Perché nella chiesa non c’e posto per le nostre meravigliose figlie lesbiche?
Testo* di Casey e Mary Ellen Lopata tratto dal loro libro Fortunate Families: Catholic Families with Lesbian Daughters and Gay Sons (Famiglie fortunate: famiglie cattoliche con figlie lesbiche e figli gay), Trafford Publishing, 2003, capitolo 13, liberamente tradotto da Diana
Florence Balog racconta la storia della sua famiglia con amorevole semplicità ed eloquenza. Genitori di due gemelle lesbiche, Steve e Florence esemplificano la parabola del servitore a cui sono stati dati molti talenti: “A chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Luca 12:48). Offrono un esempio concreto di quanto possono fare i genitori motivati dall’amore per i figli e le figlie omosessuali.
Mio marito Steve e io abbiamo adottato le nostre gemelle identiche meticce, Evelyn (Evyn) e Sharon (Ronnie), quando avevano 5 anni. Le loro personalità vivaci, creative, compassionevoli, resilienti ci hanno subito attirati. Abbiamo trascorso molto tempo a costruire la nostra famiglia: facendo campeggio, leggendo, facendo giardinaggio, addolorandoci e piangendo, comunicando, lottando, ridendo, giocando, costruendo, lavorando, creando, condividendo, mangiando. Insieme abbiamo sperimentato il dolore del razzismo, l’odio, l’ignoranza, la discriminazione e la violenza fisica. Erano le nostre figlie e le amavamo.
Durante gli anni del liceo cominciammo a pensare che le nostre figlie potessero essere lesbiche. Non avevano appuntamenti coi ragazzi e non andavano a ballare. Per casa lasciavano libri e pubblicazioni sulle lesbiche. Come tutte le adolescenti erano spesso di malumore, irritabili e confuse, e avevano difficoltà a comunicare. Sentivamo che avevano paura che potessimo rifiutarle. Finalmente, quando ebbero 20 anni, decisi di porre la questione, sperando di aprire la strada alla comunicazione.
Così un giorno mentre facevo commissioni con Ronnie la guardai con esitazione e dissi: “Ronnie sei lesbica?”.
Mi guardò in silenzio. Poi con un largo sorriso e gli occhi neri illuminati, disse: “Si mamma”. Tra di noi non c’erano più segreti e ci sentimmo sollevate. Quando più tardi diedi la notizia a Steve, non ne fu sorpreso.
Il giorno dopo Evyn, che era nell’esercito, telefonò da Fort Jackson e disse: “Ho sentito che Ronnie ha fatto coming out!”.
Risposi: “Si. Anche tu sei lesbica?”.
“Come hai fatto a saperlo mamma?”. E attraverso i fili del telefono si sentiva il sollievo nella voce di Evyn.
Ronnie disse che si sentiva molto timorosa e frustrata al pensiero di fare coming out. Pensava che la società l’avrebbe rifiutata. Aveva sentito di molti ragazzi cacciati di casa, lasciati dagli amici, provocati ed insultati dagli estranei e ignorati dalla società. Aveva anche paura che facendo coming out avrebbe infranto i nostri sogni su di lei e che i sogni che lei aveva per se stessa sarebbero stati molti più difficili da realizzare. Si chiedeva anche quale sarebbe stata la nostra risposta.
Steve dice che quando le nostre figlie hanno fatto coming out, non gli è mai venuto il pensiero di rifiutarle, e neppure di cambiarle. Era evidente che non era qualcosa che loro avevano scelto, ma semplicemente la loro realizzazione e la rivelazione della loro identità, del loro orientamento sessuale. Erano le nostre figlie così com’erano, e le amavamo in qualunque modo!
Tutti e quattro eravamo sollevati; tuttavia Steve ed io ci sentivamo insicuri, confusi e timorosi su cosa questo significasse per tutti noi. Accettare l’orientamento sessuale delle nostre figlie era una cosa, integrare questa conoscenza in noi e nelle nostre relazioni era un’altra cosa. Ci sentivamo fuori e ai margini, sempre come se avessimo qualcosa da nascondere. Eravamo riluttanti a condividere queste informazioni con gli amici, i vicini, i parrocchiani, i colleghi di lavoro, e specialmente con i nostri parenti del Midwest. Eravamo insicuri su come avrebbero accolto la notizia. Per cinque anni abbiamo vissuto in una terribile solitudine.
Durante questi cinque anni, Steve ed io eravamo molto apprensivi su come la società ed i media rappresentavano le persone omosessuali. Le nostre figlie non rientravano in questo quadro: erano giovani donne normali.
Eravamo confusi dal fatto che noi sapevamo bene come le nostre figlie fossero meravigliosamente affettuose, amorevoli, compassionevoli e vivaci: come poteva la gente odiarle, discriminarle per quello che erano? Eravamo anche confusi dalla posizione della Chiesa Cattolica, di silenzio e apparente condanna. Nessuno di noi aveva mai sentito un’omelia in cui le persone omosessuali venissero citate ed incluse tra quelle che Gesù amava. Ci sentivamo completamente al di fuori della nostra cerchia di amici e dalla Chiesa, incapaci di trovare sostegno in questi due gruppi, che avevano formato ed influenzato le nostre vite.
Una questione che continuava a tormentarmi in quegli anni di silenzio era: “Perché non posso dichiarare l’omosessualità delle mie meravigliose figlie?”. Quando i parenti, gli amici, i parrocchiani e i vicini chiedevano: “Come stanno le vostre figlie? Hanno il ragazzo?”, oppure “Sono già sposate?”, oppure “Cosa stanno facendo adesso?”, io evitavo spesso di rispondere su questi temi, dicendo: “Oh stanno facendo le loro cose!”. Ogni volta che lo dicevo, sentivo uno strappo nel cuore nel pensare che non stavo dicendo tutta la verità. Il silenzio mi stava tormentando e cominciai a cercare aiuto in parrocchia. Allora accaddero due cose. La prima fu la citazione nel bollettino parrocchiale di un articolo intitolato “Omosessualità: una sfida per la crescita della Chiesa” di John McNeill (Il Secolo Cristiano, 11 marzo 1987). Sentii che era quello di cui avevo bisogno: sfidare la Chiesa a crescere ed accettare apertamente le mie figlie e chiamarle col loro nome. Sentivo che si era aperta una strada per me e che l’avrei percorsa.
In secondo luogo, incontrai un membro della nostra parrocchia che indossava un distintivo, un triangolo rosa con le parole: Credenti contro la bigotteria. Le raccontai la mia storia. Cominciammo a piangere tutte e due, avevo rotto il silenzio! Avevo condiviso il mio profondo, oscuro segreto. Lei mi guardò con massima comprensione e compassione e mi disse: “E tu non sei stata in grado di dirlo a nessuno di noi in parrocchia”. Risposi: “No”. All’istante decidemmo che la nostra parrocchia doveva accogliere apertamente le persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender. La nostra variegata parrocchia aveva già lavorato molto sulla discriminazione e il razzismo, ed era matura per accogliere i cattolici e le cattoliche omosessuali.
Steve si unì a noi per chiedere al parroco di formare una commissione per decidere come la nostra parrocchia potesse diventare più accogliente. Col supporto del nostro parroco fu formato il Comitato d’accoglienza per tutta la famiglia. A sorpresa, dodici parrocchiani si presentarono alla prima riunione. Sentivo che eravamo “in cammino” nell’aiuto reciproco. Per me e Steve fu una sensazione bellissima. Non eravamo più soli.
Nei seguenti quattro anni il nostro Comitato divenne molto attivo. In realtà non avevamo un progetto, ma ci affidavamo allo Spirito Santo che ci conducesse lungo la via. Eravamo in un territorio inesplorato. Cominciammo a educare noi stessi e studiare i documenti della Chiesa sull’omosessualità. Proseguimmo istituendo una libreria nella nostra parrocchia e formando classi per adulti di educazione alla sessualità, all’omosessualità e alle Scritture; sondammo gli atteggiamenti dei parrocchiani verso le persone omosessuali e la loro partecipazione ai nostri laboratori; durante una riunione parrocchiale, fornimmo un’opportunità di discussione sulle speranze e i timori della parrocchia; presentammo un laboratorio diocesano sulla lettera dei vescovi Always our children. Scrivemmo anche una dichiarazione di accoglienza, che ora si trova sulla prima pagina del nostro bollettino parrocchiale: “Questa è una comunità di fedeli battezzati in un solo corpo, che onora e celebra la differenza. Accogliamo ed includiamo persone di ogni colore, lingua, etnia, origine, abilità, orientamento sessuale, situazione matrimoniale e stato di vita”.
Come genitori, Steve e io abbiamo anche comunicato coi nostri rappresentanti congressuali a livello nazionale, statale e locale sui temi riguardanti le nostre figlie. Abbiamo scritto lettere ai membri della gerarchia cattolica per supportare le nostre figlie. Abbiamo scritto lettere all’editore del nostro giornale locale e a quello del giornale diocesano. Abbiamo contribuito a raccolte di firme sul New York Times e sul National Catholic Reporter a sostegno dei nostri ministri gay e lesbiche e per esprimere il nostro allarme per i crimini contro le persone gay e lesbiche. Abbiamo scritto una lettera alla nostra sezione locale del PFLAG a supporto dei nostri sacerdoti cattolici tacitati dal Vaticano. Il Comitato d’accoglienza per tutta la famiglia prospera e si è evoluto in una piccola comunità di fedeli. Il sostegno ricevuto da questi gruppi di base ha superato ogni nostra aspettativa.
Mentre lavoriamo per rendere più accogliente la nostra comunità parrocchiale, i sentimenti delle nostre figlie per l’atteggiamento della Chiesa verso di loro, a causa del loro orientamento sessuale, sono chiari. Si sentono entrambe messe da parte e non accolte. Evyn dice di non credere più nella Chiesa Cattolica; la trova “bigotta, piena d’odio e ipocrita”. Dice di avere una vita spirituale al di fuori della Chiesa e di credere nell’amore inclusivo di Dio, ma di non vedere nella Chiesa il riflesso dell’amore di Cristo. Ha le stesse aspirazioni ed obiettivi di chiunque altro e spera un giorno di fidanzarsi con una persona che ama. Dice: “La mia vita si basa sull’onestà, sulla verità. L’odio, la bigotteria e la paura creano l’inganno. Vivo con ferma fede in me stessa e nell’amore e nell’accoglienza che sperimento nella comunità gay e lesbica”.
Ronnie dice che, come giovane donna di minoranza, ha già lottato all’interno della società ancora prima di fare il coming out. A volte trova difficoltà nella società come donna meticcia: “Non volevo essere lesbica, non volevo avere delle differenze che potessero essere usate contro di me”. Dice di provare sentimenti di solitudine ed allontanamento dalla Chiesa: “La retorica religiosa ha perso di vista un grande comandamento”. Considera la Chiesa ipocrita: “Sta cercando di obbligarmi a stare contro me stessa, a vivere tra verità e menzogna. È tutto molto confuso”. Dice di avere una forte vita spirituale e cerca con semplicità di mantenerla: “Tratta gli altri come vorresti essere trattato”. Non crede che la Chiesa faccia altrettanto: “Vedo che la Chiesa sostiene chi sceglie di odiare e giudicare. Sono così stufa di sentire questa stupida retorica sulle cose negative che la Bibbia dice sull’omosessualità”.
A volte le nostre figlie ci chiedono perché stiamo facendo tutto questo, perché cerchiamo di rendere più accogliente la nostra Chiesa e la società; noi diciamo loro: “Perché vi amiamo, e per l’ingiustizia che molti di voi stanno sperimentando. L’amore di Cristo include tutti voi”. Nel frattempo, la Chiesa continua a dire loro che sono “disordinate” e che, anche in una relazione d’amore stabile, l’espressione sessuale del loro amore reciproco è “intrinsecamente cattiva”. Non è il Gesù che conoscono loro, non è la Chiesa che hanno scelto. Sanno chi sono, conoscono la creazione di Dio e sanno che “è molto buono”. Come dice Evyn “Dio non rifiuta nessuno”. Entrambe hanno sofferto a causa aggressioni fisiche, mentali ed emotive, per via del loro orientamento sessuale. Continuano ad essere confuse dal rifiuto di ciò che sono.
Le nostre figlie ormai trentenni hanno immesso nuova vita nei loro genitori sessantenni. Le amiamo così come sono e siamo grati per le sfide e l’opportunità di celebrare e sperimentare la diversità e lottare per la giustizia. Noi, la nostra parrocchia e la nostra società siamo arricchiti ed illuminati dalle nostre figlie.
* Il passo biblico è tratto dalla Bibbia di Gerusalemme/CEI.