Riprendiamoci il futuro: la storia di Tamar (Genesi 38)
Riflessioni bibliche della pastora battista Lidia Maggi pubblicate sul blog Alzo gli Occhi verso il Cielo il 4 settembre 2018
Allora Tamar si tolse le vesti da vedova e si coprì d’un velo. (Genesi 38:14)
Se almeno una volta nella vita ti è capitato di brancolare nel buio senza sapere dove andare, la strada sbarrata, nessuna apertura verso il futuro…
Se conosci i fallimenti affettivi che ti portano a dire: ormai è finita, se il lavoro è precario, se anche in chiesa senti intorno a te un’aria stantia, chiusa, e non trovi la finestra per areare i locali della tua vita
questa storia è per te.
Se conosci la nebbia che chiude lo sguardo e ti senti in ostaggio di un presente chiuso senza futuro e sei incapace di vedere il nuovo perché hai smarrito la mappa del nuovo e continui a girare intorno
questa storia è per te.
e risuona ironico, per non dire sarcastico, doloroso, quel versetto scelto dalla tavola valdese per aprire la sua relazione al sinodo: se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, son diventate nuove. (II Corinzi 5:17)
Quale novità… niente di nuovo sotto il sole… Il dio del faraone, del potere omertoso, con i suoi carri e le sue fanfare continua a sfilare nelle vie delle nostre città. Il mondo sembra impermeabile alle novità di vita, sterile alla salvezza e noi ci sentiamo in lutto, orfani di speranza
Forse la tragedia più grande è che questo sentire non è solo personale, ma collettivo. Siamo una società chiusa, incapace di partorire il nuovo, una società che non è in grado di trovare visioni, progetti, sogni… una società depressa, dalle passioni tristi… È questo clima che entra nella chiesa, ne contamina l’aria e il fiato è corto… Se questo fa parte del tuo sentire, del nostro sentire, questa storia è per noi, per noi che nonostante tutto non vogliamo arrenderci e cerchiamo di aprirci delle brecce per illuminare il clima cupo del nostro presente.
Ecco la storia che la Scrittura ci porta in dono:
Sulla scena si muove una donna in lutto, condanna a portare per sempre l’abito della vedovanza. Sepolta viva. La sua vita è sterile, vuota, chiusa, in stallo. Proprio come la storia che questa donna ha interrotto con il suo racconto: Giuseppe, il fratello odiato, è stato infine venduto ad una carovana e scompare alla vista del fratelli e alla vista del lettore. La storia di una fraternità riconosciuta, riconciliata, accolta, sembra fallire, in stallo, incapace di produrre qualcosa di nuovo.
E mentre Giuseppe, ormai perduto, si allontana con la carovana, davanti a noi un’altra storia irrompe e pretende ascolto. Siamo trasportati dal narratore nel futuro, in un futuro dove però il clima è altrettanto chiuso.
Giuda, uno dei fratelli più grandi di Giuseppe, in questa storia non è più un ragazzo, ma un uomo, con figli grandi e una nuora sterile, Tamar, vedova del primo figlio Er, e subito Giuda la consegna in sposa al suo secondogenito, sperando che questi possa darle un figlio. Ma Onan non vuole aprirsi al futuro, non vuole figli con cui dividere la sua eredità. Gode e consuma il presente, senza pensare alle generazioni che verranno. Una società che consuma risorse senza investire sul domani, lo sappiamo, non ha futuro: è destinata alla morte, e Onan infatti muore. Tragico monito per questa generazione onanista, che gode e consuma, consuma, consuma rubando il futuro. Forse è davvero troppo tardi e nessun principio-speranza potrà salvarci. Onan rappresenta questo modello sociale destinato a morire, rendendo vedova la storia proprio come Tamar: sterile e senza domani.
La sterilità nella scrittura non è solo un dato biologico: tutte le matriarche sono sterili; dobbiamo forse sospettare un difetto genetico nelle madri della fede? La sterilità è condizione esistenziale. È la circoncisione nella carne di un idolo di morte che nega il futuro, la speranza. Le matriarche sterili sono l’immagine di una storia chiusa, incapace di partorire la novità.
Forse un monito sapienziale per liberarci da facili miti: il futuro arriva a noi in automatico! Ma la Bibbia ci testimonia invece che il futuro non nasce da un parto verginale della storia, anzi, che la storia, ad ogni passaggio generazionale, rischia di chiudersi, incapace di novità di vita.
Questo anche nella Chiesa: scompare una generazione di giganti, sazia di giorni… Ci hanno lasciato coloro che hanno segnato tracce indelebili nelle nostre chiese, che hanno scritto intese con lo Stato, hanno sognato accordi impensabili, come il reciproco riconoscimento… Aurelio Sbaffi, Aquilante, Renzo Bertalot, Paolo Spanu, Franco Giampiccoli… scompare una generazione lasciando un vuoto, e noi occupiamo i loro posti, proviamo a prendere in mano il testimonio, ci sentiamo piccoli, sterili, a tratti chiusi nel nostro lutto, incapaci di produrre novità di vita, parodia di quei giganti che imitiamo goffamente…
La Bibbia conosce questa situazione, e con la sterilità delle donne racconta che i passaggi generazionali non vanno mai in automatico, sono sempre a rischio di sterilità, di chiusura, di morte… la storia è come un corpo di donna… le matriarche sono tutte sterili perché la promessa di Dio non passa di generazione in generazione come un patrimonio genetico: un’eredità… bisogna sempre riappropriarsene… E anche il futuro, per quanto sia un dono (i figli sono doni di Dio) va ricercato, e, a volte, persino forzato…
Come?
E anche di questo che ci parla questa storia… che sembra mettere in tensione due sguardi, due differenti strategie
Nella prima c’è la strategia di Giuda che, di fronte alla perdita dei figli, rifiuta di consegnare allo stesso destino il suo ultimo ragazzo, Shelà. È la strategia di chi ha paura di perdere anche quel po’ di presente che ancora rimane. Giuda non è differente da quel servo di cui parla la parabola, che sotterra i suoi talenti per non sperperare la propria eredità. Giuda teme che il suo ultimo e unico ragazzo possa morire se sposato con Tamar. Per proteggere il figlio cerca di non farlo crescere, gli impedisce di diventare un uomo, un marito, un padre. Lo protegge negandogli il rischio di cambiare e generare il nuovo.
Giuda siamo tutti noi quando, di fronte alla precarietà del futuro, preferiamo non rischiare, quando vorremmo trasformare le nostre chiese in tane, in rifugi per proteggere i nostri giovani dai rischi della società, per loro vorremmo costruire chiese recinto, utero, per non lasciarli andare via… perché temiamo che non ritorneranno più. La casa di Giuda è piena di figli che non lasciano la casa paterna e non rischiano di sperperare l’eredità. Il futuro è percepito come minaccia, il cambiamento come perdita…
È anche per il Giuda che si nasconde dentro ognuna e ognuno di noi che Gesù dice: chi vuole conservare la propria vita la perderà, chi è disposto a perderla la troverà…
In questo modello di chiesa si riproduce il passato alla lettera, in una fedeltà solamente apparente, perché le domande della storia che viviamo non hanno udienza. L’eterna imitazione del passato, parodia della fedeltà alla Parola antica, chiude il futuro. Il futuro si chiude proprio nel momento in cui vogliamo difenderci dalla minaccia del cambiamento.
La seconda strategia è quella suggerita da Tamar. Tamar, con la sua sterilità e la sua vedovanza è l’immagine della nostra storia chiusa al futuro. Vedova per la seconda volta, viene tenuta buona con l’inganno di un futuro matrimonio che mai ci sarà. Tamar poteva rassegnarsi e accettare quel destino, vestire il ruolo della vittima fino in fondo, piangersi addosso per sempre, imprecare con chi non le dava possibilità, visibilità, opportunità… le avreste dato torto? Tamar è una vittima impotente, vittima di una giustizia formale che diventa ingiustizia perché spalmata sui tempi lunghi della vita. Si può morire aspettando, nell’immobilità di un’attesa si consumano gli anni, il corpo invecchia e non può più partorire e il futuro ti viene rubato a poco a poco, e tu passi la tua vita come rinchiuso in una tomba, lamentandoti per la tua condizione… mentre muori ogni giorno.
Ma a Tamar il ruolo della vittima sta stretto. Certo, non ha il potere di reclamare giustizia e allora agisce, con creatività e astuzia: la società la vuole passiva, la etichetta come vedova, ma lei in quei vestiti di lutto e di morte non si trova a suo agio. E così, travestita da prostituta, si unisce al suocero ignaro, rimanendo incinta. Nasceranno da Tamar due gemelli e uno di questi, Perez, si aprirà una breccia fino al messia, fino a Gesù…
Tamar è l’immagine di una storia che, per aprirsi una breccia nel futuro, è disposta ad agire, anche a rischio di contraffare, seppure per un attimo, la propria identità, non ha paura di vestire panni scomodi, persino immorali. Tamar è disposta a svestire i panni del lutto per osare il nuovo, per creare qualcosa di nuovo. Basta piangersi addosso, basta aspettare i tempi degli altri, nella perenne attesa che qualcuno si ricordi di noi. Basta con la giustizia formale che, in realtà è ingiustizia spalmata nei tempi lunghi della vita.
Il futuro non è mai dato per inerzia. Per aprire al futuro, a volte, occorre un gesto coraggioso, creativo, anche trasgressivo, come quello di velarsi il volto… Se alle donne nelle chiese hanno messo il velo per esprimere la loro sottomissione al patriarcato, Tamar si vela il capo per rivendicare la sua libertà di agire, per prendere in mano la sua esistenza. Rischia Tamar, rischia tutto, persino la sua stessa vita, per ricercare la vita, il futuro, e non credo che lo faccia solo per un desiderio egoistico di maternità, piuttosto per permettere alle generazioni future di esistere, per far irrompere il futuro in un presente chiuso. Per insegnare ad ognuna e ognuno di noi che le novità di vita non fluiscono quando si è troppo preoccupati a conservare, a trattenere… e solo chi è davvero disposto a rischiare la vita la troverà… in novità di vita…
Concludo non con le mie parole, ma con quelle del profeta Baruc: “Spogliati del vestito di lutto e afflizione, avvolgiti del manto della giustizia di Dio… alzati in piedi…” (Baruc 5:1 ss.).