Gesù, Maria e Giuseppe, una Sacra Famiglia di rifugiati
Articolo* di padre James Martin SJ** pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 27 dicembre 2017, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Mentre i media parlano continuamente di rifugiati e migranti, alcuni commentatori hanno tentato di tracciare un parallelo tra le loro odissee e quella della Sacra Famiglia: Gesù, Maria e Giuseppe. Quanto è pertinente questo paragone? Gesù, Maria e Giuseppe erano davvero quelli che oggi si definirebbero “rifugiati”? Sì.
Nel secondo capitolo del Vangelo di Matteo troviamo il racconto della “fuga in Egitto”: dopo la nascita di Gesù e la visita dei Magi, “un angelo del Signore” appare in sogno a Giuseppe e lo avverte che deve lasciare Betlemme per l’Egitto (Matteo 2:12-15). Perché? Perché il re Erode stava “cercando il bambino per ucciderlo”. Dunque Maria e Giuseppe partono assieme a Gesù e, secondo Matteo, giungono in Egitto. Il re Erode stermina tutti i maschi di Betlemme sotto i due anni d’età. Questo drammatico episodio viene letto in occasione della “Festa dei Santi Innocenti”, che cade il 28 dicembre.
Quindi, cosa succede, secondo il Vangelo di Matteo? Una famiglia è obbligata ad abbandonare la patria per fuggire la persecuzione: è la classica definizione odierna di rifugiati; infatti, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) definisce così questa categoria di persone: “Il rifugiato è colui che è stato costretto ad abbandonare il proprio paese a causa di guerre, conflitti e persecuzioni. Il rifugiato è colui che teme a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”.
La Sacra Famiglia, come racconta Matteo, fugge perché “teme a ragione di essere perseguitata” a causa della sua “appartenenza ad un determinato gruppo sociale”, nel suo caso lo status di famiglia con neonato residente a Betlemme. Mi pare che la situazione non potrebbe essere più chiara.
Giuseppe e Maria fecero ufficialmente richiesta dello status di rifugiati? Naturalmente no: questo tipo di regolamenti, molto probabilmente, all’epoca non esistevano, forse non esistevano nemmeno confini, ma, come scrive il biblista Daniel J. Harrington SJ nel suo commento a Matteo: “L’Egitto, caduto sotto il controllo romano nel 30 a.C., era fuori dalla giurisdizione di Erode. L’Egitto era un tradizionale luogo di rifugio per gli Ebrei fin dai tempi biblici (cfr. 1 Re 11:40; Geremia 26:21) e anche all’epoca dei Maccabei, infatti il sommo sacerdote Onia IV fuggì proprio in Egitto”. Ecco quindi una famiglia che fugge in un Paese straniero per paura della persecuzione.
Anche il linguaggio utilizzato da Matteo fa luce sulla loro situazione. Come dappertutto nel Nuovo Testamento, è utile rivolgersi al testo originale greco. Matteo, che scrive verso l’anno 85 della nostra era per un uditorio giudaico-cristiano, così riferisce l’ordine dell’angelo: “Ἐγερθεὶς παράλαβε τὸ παιδίον καὶ τὴν μητέρα αὐτοῦ καὶ φεῦγε εἰς Αἴγυπτoν…”, che traslitterato si legge “Egertheis paralabe to paidion kai tēn mētera autou kai pheuge eis Aigypton…” e tradotto suona “Alzati, e prendi il bambino e sua madre, e fuggi in Egitto…”. La parola chiave è pheuge, “fuggi”, da cui derive la parola rifugiato, cioè colui che fugge. Per l’angelo di Matteo, la Sacra Famiglia è un gruppo di rifugiati.
Ma anche se la Sacra Famiglia non corrispondesse alla definizione contemporanea di rifugiati, e anche se il Vangelo di Matteo non utilizzasse la parola greca pheuge, dovremmo comunque avere compassione ed essere pronti ad accogliere i rifugiati e i migranti dei nostri giorni.
Perché? Perché ce lo chiede Gesù. Più avanti nel Vangelo di Matteo, Gesù ci ricorda che ogni volta che ospitiamo lo straniero, ospitiamo lo stesso Gesù (Matteo 25:35). I rifugiati e i migranti sono nostri fratelli e sorelle che hanno disperatamente bisogno del nostro aiuto. Il comandamento di Gesù di ospitare il forestiero è per i cristiani una legge superiore a qualsiasi legge che possa impedire o proibire la cura e la compassione. Rimango sempre sorpreso quando dei cristiani, che per altre questioni si appellano a delle leggi superiori, le mettono da parte quando si parla di rifugiati e migranti.
Dal 1992 al 1994 ho lavorato con il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati a Nairobi, in Kenya, e lì ho conosciuto centinaia di rifugiati fuggiti dal Sudan, dall’Uganda, dalla Somalia, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dal Ruanda, dal Burundi, dalla Costa d’Avorio e da molti altri Paesi perché “temevano a ragione di essere perseguitati”. Alcuni di loro, come sarebbe potuto capitare alla Sacra Famiglia, avevano visto con i loro occhi assassinare i loro figli; altri avevano visto massacrare i loro genitori. Nonostante una sofferenza intensa, quasi inimmaginabile, avevano la fede più salda che abbia mai incontrato: a modo loro, erano delle sacre famiglie.
Queste famiglie meritano assolutamente la nostra protezione, proprio come la Sacra Famiglia.
* I passi biblici sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme/CEI.
** Il gesuita americano James Martin è editorialista del settimanale cattolico America ed autore del libro “Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt” (Editore Marcianum, 2018). Padre James ha portato un contributo sull’accoglienza delle persone LGBT nella Chiesa Cattolica all’Incontro Mondiale delle Famiglie Cattoliche di Dublino e porterà una sua riflessione anche al 5° Forum dei cristiani LGBT italiani (Albano Laziale, 5-7 ottobre 2018).
Testo originale: Were Jesus, Mary and Joseph refugees? Yes.