“Ascoltare e accogliere”. Le parole di mons. Semeraro al Forum dei cristiani LGBT
Intervento pronunciato da mons. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, nella plenaria del V Forum dei cristiani LGBT (6-7 ottobre 2018, Albano Laziale), pubblicato sul sito internet della Diocesi suburbicaria di Albano
È giusto che mi presenti col titolo per il quale sono qui con voi e vi parlo: sono il vescovo di questa Chiesa di Albano, dove ci troviamo per questo forum e so di avere, per questo, una missione di «paternità». È una parola, questa, che pronuncio con somma venerazione. Per me, infatti, significa anzitutto un dovere di «accoglienza».
Molti anni fa (quasi trenta!) riguardo alla paternità lessi quest’affermazione, che non ho più dimenticato: «Un padre deve sempre adottare il proprio figlio. Non c’è padre che non sia adottivo» (F. Dolto). L’autrice, una nota specialista in psicanalisi infantile, ne scriveva a proposito della figura di Giuseppe, scelto da Dio come padre per il suo Figlio, nato dalla Vergine Maria. Qualcosa di simile si potrà dire anche di Lei, che non ha generato secondo un processo naturale, bensì «per opera dello Spirito Santo».
Per noi cristiani, Maria e Giuseppe sono i veri modelli terreni della maternità e della paternità; figure veraci e quasi sacramento fra noi di quella paternità del Padre «dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra» (Ef 3, 14). Adottare, in ultima analisi, non vuol dire altro che ricevere, accogliere.
È, dunque, con quest’animo che vi accolgo e vi saluto ed è con questa disposizione che ho ascoltato insieme con voi le testimonianze offerteci nella prima parte del nostro incontro. Ascoltare, d’altronde, è la prima forma di accoglienza; non solo: è proprio l’ascolto che permette alle nostre relazioni di crescere, maturare, irrobustirsi. Ascoltando gli altri, oltretutto, impariamo pure ad ascoltare meglio noi stessi. Non vedersi, oppure non sapersi ascoltati è doloroso, molto.
Appena giovedì scorso su un quotidiano nazionale è stato pubblicato l’esito di una ricerca sui mutamenti dei rapporti in famiglia; il titolo è il seguente: «Famiglie: l’incomunicabilità è digitale. La frase classica dei genitori: “un attimo”. I ragazzi replicano dal loro pianeta: “cosa?”» (La Stampa 4 ottobre 2018, p. 34). Forse, da qualche parte, si scriverà anche di questo nostro incontro … Come? Non lo so! Noi, però, adesso ci vediamo e possiamo guardarci negli occhi; ci ascoltiamo… Ci accogliamo.
Sapete bene che questi due verbi: ascoltare e accogliere stanno molto a cuore al Papa Francesco. Vi proporrei, allora, di leggere solo alcuni numeri dell’esortazione Amoris laetitia. Il documento parla della famiglia, ma chi di noi non è, sicuramente, «figlio»? Potremmo non diventare mai papà e mamme e, al contrario, sarà possibile diventare ex-moglie/ex-marito… Figli, però, lo siamo tutti e per sempre. Quel documento del Papa è davvero importante. Potrete andare, allora, ai nn. 137-138, dove egli scrive che ascoltare vuol dire riconoscere l’importanza dell’altro. Egli tratta anche dell’accoglienza, ch’è non soltanto un gesto cortese e caritatevole, ma è un atteggiamento fondamentale della Chiesa madre sicché «essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo» (n. 299). Il Papa sta parlando dei fedeli battezzati divorziati, che hanno avviato una nuova unione civile; la figura accogliente della
Chiesa, però, è molto più ampia.
Ricordo sempre con emozione l’incontro avuto qui, nel 2016 (è da tanto tempo che voi, coi vostri genitori e operatori pastorali, scegliete questa Casa di Accoglienza dei padri somaschi per incontrarvi, pregare e riflettere insieme), durante il quale due genitori mi domandarono se il loro figlio – ch’era presente accanto a loro – fosse uno «scomunicato». Un po’ sollevato dalla semplicità di quella domanda, risposi sorridendo: «Perché ci sia una scomunica nella Chiesa occorre ben altro». Quella mamma e quel papà cominciarono a
piangere di sollievo ed io, ricordando quel momento e quell’incontro, ancora mi emoziono. Anche per questo sono tornato volentieri a incontrarvi.
Anche nelle testimonianze che insieme abbiamo ascoltato poco fa si è parlato di genitori e del doloroso percorso ri-generativo da loro compiuto nell’accoglienza del loro figlio, o della loro figlia, una volta appreso del loro orientamento sessuale.
Questa esperienza, oggi, è anche per la Chiesa-madre! Le stesse difficoltà sofferte in queste famiglie, non sono poi tanto dissimili dalle difficoltà in «questa famiglia», che è la Chiesa. Un figlio, però, e una figlia non li si ama davvero quando li si sogna con gli occhi azzurri, o scuri e con i capelli biondi, o bruni. Il figlio e la figlia li si ama davvero quando li si ha tra le braccia! In questa «accoglienza» che accoglie la «carne» e non si accontenta di sogni c’è davvero l’amore. Così è anche per la Chiesa-madre. Per questo l’accoglienza è importante:
perché permette l’amore. Amor ipse notitia est, affermava san Gregorio Magno: l’amore è già esso stesso una conoscenza.
Sono qui per un titolo di paternità, come dicevo, ma anche di fraternità. Durante un’Omelia in Santa Marta – era il 25 febbraio 2016 – mentre commentava la parabola del povero Lazzaro e del ricco gaudente, che comincia così: «C’era un uomo ricco…» (Lc 16, 19), Francesco disse: «Il Vangelo non dice come si chiamava, soltanto dice che era un uomo ricco, e quando il tuo nome è soltanto un aggettivo è perché hai perso, hai perso sostanza, hai perso forza». Proseguiva poco dopo: «Quante volte ci viene di nominare la gente con aggettivi, non con
nomi…»!
Ancora, durante l’Omelia per la Messa Crismale di quest’anno (29 marzo 2018) disse così: «c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza». Sono parole vere; la verità fedele della persona; sono parole forti; no all’aggettivo fatto sostanza! Per questo, già nel mio messaggio a quanti partecipavano al forum europeo che si tenne qui nello scorso mese di maggio, scrissi che il passaggio dalla cultura dell’aggettivo alla teologia del sostantivo mi era divenuto caro. Lo ripeto a voi: «Siete “gruppi cristiani” e ciò mette in campo un titolo di fraternità. “Cristiano” è il mio nome, scriveva un antico autore del quarto secolo (Paciano di Barcellona): questo permette a tutti i cristiani di chiamarsi per nome».
È questo il titolo per il quale vi riconosco fratelli e per questo stesso titolo noi, battezzati, dobbiamo tutti riconoscerci «fratelli». La Chiesa è la famiglia dei figli di Dio, dove «la linfa vitale è l’amore di Dio che si concretizza nell’amare Lui e gli altri, tutti, senza distinzioni e misura. La Chiesa è famiglia in cui si ama e si è amati» (Francesco, Udienza generale del 29 maggio 2013). È verità di sempre; è la verità del Battesimo, che ha impresso in noi un sigillo di figliolanza e di fraternità (carattere battesimale) che nulla, neppure il nostro peccato, riuscirà mai a distruggere.
Qui è la vocazione, qui è il senso della nostra vita cristiana: essere e diventare figli, come leggiamo in 1Gv 3, 1: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio». Chi fra noi non può riconoscersi in queste parole? Non fanno parte del vocabolario segreto e misterioso della nostra vita? Essere figli: è la realtà di grazia che ci «include» e non permette che alcuno sia «escluso».
Essere figli: è ricevere amore! Noi non esistiamo anzitutto perché doniamo amore, ma perché riceviamo amore. Il primo amore «cristiano» è quello che, nel santo Battesimo, tutti noi abbiamo ricevuto dal Padre, mediante Gesù nella vita dello Spirito.
Cari amici, io non sono qui per farvi una lezione di psicologia, o di sociologia e neppure di etica. Per questo potranno esserci altri luoghi. Una volta, però, durante un incontro formativo col presbiterio della mia Chiesa di Albano si dialogava con un teologo moralista, che svolge un ministero di rilievo nella Chiesa cattolica ed ha pure pubblicato seri studi su temi di sessualità, matrimonio e famiglia.
Da lui fummo incoraggiati a un sereno approccio pastorale anche alle situazioni umane, che questo forum intende considerare. Ci esortava a farlo ispirandoci ai criteri richiamati dal Papa in Evangelii gaudium. Uno di quelli dice così: «Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario.
La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (n. 35). Più avanti il Papa aggiunge: «senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per
giorno […]. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (n. 44).
È questo il punto di vista «cattolico» – nel suo senso più ampio, ch’è l’opposto del partito e della setta – da cui parte ogni dialogo pastorale. Non si tratta per nulla di una proposta morale minimalista; è, anzi, molto alta e impegnativa, ma è pure onestamente consapevole che ciascuno di noi può avviarsi per un itinerario di crescita spirituale e di autentica santità cristiana solo se parte dalla propria, concreta realtà.
Qual è, dunque, questa realtà? La trovo descritta nelle risposte preparate da alcuni di voi per il documento preparatorio dell’Assemblea sinodale, ora appena iniziata.
La Segreteria generale del Sinodo le ha accolte e ve n’è traccia nell’Instrumentum laboris dove si legge «Alcuni giovani LGBT, attraverso vari contributi giunti alla Segreteria del Sinodo, desiderano “beneficiare di una maggiore vicinanza” e sperimentare una maggiore cura da parte della Chiesa, mentre alcune Conferenze Episcopali si interrogano su che cosa proporre “ai giovani che invece di formare
coppie eterosessuali decidono di costituire coppie omosessuali e, soprattutto, desiderano essere vicini alla Chiesa”» (n. 197). Abbiamo, dunque, fiducia nello Spirito, che parla alla Chiesa, specialmente quando la trova concorde e unita nello stesso luogo (cf. At 2, 1).
Nella lettera personale con cui, lo scorso 6 giugno, nel farmelo conoscere, alcuni di voi hanno accompagnato quel testo, è scritto: «Come giovani cristiani abbiamo la fortuna di vivere nel quotidiano i passi grandi e piccoli che la Chiesa sta compiendo, facendoci sentire sempre più figli dello stesso Dio. In queste dinamiche viviamo il nostro servizio, nella tensione tra una Chiesa che vuole essere madre e il dialogo assai impegnativo con chi è rimasto ferito, ma ancora cerca Dio e si sente amato da lui nonostante gli ostacoli ancora riscontrabili in
molte comunità». Ecco, voi parlate di «ferite» e ne avete le ragioni.
Vi chiedo però, di fare uno sforzo a capirci: ad essere feriti, non siete soltanto voi. I «feriti» siamo anche noi, gli adulti che magari ci proponiamo di accompagnarvi e sostenervi. Chi, fra noi, non ha una ferita? A volte sono proprio i dolori per le nostre ferite che ci tengono distanti! È anche vero, però, che proprio la fragilità può aiutarci ad aprire il loro alla tenerezza, alla solidarietà, alla coscienza dei
propri limiti … In un’ottica mondana la fragilità è una condizione inutile; nella prospettiva della fede cristiana, però, è totalmente diverso.
Diceva un monaco del deserto: «chi a motivo del Signore guarisce gli uomini, a sua insaputa guarisce anche se stesso» (Evagrio, Gnostikos 33).
Tutti, infatti, abbiamo bisogno di essere guariti e Chi è in grado di farlo – il solo che può farlo davvero – è anch’egli un «ferito». È Gesù, dalle cui piaghe noi siamo stati guariti (cf. 1Pt 2, 24). Un cristiano, quando guarda la realtà e quando guarda gli altri – e pure quando guarda se stesso – non può non entrare in questo «sguardo». Vista con gli occhi di Gesù sulla Croce, la realtà è diversa! Gli amici incontrati lo scorso mese di giugno, sul libro che mi avrebbero lasciato in dono scrissero come dedica una frase del Vangelo: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11). Quel libro lo conservo. La «gioia» di cui parla Gesù non è quella prodotta dall’esibizione dei muscoli, o procurata dalla terapia estetica, ma quella che nasce dalla fraternità e dall’amicizia. Non per caso l’ultimo nome che Gesù ha dato ai suoi discepoli è stato quello di «amici» (cf. Gv 15, 13-15). Non è, dunque, nella competizione che nasce la gioia, ma nell’amicizia; specialmente in quella che sa avere «compassione» e non rinfaccia nulla.
È tutto qui il mio saluto. Permettete, però, che concluda con una storia ebraica, che si legge nel Talmud Babilonese. È una storia di speranza: «Un giorno Rabbi Joshua Ben Levi interrogò il profeta Elia: “Quando verrà il Messia?”. Elia rispose: “Va’ a chiederglielo”. Rabbi Joshua disse: “Ma dov’è?”. Elia rispose: “Alla porta di Roma”. “E come lo riconoscerò?”. “Siede fra i lebbrosi mendicanti. Ma mentre questi si tolgono e si rimettono le bende tutte in una volta, il Messia si toglie le bende a una a una e se le rimette una alla volta. Egli pensa che Dio lo può chiamare in ogni momento a portare la redenzione e si tiene sempre pronto”».
Albano Laziale, 6 ottobre 2018
Casa di Accoglienza San Girolamo Emiliani
mons. Marcello Semeraro