Dopo le parole del Papa è ricominciata la discussione se esiste, o meno, una “lobby gay” nel clero
Articolo di Robert Shine* pubblicato dal sito dell’associazione LGBT cattolica New Ways Ministry (Stati Uniti) il 18 dicembre 2018, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Le recenti dichiarazioni di papa Francesco sui sacerdoti gay hanno ridato nuova linfa all’annoso dibattito sul perché i gay non possano essere ordinati, su quale ruolo i sacerdoti gay possano aver giocato negli scandali di abusi sessuali e se tra i consacrati esista o meno la cosiddetta “lobby gay”.
Alcuni cattolici hanno utilizzato le parole del Papa, secondo cui i sacerdoti gay sono “qualcosa che mi preoccupa” e l’omosessualità sarebbe diventata “di moda”, per reiterare le loro condanne verso i suddetti sacerdoti: per esempio monsignor Héctor Aguer, arcivescovo emerito della Plata, in Argentina, ripete le voci secondo cui in certe diocesi ci sarebbe un grande numero di sacerdoti gay “che solitamente si coprono l’un l’altro” e “che costituiscono una specie di loggia o lobby, che comprende anche quelli ‘non praticanti’”. Negare a tutti i gay l’accesso al sacerdozio, il che secondo lui è l’intenzione di Francesco, sarebbe una “discriminazione giusta”, in quanto essi mancano di “una piena integrità maschile”.
Perfino la rivista [cattolica] Commonweal, di tendenza progressista, ha pubblicato un lungo articolo di Kenneth Woodward, giornalista di lungo corso nel campo religioso, in cui sostiene di sapere da molti anni dell’esistenza di un network di sacerdoti e religiosi gay; anche se Woodward rigetta l’idea che gli omosessuali non possano essere ordinati, esprime comunque preoccupazione per la “lobby lavanda”, che secondo lui sarebbe protetta dall’ex cardinale, ora in disgrazia, Theodore McCarrick: “Con la parola ‘network’ intendo gruppi di sacerdoti diocesani e di religiosi gay che favoriscono l’adescamento sessuale di seminaristi e giovani preti e vivono una doppia vita, vale a dire che rompono il loro voto di castità [o promessa di celibato] mentre svolgono il loro ministero tra i laici e si occupano delle varie incombenze burocratiche della Chiesa […] .
Già nel 1968 mi giunsero voci simili su dei sacerdoti che facevano parte della Curia Romana; per la maggior parte erano italiani, perché gli Italiani sono generalmente più tolleranti degli Americani nei riguardi dell’omosessualità, e non manifestano stupore quando qualcuno che conduce una doppia vita viene scoperto. Quello che mi preoccupa, tuttavia, non è solo l’ipocrisia di certe persone, ma quei network gay che proteggono i loro membri sessualmente attivi”.
L’arcivescovo di Chicago, cardinale Blase Cupich, noto alleato di papa Francesco, ha fatto capire di credere anch’egli in parte a tali voci. Parlando agli studenti del seminario Mundelein, in Illinois, la scorsa primavera, Cupich ha detto, come riporta il [quotidiano] Chicago Sun-Times: “I fatti non lo confermano”, parlando del legame tra sacerdoti gay e abusi sessuali; ha detto però anche che lo scandalo degli abusi ha “una sfumatura omosessuale” e che a volte è rinvenibile una “sottocultura” gay che formerebbe una “cricca”.
Altri cattolici, però, rigettano tutto questo. Francis DeBernardo, direttore esecutivo di New Ways Ministry, ha dichiarato ad iNews: “Fin quando la gerarchia della Chiesa Cattolica continuerà ad emettere giudizi negativi sulle persone LGBT, e in particolare sui consacrati gay, ci sarà sempre modo di lanciare accusa scabrose che non possono essere dimostrate né smentite […] Accusare un membro del clero di omosessualità, o di far parte di un ‘network omosessuale’, diventa un modo agevole di distruggere la sua reputazione”.
Michael Sean Winters, del [quotidiano cattolico] National Catholic Reporter, pensa che la terza lettera contro il Papa dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò riveli molto apertamente la sua omofobia: “Che le minoranze siano da sempre dei capri espiatori è risaputo. Un giornalista non certo superficiale come Kenneth Woodward ha scritto, sulle pagine di Commonweal, cose un po’ troppo corrive, per i miei gusti, sui presunti ‘network’ di preti gay e sulla ‘lobby lavanda’. Non ho dubbi sul fatto che, per reagire ai sospetti e al bigottismo, molte minoranze sviluppino [al loro interno] dei legami di aiuto reciproco, ma la mia esperienza mi dice che alcuni sacerdoti e vescovi gay sono ultraprogressisti, mentre altri sono ultraconservatori, ed è quindi assurdo pensare che esista un programma ideologico o politico comune che nascerebbe dalla consapevolezza di essere tutti omosessuali.
Inoltre, di fronte ad altri simili pregiudizi (per esempio, quando si dice che ‘gli ebrei si aiutano tutti gli uni gli altri’) dovremmo fare tutti un passo indietro e cercare prove più concrete di quelle offerte da Viganò e Woodward”. Per quanto riguarda le accuse di Viganò su una presunta “cultura omosessuale”, John Gehring di Faith in Public Life [network interconfessionale cristiano, n.d.t.] ha fatto rilevare la loro incongruenza, in quanto l’arcivescovo è stato complice nella copertura degli abusi sessuali di monsignor John Nienstedt, arcivescovo emerito di St. Paul-Minneapolis.
Brandon Peterson, laureato in teologia all’Università di Notre Dame, ha scritto per il [quotidiano] Salt Lake Tribune una difesa dei sacerdoti gay; secondo Peterson il dramma degli abusi sta nelle dinamiche di potere più che nell’orientamento sessuale: “Nulla indica che lo sfruttamento sessuale denunciato dal movimento #MeToo sia dovuto primariamente dalle preferenze sessuali dello stupratore, in quanto tali dinamiche sono rinvenibili in quasi tutti i rapporti carnefice-vittima, e poco importa se il carnefice è eterosessuale, omosessuale, maschio, femmina o altro. Una caratteristica emerge chiaramente: chi è in una posizione di potere cerca di trarre un profitto sessuale dalle persone a lui subordinate, e vulnerabili.
I cattolici odierni fanno bene ad allargare lo sguardo per vedere, nell’attuale scandalo abusi, sia le vittime infantili che quelle adulte; tuttavia, quando pensiamo ai seminaristi, non possiamo tentare di risolvere il problema dando la colpa agli omosessuali e auspicare la loro espulsione dal corpo sacerdotale. Fare questo stigmatizzerebbe ingiustamente i molti sacerdoti gay fedeli alla Chiesa, cancellerebbe le storie delle ragazze e delle donne sopravvissute agli abusi clericali, disperderebbe tutti i nostri preziosi sforzi lontano dai veri problemi e, infine, sarebbe quasi impossibile farlo con profitto, anzi, aggraverebbe il problema”.
La questione dei sacerdoti gay sta ricevendo un rinnovato interesse in seguito alle nuove rivelazioni di abusi clericali; purtroppo, questo significa che i sacerdoti gay sono sempre più additati come capri espiatori per i crimini del clero e per quella cultura clericale di cui non sono certo la causa.
Per questo motivo, New Ways Ministry sta rilanciando la sua campagna denominata The Gift of Gay Priests’ Vocation (Il dono della vocazione dei sacerdoti gay), la quale vuole dimostrare il nostro sostegno ai sacerdoti e religiosi omosessuali che servono il Popolo di Dio fedelmente, concretamente e con senso del dovere; con questa campagna vogliamo chiedere alla gerarchia della Chiesa di porre termine alle falsità sui sacerdoti gay e di ammettere i candidati gay al sacerdozio.
* Robert Shine è direttore associato di New Ways Ministry, per cui lavora dal 2012, e del blog Bondings 2.0. È laureato in teologia alla Catholic University of America e alla Boston College School of Theology and Ministry.
Testo originale: After Papal Comment, Renewed Debate on Whether a “Gay Lobby” Exists in the Clergy