Gesù Cristo: l’atteso-inatteso figlio di Dio
Riflessioni* di Michel Barlow** pubblicate sul blog del mensile protestante Évangile et Liberté (Francia) il 7 gennaio 2015, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
L’avremmo riconosciuto se l’avessimo incrociato sui sentieri della Palestina? Niente di meno certo: Gesù creò un modello religioso e umano così radicalmente nuovo, così imprevedibile per noi uomini, che appariva come un inviato di Dio totalmente inatteso. E tuttavia, qualcuno obietterà, varie profezie dell’Antico Testamento annunciavano la sua venuta: Gesù era atteso da secoli! Più di tutti gli altri, il vangelo di Matteo – senza dubbio perché destinato a giudeo-cristiani – si sforza metodicamente di mostrare che le parole e i gesti di Gesù, fin dalla sua nascita e ancora prima, realizzano tale speranza: “Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta…” (Matteo 1:22; 2:15.17.23; 4:14 etc.). Tutte queste “citazioni di compimento”, in particolare nel vangelo dell’infanzia (Matteo 1 e 2), non contraddicono la radicale novità del messaggio di Gesù? Guardiamo più da vicino!
Gesù adempie ciò che annunciavano i profeti?
Il vangelo di Matteo si apre con un annuncio… a Giuseppe (1:18-25)! In sogno, “un angelo del Signore” gli rivela la concezione virginale di Gesù facendo riferimento al celebre Oracolo dell’Emmanuele (Isaia 7): “Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio…”; una profezia che è bene porre nel suo contesto. Come tutti sanno, la Settanta greca, e i vangeli che la seguono, qui vedono il prodigio di una vergine che partorisce. Nella versione ebraica possiamo tradurre letteralmente: “la giovane donna partorirà”! Questo è il segno dato da Dio per confortare la speranza del popolo assediato da ogni parte: prima ancora che il bambino raggiunga l’età della ragione, tutti i nemici saranno cancellati dalla faccia della terra (Esodo 7:16-17).
Più avanti (2:1) Matteo menziona la nascita di Gesù a Betlemme e chiama in aiuto una citazione del profeta Michea per giustificare il fatto che il bambino nascerà nella città del re Davide (cfr. 1 Samuele 16): “Ma da te, o Betlemme […] piccola per essere tra le migliaia di Giuda, da te mi uscirà colui che sarà dominatore in Israele…” (Michea 5:1). È meno una precisazione geografica che un modo di sottolineare che, come è d’uopo per il Messia, Gesù è discendente del re Davide, che è il nuovo Davide.
Più avanti ancora, Matteo “appoggia” su un oracolo di Osea la fuga in Egitto di Giuseppe con “il bambino [Gesù] e sua madre” (Matteo 2:13) per sottrarre il neonato al massacro di tutti i bambini di meno di due anni ordinato da Erode (2:16-18): “chiamai mio figlio fuori d’Egitto” (Osea 11:1). Riferimento sorprendente, perché viene menzionato a proposito della partenza per l’Egitto e non del ritorno in Palestina! Inoltre, il “figlio” di cui parla Osea è l’intero popolo di Israele; una eco di Esodo 4:22: “Israele è mio figlio, il mio primogenito”. Questa volta è dunque a Mosè che Gesù viene paragonato: un nuovo Mosè, un Mosè “compiuto”!
Forse questo è anche il senso della “strage degli innocenti” fomentata da Erode per far scomparire ogni potenziale concorrente alla sua regalità. Anche questa volta Matteo afferma che qui “si adempì quello che era stato detto per bocca del profeta”, in questo caso Geremia: ”Un grido si è udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata”. Nel suo contesto (Geremia 31:15) la frase è una metafora: una maniera di lamentarsi della deportazione degli israeliti del Nord, inviati in esilio dai conquistatori. L’evocazione di Rachele, morta e inumata a… Betlemme (Genesi 35:19; 48:7) molti secoli prima della presa di Samaria, non ha basi storiche. La “citazione di compimento” è una nuova maniera di affermare che Gesù è un nuovo Mosè. La “strage degli innocenti”, della quale non si trova alcuna traccia nelle cronache dell’epoca, ricorda infatti la decisione del faraone di far morire tutti i neonati maschi d’Israele (Esodo 1:15-16), massacro a cui Mosè scampa miracolosamente, come Gesù (Esodo 2:1-10).
Ultima “citazione di compimento”, ancora meno convincente delle precedenti: Giuseppe, al ritorno dall’Egitto, andrà ad abitare a Nazareth di Galilea “affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno” (Matteo 2:23). Nessun profeta sembra però aver mai pronunciato tale oracolo e il termine utilizzato è ambiguo: non “nazareno” (nazarènos), ovvero abitante di Nazareth, ma “nazoreo”, un aggettivo dal significato oscuro (Luca 18:37; Atti 24:5). Quale interesse aveva Matteo a citare un oracolo profetico introvabile e oscuro per giustificare un dettaglio senza grande importanza?
Gesù, l’atteso inatteso
Ne converrete, tutti questi riferimenti all’Antico Testamento che dovrebbero “dimostrare” che Gesù realizza ciò che annunciavano i profeti appaiono poco convincenti, tanto più che sono rivolti a dei giudeo-cristiani buoni conoscitori delle Scritture! Notiamo anche il loro carattere “periferico”, il loro insistere su dettagli piuttosto aneddotici. Se Matteo avesse veramente voluto dimostrare che Gesù era né più né meno che il Messia annunciato, avrebbe appoggiato la sua argomentazione sulle proclamazioni centrali del messianismo veterotestamentario. Si ha l’impressione che, come fanno i testi ufficiali di certe Chiese cristiane, Matteo citi le Scritture non come fonte della sua ispirazione ma per giustificare a posteriori un pensiero concepito all’infuori di esse. È molto difficile tuttavia ammettere che Matteo citi le Scritture a casaccio o che sciorini la sua erudizione per meglio inculcare le sue idee personali!
In effetti, tutte le obiezioni che abbiamo formulato fino a questo punto hanno valore solamente nell’ipotesi che Matteo faccia un discorso storico, una cronaca di avvenimenti reali, assemblati il più fedelmente possibile. Ma è questa la natura dei primi due capitoli del suo vangelo? Le sue primissime parole, “Genealogia di Gesù Cristo”, annunciano le sue origini ma anche tutto il vangelo dell’infanzia (Matteo 1 e 2). Si tratterebbe, in ambedue i casi, di mostrare che la storia passata d’Israele trova in Gesù il suo autentico significato. Di colpo abbiamo a che fare con una sorta di midrash: il rivestimento narrativo di una affermazione teologica.
Per tessere la sua idea, Matteo mette addosso a Gesù tutte le caratteristiche dei grandi personaggi dell’Antica Alleanza. Come Isacco, Samuele e molti altri ancora, la sua nascita doveva essere sorprendente; ecco quindi la concezione virginale. È importante che, nella sua veste di futuro Messia, appartenga alla discendenza del re Davide; ecco quindi la nascita a Betlemme e la giustificazione della sua residenza a Nazareth. Gesù è inoltre un nuovo Mosè, legislatore, mistico e guida del popolo dei credenti; ecco quindi l’esilio in Egitto e la strage degli innocenti!
Così, se facciamo dei vangeli dell’infanzia, quello di Matteo come quello di Luca, una catechesi narrativa invece di una relazione dalle pretese storiografiche, le citazioni di compimento, più che essere una prova della messianicità di Gesù, sono un modo di colorare il racconto e di stabilire una complicità con i destinatari del testo.
La novità, l’inatteso dell’insegnamento e della personalità di Gesù non sono quindi affatto annullati da queste finte radici veterotestamentarie. Certo, il Messia era ardentemente atteso, ma il modo in cui Gesù risponde concretamente a questa attesa ribalta ogni previsione. Sì, Gesù porta a compimento la Legge e i profeti (Matteo 5:17), ma non nel senso di una realizzazione programmata: porta a compimento questa attesa superandola, andando al di là dei suoi limiti, prendendola in contropiede. Sì, Gesù era certamente l’inviato di Dio, atteso con una passione e una speranza che facevano tacere tutte le delusioni della storia; ma la sua parola e la sua azione hanno fatto di lui l’inatteso di Dio, il Servitore benedetto e sorprendente!
* I passi biblici sono tratti dalla versione Nuova Riveduta.
** Michel Barlow è saggista, romanziere, teologo e docente universitario emerito di lettere e scienze dell’educazione. Collabora regolarmente alla rivista cattolica contestataria Golias Hebdo e ad Évangile et Liberté.