“La mia vita non è una litote”. I criteri morali di Gesù sulle relazioni omosessuali
Riflessioni di Antonio De Caro del Gruppo Cristiani Arcobaleno di Parma, seconda parte
Quali sono secondo Gesù Cristo i criteri per stabilire se un comportamento è morale? Cioè se è conforme all’idea del bene che ha Dio e quindi corrisponde alla Sua grazia e al Suo disegno di salvezza? Non ho alcuna pretesa di essere esaustivo, ma vorrei tentare di raccogliere dal Vangelo alcuni di questi criteri, in cui non vedo altro se non aspetti e sfumature dell’unico comandamento dell’Amore. A patto di intendere Amore non tanto come passione fisica o emozione superficiale, ma come impegno gioioso e serio per il bene reale dell’Altro.
Lc 6,44 “Ogni albero si riconosce dal suo frutto”. Immaginiamo che una relazione omosessuale strappi due individui alla solitudine e li faccia entrare in un rapporto di rispetto e comunione; immaginiamo che ciascuno dei due partner da quella relazione tragga armonia, serenità, gioia e diventi una persona risolta, sempre più capace di dono e perdono anche grazie alla forza attinta da quella relazione; immaginiamo che una relazione omosessuale produca Amore, Gioia, Pace, Pazienza, Benevolenza, Bontà, Fedeltà, Mitezza e Dominio di sé, che secondo Gal 5,22 sono i “frutti dello Spirito”, non più soggetti alla Legge: siamo davvero sicuri che si tratti di una relazione immorale e contraria al Vangelo?
Mt 11,4-5 “I ciechi recuperano la vista…”. Quando i discepoli inviati da Giovanni il Battista chiedono a Gesù se lui sia davvero l’Inviato da Dio, Gesù li esorta a riferire a Giovanni che, grazie alla Sua presenza, le sofferenze umane cessano. Gesù risponde citando i “segni messianici”, già presenti in Is 35,3-6 e Lc 4, 17-21. Ora, vorrei osservare che, fra i diversi linguaggi simbolici disponibili (anche nell’Antico Testamento) per alludere alla presenza del Messia e alla venuta del Regno di Dio, Gesù sceglie proprio quelli che riguardano non il mondo animale, ma l’essere umano; e tali “segni” rivelano che il regno di Dio si compie quando l’essere umano è rigenerato, ricondotto alla salute, alla libertà, alla bontà originaria. La pienezza della vita dell’uomo sembra essere davvero importante per Gesù, al punto da diventare la Sua risposta a Giovanni. “Sì, sono davvero io, e lo dimostrano i miei frutti, cioè la pace che porto nella vita delle persone”. Questa centralità della persona umana, la cui “vita piena” coincide con la missione di Gesù, è confermata anche da altri passi, come quando Gesù dice che il Sabato (cioè la Legge) ha come scopo l’uomo, e non viceversa (Mc 2,27). Per contrasto, deturpare e distruggere la persona umana è lo scopo dell’Avversario, “omicida fin dal principio” (Gv 8,44).
Una persona omosessuale è tale costitutivamente e non può cambiare; ma può scegliere come vivere la sua dimensione affettiva e sessuale. Immaginiamo che, dopo tanta sofferenza, tanta solitudine, o anche tante esperienze occasionali e disordinate, riesca a costruire una relazione appagante e stabile, e che questa relazione curi le sue ferite e produca apertura alla speranza e al bene, anche nelle relazioni al di fuori della coppia. Non è una guarigione? Non è un segno messianico? La persona rinasce, si fortifica, riprende il movimento sano verso la vita e, se è credente, avverte in ciò un dono di Dio ed orienta il suo cammino verso di Lui. La condanna e l’astinenza forzata che troviamo nel Catechismo rischiano, invece, di trattenere le persone omosessuali nell’isolamento, di farle sentire sterili in tutti i sensi, piene di amarezza e rabbia, perennemente convinte di essere “sbagliate”, “sporche” e indegne di amore. Solo l’amore può farle fiorire: dove amore è l’amore oblativo, e il fiorire vuol dire apertura adulta e forte a relazioni costruttive.
Ripeto: non pretendo di trovare risposte assolute. Probabilmente chi è teologo di professione troverà molti errori nelle mie considerazioni. Ma io sono solo un cristiano che cerca nel Vangelo la via per vivere nel modo migliore la propria esistenza e la propria vocazione alla salvezza. Come persona omosessuale, trovo in questi passi del Vangelo, e nel comandamento dell’Amore che li compendia tutti, una via che la mia coscienza reputa assennata, giusta, praticabile, capace di accogliere la mia identità e conforme al volto di Dio rivelato in Gesù Cristo. E cammino con questa umile serenità, assumendomene la responsabilità in questo mondo e nell’altro, confidando nell’amore di Dio. Non mi sento perfetto, ma ho la speranza che il Signore accetterà il bene che cercherò di volere e di compiere, rispettando e non disprezzando o soffocando la mia condizione.
Per molti sarebbe facile a questo punto citare i passi della Bibbia che condannano senza appello i rapporti omosessuali. Quei passi, ormai lo sappiamo, andrebbero interpretati in modo storico-critico e molto probabilmente non riguardano l’omosessualità e le relazioni omosessuali come si presentano oggi. Ma il punto è un altro. Se la morale cristiana si basa sulla Rivelazione, e la Bibbia talvolta sembra fornire indicazioni contrastanti, come interpretarla? Quale norma trarre da essa? Chi ha ragione in questo caso? Quale versetto “conta di più”?
Ancora una volta, non ho gli strumenti per fornire una risposta autorevole e definitiva a queste domande. Ma rifletto su ciò che so e osservo. Gesù in persona ha detto che per essere salvati occorre essere battezzati (Mc 16,16); ma i teologi oggi hanno dichiarato non valida l’idea del “Limbo”, sia perché non ha plausibili basi nella Scrittura, sia perché sarebbe in contraddizione con la logica dell’Amore di Dio rivelataci dallo stesso Gesù, soprattutto nel caso dei bambini innocenti. Non riuscendo a sanare questa contraddizione, la Chiesa preferisce saggiamente sospendere il giudizio e fare l’unica cosa che ha senso: nutrire una ferma speranza nella bontà di Dio. Qualcosa del genere è avvenuto quando, di recente, il Papa ha chiarito che la Chiesa non può approvare la pena di morte e ha disposto la conseguente e rapida modifica del Catechismo: ancora una volta, la norma (umana) della Chiesa non può contraddire la superiore logica dell’Amore di Dio. E lo stesso mi pare si possa dire anche per la recente correzione apportata alla versione moderna della preghiera del “Padre Nostro”: la Chiesa modifica le sue tradizioni per renderle sempre più coerenti con il cuore del Vangelo e con il volto di Dio che la riflessione teologica mette sempre meglio a fuoco, in quanto interpellata dalle situazioni concrete dell’umanità di oggi.
Mi pare evidente che dalle scienze umane, dall’esegesi biblica e dalla riflessione filosofica e teologica emergono, se non certezze, almeno robusti dubbi sulla dottrina tradizionale riguardo all’omosessualità. Essere consapevoli di questi dubbi dovrebbe condurre i vescovi, i sacerdoti e i fedeli ad una saggia cautela, a sospendere il giudizio, aprendo spazi di ascolto e ricerca. Senza più impugnare la Tradizione e il Magistero come “pietre da scagliare sulla vita delle persone”, come armi che rischiano di avere un effetto distruttivo, “omicida” in senso spirituale, psicologico e a volte anche fisico. Tenere insieme “carità e verità” vorrebbe dire, a mio avviso, anche saper mettere a tacere una presunta verità che rischia di rovinare la carità, in attesa di trovare un nuovo e più coerente accordo fra di esse.
Qui l’obiezione, più volte sollevata, è che in tal modo la Chiesa potrebbe dare l’impressione di riconoscere i propri errori, perdendo così credibilità e autorità presso i fedeli; cosa -si sostiene- ancora più grave nel periodo in cui essa deve affrontare il terribile fenomeno degli abusi sessuali. Questa considerazione è stata fatta anche a Caravaggio, e ha avuto sui partecipanti un effetto doloroso. La Chiesa ritarderebbe la revisione della dottrina sull’omosessualità per dimostrare fermezza nella lotta agli abusi sessuali del clero. Come se perpetuare la condanna dell’omosessualità equivalesse a lavarsi la coscienza per dare al mondo un’immagine “ripulita”. Come se omosessualità e pedofilia fossero la stessa cosa. Esistono moltissimi omosessuali assolutamente estranei ad abusi su minori; come esistono anche pedofili “eterosessuali” (è il caso dell’abominevole “turismo sessuale”). Questa strada non è credibile, né praticabile, e rischia di incrinare ulteriormente l’autorevolezza della Chiesa.
Un’ultima obiezione è che, se la Chiesa ammettesse di aver sbagliato e cambiasse idea su una questione così antica, rischierebbe di perdere l’adesione di molti fedeli e, forse, di innescare uno scisma. Istintivamente, mi viene di rispondere che, quando la Chiesa nei secoli ha pronunciato inesorabili condanne di cui poi ha dovuto fare ammenda, non si è mai posta il problema delle persone che avrebbe in tal modo ferito o allontanato, ma non sarebbe evangelicamente giusto farsi guidare dal risentimento. Piuttosto, sarebbe opportuno che la Chiesa da un lato progredisse nella ricerca teologica e morale, e poi facesse quello che da secoli sa fare benissimo: educare le persone, come individui e come comunità, ad un senso di accoglienza, rispetto ed amore che forse sembra “nuovo” ma in realtà risponde in modo più autentico alle intenzioni del Vangelo. Per riprendervi autorevolezza e credibilità, educate, e con l’esempio prima ancora che con le parole. Ma non potrete, non potremo farci strumenti di una rinnovata adesione al Vangelo se tale metanoia non sarà avvenuta innanzitutto in noi stessi: solo se sperimentiamo concretamente l’amore di Dio che rinnova, possiamo poi esserne testimoni entusiasti, fedeli e attendibili.