I cattolici LGBT sono una realtà che la chiesa cattolica ancora non sa vedere
Riflessioni del teologo Craig A. Ford, Jr.* pubblicate sul sito del periodico cattolico Commonweal (Stati Uniti) il 19 dicembre 2018, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Nell’autunno del 2018 abbiamo assistito a un paio di fatti che ci fanno meglio capire la necessità di una teoria del genere e dell’identità sessuale adeguata alle nostre conoscenze attuali sulla sessualità umana. Il primo è la proposta dell’amministrazione Trump di modificare una legge sull’istruzione in modo da definire il sesso come “maschile o femminile, immodificabile e determinato dai genitali con cui la persona è nata”, e in modo da far sì che i “casi dubbi” siano risolti attraverso un test genetico. Questa classificazione binaria dell’identità sessuale avrebbe effetto sui quasi 1.4 milioni di Americani che non si riconoscono nel genere indicato sul certificato di nascita, e la proposta è stata infatti descritta come transfobica e anti-LGBTQ+ dalle persone transgender e genderqueer (e da chi sta al loro fianco).
Il secondo fatto è la decisione dei vescovi riuniti per il Sinodo sui giovani del 2018 di non includere i termini “gay” e “LGBT” nel documento finale del Sinodo, nel punto in cui si parla delle teologie importanti per chi si identifica nello spettro LGBTQ+, o semplicemente si definisce “queer”, anche se il termine LGBT è stato effettivamente utilizzato nei documenti preparatori. (Alcune precisazioni su questi termini: quando è utilizzata per riferirsi all’identità, il termine “queer” designa le identità di genere e gli orientamenti sessuali che si definiscono come varianti della corporeità binaria cisgender [maschio/femmina] e del desiderio e delle pratiche sessuali binarie.
I termini “queer” e “LGBTQ” sono ambedue abbreviazioni, ma il secondo nomina esplicitamente le varie identità. Aggiungere un + a LGBTQ segnala l’esistenza di altre forme di genere e di varianti sessuali non comprese nell’acronimo, per esempio “genderqueer”, che designa le identità di genere al di là della distinzione binaria cisgender, vale a dire le persone per cui il termine “transgender” non riflette accuratamente la concezione che hanno di se stesse. Come ha fatto notare qualcuno, il semplice utilizzo, in un documento ecclesiale, del termine LGBT, anche senza Q e senza +, rappresenta un grande passo in avanti in termini di riconoscimento.)
Naturalmente si tratta solo di un conflitto meschino su che nome dare a delle persone che hanno già manifestato chiaramente la volontà di essere chiamate in un certo modo, ma ha chiarito una volta per tutte che la teologia corrente sul sesso e il genere ha ormai fatto il suo corso. Basta considerare come tale teologia oggi venga dibattuta secondo i soliti vecchi schemi.
Da una parte abbiamo quindi commenti come quello dell’arcivescovo di Philadelphia Charles Chaput, contrario all’uso del termine LGBT nei documenti ufficiali: “Non esistono i cattolici LGBTQ, come non esistono i cattolici transgender o i cattolici eterosessuali, come se i nostri appetiti sessuali definissero chi siamo, come se queste definizioni descrivessero comunità discrete dall’integrità differente, ma uguale, all’interno della vera comunità ecclesiale, il corpo di Cristo”.
Ecco invece le parole di padre James Martn SJ, che scrive a favore dell’uso di questo termine: “Fare riferimento alle persone LGBT con il nome che la maggior parte di loro oggi usa per se stesse fa parte di quel ‘rispetto’ a cui invita il Catechismo […] Rifiutarsi di chiamare un gruppo con il nome che il gruppo stesso preferisce è molto vicino alla mancanza di rispetto. I giovani e le giovani LGBT, che spesso subiscono maltrattamenti e umiliazioni e vengono spesso insultati con appellativi offensivi, sono particolarmente attenti al linguaggio irrispettoso”.
Vale la pena evidenziare due punti. Il primo è che queste dichiarazioni riflettono una dinamica ricorrente nell’approccio cattolico alla sessualità: il forte divario tra l’approccio “dottrinale” e quello “pastorale” nei confronti delle persone queer. Monsignor Chaput rappresenta l’approccio dottrinale esposto dal cardinal Ratzinger nel 1986: l’omosessualità non è un’identità, bensì una condizione psicologica avversa.
Secondo questa logica (la stessa che porta alla conclusione corretta secondo cui, per esempio, dovremmo dire “una persona che vive con la depressione” e non “una persona depressa”) non dovremmo riferirci a qualcuno in modo da far capire che costui è essenzialmente definito da qualcosa che, in realtà, è un problema.
Ma questo non ha senso per le persone queer, e padre Martin lo comprende bene. Anche se la dottrina stabilisce che l’omosessualità è una sorta di “disordine oggettivo”, o che l’identità transgender in qualche modo disonora la creazione di Dio, questo non servirà a far accorrere le persone queer nelle parrocchie.
L’espressione “cattolici LGBTQ+” è come minimo un riconoscimento dell’esperienza che le persone queer hanno delle loro identità: non è un problema che devono combattere. L’uso di quell’espressione rassicura le persone queer che, a prescindere da quali siano le conclusioni della teologia sulla sessualità, essa ha in ogni caso come base di partenza l’uguale dignità di ogni persona. In altre parole (come papa Francesco non si stanca di sottolineare commentando positivamente le esperienze delle persone queer), l’unico approccio possibile alle questioni queer è un atteggiamento di umile rispetto per come le persone queer stesse vivono il loro essere nel corpo, vale a dire che l’unico approccio proponibile è quello pastorale. È la via della misericordia (che è poi quella del Signore Gesù) che Francesco sta tentando di modellare per noi.
Secondo punto: tutta questa discussione di nomenclature ci distrae da ciò che è veramente importante, vale a dire far quadrare la nostra teologia sul genere e l’identità sessuale con la realtà, vale a dire con ciò che conosciamo dell’esperienza umana del corpo e l’esperienza sessuale. Io dico sempre ai miei studenti, e lo dico da studioso di teologia ed etica in comunione con la Chiesa Cattolica Romana: “Ogni buona etica inizia con l’esperienza umana vissuta informata dalle virtù della giustizia e dell’uguaglianza, e procede con il rispetto per la sempre crescente comprensione dell’esperienza umana del corpo che abbiamo conquistato nel tempo. Cominciamo da qui”.
Questo significa che non possiamo parlare di come il mondo dovrebbe essere fino a quando non avremo una corretta comprensione di come il mondo è, e questo vale anche per il genere e la sessualità. Per comprenderli meglio, dobbiamo rivolgerci agli scienziati (non in maniera esclusiva, ovviamente) che studiano i fenomeni a cui siamo interessati. Per quanto riguarda l’omosessualità, i risultati sono disponibili da decenni: l’attrazione omosessuale, lungi dal costituire un disturbo psicologico, è in realtà un tratto psicologico normale, osservato nell’esperienza sessuale umana.
Anne Fausto-Sterling, docente di biologia e studi di genere all’Università Brown, in un editoriale apparso sul New York Times osserva che la complessità dell’identità di genere è una caratteristica di cui gli scienziati si accorsero già negli anni ‘50. L’esistenza delle persone transgender, genderqueer e intersessuali mette in crisi il concetto secondo cui il genere ci viene assegnato in maniera indiscutibile. Le persone intersessuali sono una negazione vivente del binarismo a livello di costituzione biologica; le persone trans e genderqueer negano il binarismo a livello di costituzione psicologica. Cosa sappiamo oggi, nel 2018? Scrive Fausto-Sterling parlando specificamente delle persone intersessuali: “Una neonata XX può essere nata con un pene, una persona XY può avere una vagina, e così via. Questo tipo di incoerenze è un vero e proprio sabotaggio per chi vuole assegnare un sesso (maschile o femminile), in modo categorico ed eterno, prendendo in considerazione solamente le parti intime del neonato”.
La verità è che la nostra teologia sul sesso e il genere non riflette il mondo come effettivamente Dio lo ha creato per noi, bensì una comprensione del mondo di altri tempi. Ma c’è un punto ancora più importante: tale teologia non è un metodo autenticamente cattolico di studio della sessualità, che dovrebbe avere come cornice la legge naturale.
La legge naturale in quanto schema etico rappresenta un approccio al pieno sviluppo umano che inizia con un’onesta constatazione di cosa vuol dire essere umani che agiscono nel mondo; questo richiede, se vogliamo comprendere la sessualità umana, una vasta ricerca nelle teorie scientifiche e filosofiche sull’argomento, e solo dopo possiamo cominciare a chiederci con quale luce il Vangelo illumina la sessualità umana e cosa significa, per gli esseri umani, svilupparsi pienamente come creature dotate di un genere e di desideri sessuali.
È proprio quello che monsignor Chaput non vuole. Nello stesso discorso in cui ha bocciato l’uso del termine “LGBT” nei documenti ufficiali, ha anche detto: “Chi siamo come creature, cosa vuol dire essere umani, perché dovremmo pensare di avere una speciale dignità: queste sono le domande eterne che stanno dietro tutte le nostre ansie e conflitti. La risposta a tutto questo non verrà dalle ideologie, né dalle scienze sociali, ma solo dalla persona di Gesù Cristo, redentore dell’uomo”.
Opporre la persona di Gesù Cristo redentore alle scienze sociali significa creare una dicotomia che non può trovare posto nella tradizione cattolica, soprattutto se crediamo (come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua enciclica Fides et ratio) che tutte le verità hanno una comune origine in Dio. Una cosa è non essere d’accordo con certe scoperte scientifiche, altra cosa è ritenerle inammissibili. Le frasi di Chaput non riflettono affatto questa sfumatura.
Come l’amministrazione Trump minaccia di disfare decenni di sforzi per creare un mondo più giusto verso le persone queer con il suo fare affidamento a una dottrina del sesso e del genere che non tiene conto del mondo così com’è, così noi cattolici ci esiliamo dal mondo con i nostri attuali schemi teologici che cercano di trovare un senso al sesso e al genere.
Dobbiamo comprendere le traiettorie del pieno sviluppo sessuale umano mantenendo un’apertura critica alle ricerche che negli anni hanno gettato luce su queste tematiche. Dobbiamo farlo noi stessi, e dobbiamo chiederlo alla gerarchia della nostra Chiesa.
* Craig A. Ford, Jr. insegna all’Università Fordham [l’ateneo gesuita di New York, n.d.t.] e si occupa degli incroci tra teoria queer, teoria della critica razziale e tradizione morale cattolica. Ha pubblicato “Interrogating ‘Born This Way’ Theology: The Challenge of Transgender Identity for the Future of Catholic Sexual Ethics,” in Love, Sex, and Families, ed., Julie Hanlon Rubio and Jason King, forthcoming; e “Transgender Bodies, Catholic Schools, and a Queer Natural Law Theology of Exploration,” Journal of Moral Theology 7.1 (January 2018): 70-98.
Testo originale: LGBT Catholics Are a Reality