i suoi parrocchiani. “Osano dirmi ciò in cui sono in disaccordo, con molto rispetto”, spiega, sottolineando che il fatto di “lasciar loro la libertà di chiamarlo come vogliono” ha contribuito ad affermare questa relazione sincera.
Per uscire dal fenomeno di autocensura dei laici, “bisognerebbe che fossero meglio formati nella teologia, nella pastorale, nell’umano”, raccomanda Monique Hébrard, ex membro del gruppo Parole, che negli anni 90 ha portato la voce dei laici nei media. “Senza essere per forza all’opposizione, questo permetterebbe loro di avere un pensiero più strutturato per osare un dialogo
libero con i loro parroci”.
7/Governare le diocesi in maniera più collegiale
Il 17 ottobre 2015, nel suo discorso al Sinodo dei vescovi, nel quale ricordava che la sinodalità è una “dimensione costitutiva della Chiesa”, papa Francesco sottolineava che il suo “primo livello di esercizio di realizza nelle Chiese particolari”, cioè nelle diocesi dove, appunto, il governo dei vescovi appare spesso molto personale.
“Senza volerlo, il Vaticano II ha aperto la porta a questo”, nota padre Patrick Valdrini, professore di diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense. “Insistendo sulla pienezza del sacramento dell’ordine come fonte del potere del vescovo, ha attribuito un carattere sacro a questo potere. Ma nella Chiesa il potere, anche se è personale, non è mai arbitrario: esistono sempre dei collegi che devono avere la funzione di contrappesi”.
A suo avviso, è proprio per controbilanciare la deriva autoritaria che Francesco insiste tanto sulla sinodalità. Nel suo discorso dell’ottobre 2015, il papa ricorda, oltre alla possibilità dei sinodi diocesani, i diversi consigli che stanno accanto al vescovo sottolineando che “tali strumenti che, talvolta, danno prova di stanchezza, devono essere valorizzati come occasione di ascolto e di condivisione”.
Nella pratica, questi consigli hanno conosciuto delle derive. Come il collegio dei consulenti che il vescovo è obbligato ad interpellare nelle faccende più importanti: questo “consiglio dei saggi”, erede del capitolo della cattedrale, un tempo considerato come il “senato del vescovo”, non appare più necessariamente come il contropotere che dovrebbe essere. Troppo spesso, il vescovo vi nomina i suoi vicari generali o episcopali, che, data la loro funzione, sono solidali con il vescovo e con le sue decisioni.
Per quanto riguarda il consiglio pastorale, aperto ai laici, ma solo consultivo, il codice di diritto canonico non obbliga ancora alla sua costituzione da parte del vescovo che non è nemmeno obbligato a pubblicarne i lavori. Questa precarietà del consiglio pastorale si ritrova anche a livello parrocchiale dove, a volte, i preti non esitano a fare a meno dei laici percepiti come persone che vogliono frenare le loro iniziative.
8/Attribuire delle responsabilità ai laici
In questa lotta contro il clericalismo, i laici hanno un posto da occupare: sia simbolicamente che accedendo ad alte responsabilità. Mons. Jérôme Beau, vescovo di Bourges e presidente della Commissione episcopale per i ministri ordinati e i laici in missione ecclesiale conferma che occorrerà rapidamente porsi la questione di “ciò che costituisce la vocazione del laico”.
Anche all’interno del Vaticano, Francesco vorrebbe vedere dei laici a capo di organismi che influiscono sugli orientamenti della Chiesa. In un’intervista alla rivista Intercom, il cardinale Kevin Farrell, prefetto del dicastero per i laici, la famiglia e la vita, spiega che il papa gli avrebbe
comunicato“che è stanco di vedere tutte le congregazioni prendere il primo ruolo per assolutamente tutto”. E che queste congregazioni sono tutte dirette da preti o vescovi. Il cardinal Farrell aggiunge che “le persone più importanti nella Chiesa non sono i preti, né i vescovi, ma i
laici”.
Il fatto è che questi auspici dovrebbero realizzarsi nella governance della Chiesa. Un laico, in missione ecclesiale nella diocesi di Parigi da più di otto anni, confida che “non ha visto tanti laici occupare posti decisiivi” nella sua diocesi dove “i preti ancora non mancano”. Secondo lui, questo “è dovuto in parte sia ad una mancanza di formazione soprattutto dei responsabili pastorali. I preti spesso pensano che i laici non abbiano le qualificazioni richieste, in confronto alle loro”. Eppure, un evidente sforzo di formazione è stato condotto dalle diocesi francesi.
Questo difetto è logico secondo Anne Soupa, presidente della Conférence catholique des baptisé-e-s francophones (CCBF). “A partire dall’XI secolo, è il prete che assume, per la sua differenza di natura, i tre incarichi: di governo, di santificazione e di insegnamento, spiega. Bisogna che questo cambi”.
Per questo, la CCBF ha scritto una lettera aperta ai vescovi di Francia, esortando a tenere delle assise di governance della Chiesa per porre la questione “di una co-governance dell’insieme dei battezzati” delle istituzioni ecclesiali.
9/Far intervenire di più le donne nella formazione dei preti.
“La conoscenza e acquisizione di familiarità con la realtà femminile, così presente nelle parrocchie e in molti contesti ecclesiali, risulta conveniente ed essenziale alla formazione umana e spirituale dei seminaristi e va sempre intesa in senso positivo”, si può leggere nella nuova Ratio fundamentalis Institutionis sacerdotalis (2016) della Congregazione per il clero. Questa affermazione segue le raccomandazioni del rapporto finale (2015) del Sinodo sulla famiglia, che invitavano a “valorizzare maggiormente” la partecipazione femminile nella formazione dei futuri preti. Ma si è ancora lontani.
Certo, ci sono alcune donne insegnanti nella maggior parte dei seminari in Francia. Ma generalmente “relegate in discipline senza un rapporto diretto con la teologia, come le lingue antiche o la storia”, deplora la biblista Anne-Marie Pelletier che ha insegnato al seminario della diocesi di Parigi. Al seminario Saint-Sulpice di Issy-les-Moulineaux, ci sono solo sette donne – di cui due per l’ecclesiologia e la teologia – rispetto a 40 uomini, ma a partire dal prossimo anno scolastico, una madre di famiglia, assistente del superiore del seminario, diventa membro del consiglio con lettera di missione della Compagnie Saint-Sulpice.
“Non c’è alcuna ragione perché una qualsiasi disciplina sia vietata alle donne. Tutte le branche della teologia dovrebbero poter essere affrontate attraverso il doppio sguardo maschile e femminile. Inoltre, dei futuri preti non potrebbero essere formati bene se il canale esclusivo è la parola sacerdotale”, insiste la teologa domenicana Véronique Margron, ex decana della facoltà di teologia di Angers.
Sostiene anche che sarebbe opportuno che delle donne siano membri dei consigli dei seminari, ricordando che, negli anni in cui ha insegnato teologia morale in un seminario diocesano, lei non è “mai” stata invitata al consiglio: “Vista la mia disciplina, si sarebbe potuto arguire che avevo delle conversazioni profonde con dei seminaristi e che questo avrebbe potuto giustificare la mia presenza”. “Più pluralità ci sarà, più si sarà armati per far fronte all’autoritarismo”, prosegue Véronique Margron, che ricorda tuttavia che il clericalismo e l’autoritarismo non sono appannaggio né dei maschi né del clero: “Ci può essere un clericalismo di donne”.
10/ Affidare a delle donne funzioni d’autorità
“Le donne nella Chiesa devono essere valutate per il loro valore e non clericalizzate”, affermava papa Francesco già nel dicembre 2013, rigettando l’idea di donne cardinali. In un certo modo, clericalizzare le donne significherebbe infatti perpetuare il modello clericale. “Il loro posto nella Chiesa, le donne devono averlo in quanto donne”, insiste la storica femminista Lucetta Scaraffia, responsabile del supplemento Donne Chiesa Mondo dell’ Osservatore Romano, che dice di non credere alle donne prete. E neanche alle diaconesse, argomento che il papa ha affidato ad una commissione i cui lavori sembrano persi nelle sabbie dell’inerzia vaticana…
Nell’aprile scorso, Francesco tuttavia ha nominato tre donne consulenti della potente Congregazione per la dottrina della fede. È stata la prima volta. E, designando all’inizio dell’estate un laico a capo del dicastero per la comunicazione, ha anche aperto la porta a donne prefetti di dicastero.
Le religiose sono in questo in prima linea. Ma al Sinodo le loro rappresentanti non hanno diritto di voto, contrariamente a quelli dei religiosi maschi. Le responsabili di grandi congregazioni religiose sarebbero decisamente in grado di accedere a funzioni di governo. La presidente dell’Unione Internazionale delle superiore generali (rappresentante delle 650 000 religiose del mondo) sarebbe davvero in grado di consigliare il papa. Anche in un “C9”.
Nelle diocesi, potrebbero essere ancora più numerose le donne nominate cancelliere o professoresse di seminario. Nulla impedisce che esse siano anche accompagnatrici spirituali, o anche predicatricia giornate di ritiro. “Sogno che il papa chieda ad una donna di predicare le giornate di ritiro della Curia”, confida Lucetta Scaraffia che, come molti, si chiede il motivo della proibizione alle donne di commentare il Vangelo alla messa.
Infine, ricordiamo che Sacrosanctum concilium e la Presentazione generale del Messale romano identificano 17 funzioni liturgiche diverse: sono tutte piste da esplorare per dei ministeri specificamente femminili.