Fede e omosessualità: una realta’ negata
Riflessioni di Christian Albini* tratte dal blog sperarepertutti del 8 novembre 2007
La condizione omosessuale è una delle grandi questioni ufficialmente ignorate nella Chiesa cattolica di oggi. C’è una sorta di schizofrenia tra le affermazioni di principio molto nette sulle grandi questioni del dibattito pubblico (come il riconoscimento giuridico delle coppie) e l’esortazione a una comprensione pastorale nei rapporti interpersonali che però fa sì che i credenti omosessuali debbano rimanere nella Chiesa come dei clandestini. Ci sono, ma non si può dire. Come se si potesse tollerare la loro esistenza, ma si dovesse fingere che non esistano.
Sono consapevole che è una realtà che va a toccare molti nodi delicati (la sessualità, la famiglia, la qualità delle relazioni, l’identità di genere…) che non possono essere affrontati a cuor leggero. Però, non si può neanche evitare di affrontarli del tutto, come accade ora, soprattutto perché si tratta sempre di persone in carne ossa, con le loro vite e i loro sentimenti.
Non voglio propormi come quello che ha le soluzioni in tasca, ma credo che la linea attuale del magistero sia troppo unilaterale. Prima ancora che per le posizioni assunte, soprattutto per l’apparato concettuale che le sostiene. Innanzi tutto, la condizione omosessuale viene discussa come un problema morale per cui ci si riduce a dire: “si può fare questo, non si può fare questo”.
E la base di queste affermazioni è una visione dell’omosessualità che si dedica unicamente a farne emergere i deficit rispetto all’eterosessualità. In altre parole, si definisce l’omosessuale in negativo, come qualcuno a cui manca qualcosa. Lo si definisce per quel che non è e non ha.
Ma un atteggiamento del genere è proprio l’opposto del personalismo cristiano per il quale, come scrivevo a proposito di altro anche nel mio ultimo post, la gloria di Dio è l’uomo vivente. Ogni persona ha un valore, ha una bellezza, per il suo esserci, per ciò che è. Ogni persona è immagine e somiglianza di Dio, in primo luogo per la sua capacità di amare.
Allora, sarebbe molto più serio impostare un discorso antropologico che porti a scoprire e a valorizzare in positivo chi è una persona omosessuale. No, mi sto esprimendo male. Siamo tutti persone: omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani, bianchi, neri, handicappati… Siamo tutti figli dell’unico Padre.
Il fatto è che ciascuno di noi ha una storia e un’identità diversa – ciascuno è unico e irripetibile – che ci porta a relazionarci in modo diverso agli altri. Non sempre lo facciamo nel modo giusto (quando siamo corrotti dalla paura, dalla disperazione, dall’egoismo, dalla rabbia), ma la coscienza – che è la strada dell’etica autentica – e per chi ci crede la fede ci aiutano a purificare noi stessi e le nostre macchie.
La mia idea personale, ma sono aperto alla critica e al confronto, è che l’omosessualità sia un modo di amare diverso dall’eterosessualità. Diverso non perché mancante di qualcosa o meno intenso, ma diverso perché di una qualità diversa. Diverso perché cerca, in parte, qualcosa di differente. Ma non per questo di serie “B”. Un modo di amare che è reale, vero, forte, bello, luminoso (ma che può avere anche le sue ombre, come per tutti noi).
E’ la Bibbia stessa, e qui non posso soffermarmi su una spiegazione dettagliata, a mostrare che l’amore si manifesta nella varietà, nella pluralità perché viene da Dio il quale, in quanto Trinità, è relazione, cioè comunione nella diversità. I doni dello Spirito Santo sono l’espressione di questa inesauribile creatività e versatilità dell’amore che assume forme diverse, non omologabili, ma che sono accomunate dalla disponibilità a donarsi all’altro, a perdere la vita per l’altro.
La mia opinione, perciò, è che una seria riflessione antropologica, in una prospettiva di fede, dovrebbe portare a scoprire e a valorizzare in positivo la qualità dell’amore omosessuale. Sarebbe bello se si potesse parlare di questo senza scontri o conflitti, ma serenamente e seriamente.
Mi sento molto toccato da questo argomento, perché mi rimanda a una persona a cui voglio bene come a una sorella e che ha scoperto all’improvviso la propria condizione pochi mesi fa. Sul portale Gionata ho letto un intervento di Rosa Salamone Rodriguez, dal titolo: “Se non sai cosa mi fa male come puoi dire di amarmi?”, che mi ha fatto pensare a lei.
Io ero alle prese con dei miei problemi e ho cercato il suo appoggio, senza rendermi conto che era in un momento troppo delicato per aiutarmi. E così si sono accresciuti i problemi di entrambi dal momento che le persone, in situazioni estreme, non sempre agiscono lucidamente. Temendo, per sbaglio, che mi avesse offeso nelle mie debolezze, sono stato io a offendere lei nella sua intimità, nella sua identità.
Le ho fatto del male, non ho saputo tenere conto della sua situazione, il peso che stava già subendo per un cambiamento radicale della propria vita e delle proprie relazioni non accettato da tutti, e lasciare da parte le mie preoccupazioni. Non sono stato capace di volerle bene a sufficienza nei fatti, proprio quando ne ha avuto più bisogno.
* L’autore di questo post dal 2006 collabora con la Redazione della rivista “Aggiornamenti Sociali”. Ha pubblicato inoltre alcuni libri e numerosi articoli su varie riviste riguardanti questioni di teologia, filosofia e sociologia. Lo ringraziamo per averci permesso di ripubblicare questa sua riflessione.