La mia lotta in Uganda dove gay e transessuali sono considerati “contro natura”
Articolo di Emanuela Zuccàlà pubblicato su Dlui di Repubblica del 1 dicembre 2018, pag.94-98
Non ha mai avuto paura, racconta. Quando Pepe Julian Onziema era solo una studentessa 15enne già scriveva pamphlet in difesa dei compagni espulsi da scuola perché omosessuali. In seguito finì più volte in carcere per il suo attivismo. Nel 2010 trovò la propria foto fra altre 100 su un popolare tabloid ugandese, sotto un titolo senza giri di parole: «Impiccateli!».
Citò in giudizio il giornale e vinse clamorosamente, ma poco dopo l’amico David Kato, tra i gay sbattuti su quella prima pagina, venne ucciso mentre era al telefono proprio con Pepe. E lui realizzò che la lotta per i diritti delle persone Lgbt e Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali), nella sua Uganda malata di omofobia, sarebbe stata lunga e durissima.
Avvocato, 37 anni, oggi Pepe è tra le personalità africane più influenti nel campo dei diritti umani e vive a testa alta la propria identità in un Paese che, per legge, lo considera ancora “contro natura’: L’operazione (in Kenya) con cui ha cambiato sesso nel 2014 è stata solo una tappa: da tempo lavora con Smug (Sexual Minorities Uganda), associazione in difesa delle persone Lgbti, e rappresenta il suo Paese nel network arcobaleno del continente africano. Ora è a New York per un master alla Columbia: «Ma tornerò presto in Uganda», ci racconta, «per creare un programma di mentoring per le persone transessuali, che oggi sono all’ultimo gradino dell’esclusione sociale».
E’ lontana l’epoca in cui Winston Churchill si riferiva all’Uganda come alla “perla d’Africa“. Oggi la nazione est-africana, pur nelle sue immutate bellezze naturali, è bollata da ben altri appellativi. «ll Paese più omofobo del mondo», titolavano i giornali occidentali nel febPepe Julian Onziema, 37 anni, volto simbolo dell’attivismo transessuale ugandese. braio 2014, quando l’eterno presidente Yoweri Museveni firmava la legge cosiddetta “ammazza gay” che infliggeva agli omosessuali la massima pena: la morte.
L’Uganda brillava così della luce più sinistra fra i 38 Stati (sui 54 del continente) in cui l’amore fra persone dello stesso sesso è considerato un crimine. La norma veniva poi annullata, grazie alle proteste internazionali sollevate da attivisti come Pepe e come Kasha Nabagesera, il volto femminile più noto di questa battaglia. Ma gli effluvi d’odio avevano ormai inquinato la società ugandese, esacerbando l’atavica intolleranza contro i gay e, in direzione opposta, rafforzando la grinta dei movimenti Lgbti nel Paese, che da allora sono considerati una coraggiosa avanguardia d’Africa.
«Il nostro Codice Penale punisce ancora con l’ergastolo “gli atti carnali contro natura’», spiega Pepe, «e con 7 anni di carcere le “pratiche indecenti” La mentalità comune resta contro di noi: con l’associazione assistiamo ragazzi gay espulsi da scuola o cacciati dai genitori, persone vittime di violenze, anche da parte della polizia, e omosessuali cui è negata l’assistenza sanitaria, trattati dai medici come appestati. Inoltre, alle organizzazioni come la nostra il governo nega la registrazione ufficiale: dicono che promuoviamo l’omosessualità, e dunque minacciamo l’integrità dei Paese importando “perversioni occidentali”».
Lui stesso, dopo l’operazione chirurgica all’estero, ha faticato a convertire i suoi documenti da femminili in maschili: «Sono stato fortunato», sorride oggi, «solo perché ho incontrato funzionari rispettosi e sensibili». Ora che la violazione dei diritti in Uganda non è più sotto i riflettori del mondo, la situazione nel Paese è ancora più drammatica, sostiene Pepe: «Per due annidi fila, il ministero dell’Etica e dell’Integrità ha bloccato il Gay Pride. Le nostre manifestazioni del 17 maggio, Giornata mondiale contro l’omofobia, sono state interrotte dalla polizia, e le associazioni Lgbti restano sotto stretta sorveglianza. Il governo usa questo per distrarre la gente dai veri problemi del Paese: disoccupazione, povertà, mortalità infantile».
La sua ultima battaglia lo ha visto impegnato contro i predicatori pentecostali, che nei loro sermoni urlati per tutta l’Uganda accusano gli omosessuali di ogni nefandezza, dalla pedofilia alla coprofagia. «La “legge ammazza-gay” era nata proprio dalla spinta di tre pastori americani, venuti qua a sentenziare che l’omosessualità corrode la coesione della famiglia africana. I predicatori ugandesi hanno rincarato la dose».
Cosi Pepe, con alcuni attivisti statunitensi, è riuscito a portare alla sbarra in Massachusetts il pastore americano Scott Lively, il più aggressivo e potente tra quei personaggi. Dopo un lungo processo, Lively è stato assolto dall’accusa di crimini contro l’umanità, ma i giudici hanno messo nero su bianco che le sue vedute sono «grottesche, ripugnanti, di una bigotteria squinternata».
«Per noi è una vittoria», sottolinea Pepe. «AI di là dell’esito processuale, nella sentenza è chiaro che Lively ha contribuito alla persecuzione della comunità Lgbti in Uganda: esattamente ciò che volevamo». Nonostante tutto, l’avvocato transessuale mantiene l’ottimismo: «In Uganda il fronte arcobaleno è diventato maturo e numeroso, sebbene costantemente sotto attacco. Se continueremo a combattere sui due fronti, sociale e legale, sono certo che la prossima generazione sarà finalmente libera da odi e pregiudizi».