“La terza benedizione”. Il rifiuto dell’in-differenza: una nuova ermeneutica della sodomia
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, seconda parte
Abramo è direttamente legato alla storia di Sodoma attraverso Lot, suo nipote. Ricordiamoci della benedizione di Abimelech quando incontra Abramo che usciva da Sodoma: “Dio è con te in tutto quello che fai” (Gn21,22). Cosa significa questa benedizione? Secondo il rabbino medioevale Rashì, significa che il cammino di Abramo è tre volte esemplare.
Abramo è uscito da Sodoma senza che vi sia mai giunto. Ha combattuto dei re e li ha sconfitti. Sara, sua moglie, è diventata feconda in vecchiaia. Ecco perché Abramo viene benedetto: “Dio è con te”. La benedizione giunge nel momento in cui abbandoniamo Sodoma, l’indifferenza, il mondo del Medesimo. Venire benedetti significa trovare la propria strada, dare alla personalità il vero io, senza cadere nell’egoismo.
Essere se stessi è divenire per l’altro, è il “coming out” del patriarca Abramo. L’ itinerario di Abramo, da questo punto di vista è esemplare. Nel racconto biblico, Lot è l’uomo perduto, cattivo, indifferente salvato puntualmente da Abramo. Il patriarca si impegna a favore di Lot quando viene fatto prigioniero dai re per salvare Sodoma dalla distruzione. Abramo rifiuta e combatte l’indifferenziazione, per donare a ciascun uomo il proprio volto, la propria singolarità, il proprio modo di essere.
La terza benedizione concerne Sara diventata feconda in vecchiaia. In altre parole, venire benedetti, significa che non bisogna mai disperare. Come dice il proverbio: “Col tempo e con la paglia si maturano le nespole”. Questo significa che la vecchiaia non è una maledizione, ancora meno una malattia.
I rabbini commentano il terzo comandamento come segue: “Non costruire il progetto della tua esistenza, la promessa, l’etica a somiglianza degli altri e non rendere vana la tua vita. Non dare un’interpretazione unilaterale della vita, del mondo o di Dio, afferma la tua differenza!”.
Essere liberi insegnano i rabbini significa esprimere le proprie possibilità per dare al mondo quello che ciascuno di noi è in grado di fare. Una preghiera ebraica invoca Dio così: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”. Perché ripetere per tre volte la parola Dio, dal momento che si tratta dello stesso Dio? E’ evidente. La percezione di Dio che ha Abramo non è la stessa di Isacco o di Giacobbe.
Del resto queste tre percezioni non sono quelle che hanno tutti gli altri uomini che invocano Dio, il Dio unico. Il Dio uno e plurale. Non è faccenda di politeismo, ma di un Dio vivente, per un ebraismo pluralista, rispettoso delle libertà di ciascuno di percepire il proprio divino.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.