Come se Dio non ci fosse
Articolo di Francesco Ricci pubblicato nella rivista “Confronti” di Febbraio 2019.
«Li ciampanis ch’a sunin / nissùn li scolta pì; / l’aria e i lens / a no son pì bens da la solitudin». (“Le campane che suonano nessuno le ascolta più; l’aria e gli alberi non sono più beni della solitudine”).
Nel 1975, anno della sua morte, Pier Paolo Pasolini dette alle stampe “La nuova gioventù“, dove trovarono posto, accanto alle poesie friulane de “La Meglio gioventù” (1954) e a una sezione inedita, anche il loro rifacimento, che ne rovesciava, a distanza di un ventennio, il significato ultimo. Ad esempio, inizialmente la strofa citata, appartenente alla lirica Aleluja, si presentava in questo modo:«Li ciampanis / a batin ta un altri sèil / e aria e lens / a murmurèin / tal to cuàrp» (“Le campane battono in un altro cielo, e vento e alberi mormorano sul tuo corpo”).
Ma sotto l’inarrestabile avanzata di uno “sviluppo senza progresso”, anche l’arcaico, contadino, innocente Friuli si conformava alla moderna società dei consumi, per la quale parole come religione, religiosità, fede religiosa tendono a divenire parole vuote. Né potrebbe essere altrimenti, dal momento che il tipo umano che ha in mente il capitalismo, come lo stesso Pasolini scrisse nel gennaio del 1969 sul settimanale Tempo, «non è l’uomo religioso, o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale». Anche per questo, soprattutto per questo, «Li ciampanis ch’a sunin / nissùn li scolta pì». Quanto l’intellettuale bolognese osservava a proposito delle trasformazioni del mondo friulano, oggi deve essere esteso all’Italia (e all’Occidente) intera.
GIOVANI NON CREDENTI: UN FENOMENO IN CRESCITA
Una conferma in tal senso, puntuale e documentata, ci è offerta da due saggi di recente pubblicazione. Il primo è opera di un sociologo, Franco Garelli, si intitola “Piccoli atei crescono” (il Mulino, Bologna 2016) e si basa su una ricerca condotta su un campione di 1450 ragazzi (maschi e femmine) di eta compresa tra i 18 e i 29 anni. Il secondo è stato scritto da un teologo, Armando Matteo, il quale, a circa dieci anni di distanza da “La prima generazione incredula” e alla vigilia della celebrazione della XV Assemblea ordinaria generale del Sinodo dei vescovi (che si è svolto dal 3 al 28 ottobre del 2018), ha dato alle stampe “Tutti giovani, nessun giovane” (Piemme, Milano 2018).
Il quadro complessivo che emerge relativo al rapporto tra i giovani e la religione in Italia appare estremamente chiaro. Il numero dei non credenti è in continuo aumento. Rientrano in questa categoria gli atei, gli agnostici, i soggetti di condizione indifferente nei confronti della fede. Ad accomunarli è una duplice convinzione: l’impossibilita di fare oggetto di conoscenza ciò che trascende l’esperienza umana è l’idea che si può condurre una vita sensata anche senza Dio.
Nel 2007 la percentuale dei giovani non credenti era del 23%, otto anni dopo, nel 2015, era già salita al 28%, con punte del 37% nel Nord Italia. Nello stesso lasso di tempo, il gruppo dei credenti convinti scendeva dal 12,4% al 10,5%, mentre quello dei credenti convinti ma non sempre praticanti passava dal 29% al 19,1%. Alla luce di questi dati, Armando Matteo può dunque affermare che «La fetta “più giovane” dei giovani – quella che qualcuno ha già ribattezzato come Generazione Z o “generazione della rete”, riferendosi così ai nati dopo il 1995 – accelera tutti i segnali di disaffezione alla fede già presenti e marcati nell’attuale quota dei Millennials ormai alle soglie dell’età adulta».
A definire, pero, ancora più chiaramente il rapporto dei giovani con l’esperienza della fede contribuiscono anche alcuni dati relativi alla frequenza ai riti, escludendo dal computo matrimoni e funerali, e alla preghiera individuale. A partecipare settimanalmente ai riti religiosi è solamente il 13,2%. La percentuale di coloro che entrano in un luogo di culto una o due volte al mese è di 11,5%, quella di chi prende parte ai culti comunitari alcune volte all’anno e, invece, del 41,9%.
Infine, abbiamo il 33,4% costituito da chi non mette mai piede in chiesa. Analogamente, dichiarano di pregare quotidianamente soltanto il 15,3% dei giovani intervistati, alcune volte alla settimana il 12,1%, alcune volte al mese il 12,2%, alcune volte all’anno il 26,4%, mai il 34%.
Nel complesso, l’età sempre più avanzata di coloro che vanno con regolarita in chiesa – come osservava già nel 2011 Benedetto XVI –, l’analfabetismo cristiano degli adolescenti – lo verifico personalmente io stesso come docente di letteratura italiana ogni volta che spiego la Commedia dantesca –, il calo delle vocazioni – specie in Europa e nel continente americano –, sembrano dirci che non è poi tanto lontano il giorno in cui i versi della poesia di Giorgio Caproni, intitolata “Il Pastore”, rappresenteranno una fotografia fedele della postmodernità: “Proteggete il nostro Protettore. Salvate il Salvatore morente”.
Così predicava il Pastore nel gelo della chiesa vuota, al lucore dell’ultima bugia rimasta accesa sull’Altar Maggiore.
LA MORTE DEL “CRISTIANESIMO DOMESTICO”
A cosa è imputabile questa crescita del fenomeno della “non credenza” tra le nuove generazioni? Secondo Armando Matteo, se i giovani hanno appreso a vivere non “contro” Dio, ma “senza” Dio, ciò è dipeso principalmente dal fatto che negli occhi dei loro genitori non sono più riusciti a ravvisare ne le tracce ne i segni di una fede, la quale, come è scritto nell’enciclica Lumen fidei, «non solo guarda a Gesù. Ma guarda dal punto di vista di Gesù».
Insomma, il cristianesimo domestico è morto, il dialogo intergenerazionale si è interrotto e la responsabilità, osserva il teologo, è in primo luogo dei padri: «Piaccia o meno, gli adulti appartenenti alle due generazioni che in modo e peso diverso dominano oggi il mondo – quelli della generazione dei boomers (1946-1964) e quelli appartenenti alla Generazione X (1964-1980) – non hanno favorito una qualche forma di testimonianza nei confronti della loro prole».
LA SFIDUCIA NEL DOMANI
A chi, come il sottoscritto, è convinto che cristianesimo e capitalismo – e ancor più quello che Edward N. Luttwak ha ribattezzato “turbocapitalismo” – siano sotto tantissimi aspetti inconciliabili, la tesi di Armando Matteo sembra suggestiva e condivisibile. Tuttavia, essa mi pare che necessiti di una precisazione e di due integrazioni. Per quanto riguarda la precisazione, credo che la svolta autentica debba essere collocata negli anni Ottanta. Chi, infatti, allora aveva venticinque o trent’anni (era, dunque, nato intorno alla metà degli anni Cinquanta, non alla metà degli anni Quaranta), era stato testimone-partecipe del cosiddetto “miracolo economico”, del passaggio di moltissimi lavoratori dall’agricoltura all’industria, della scoperta di un benessere che si traduceva nella possibilità di acquistare beni come la lavatrice, il frigorifero, l’automobile.
Del risvolto negativo di questo “sviluppo senza progresso”, colto acutamente da Pier Paolo Pasolini in “Scritti corsari” e “Lettere luterane”, la maggior parte della popolazione neppure si è accorta. La creazione di bisogni artificiali da parte dell’apparato industriale (consumismo) e l’uniformarsi di comportamenti, gusti, desideri, modi di pensare (omologazione) sono divenuti poco alla volta parte integrante dei ceti popolari e della borghesia, con la conseguenza che nel giro di pochi anni è sparito l’uomo, completamente assorbito dalla figura del consumatore.
A ciò occorre poi aggiunger l’edonismo, il carrierismo, l’individualismo esasperato dei primi anni Ottanta, che hanno finito col determinare il predominio del privato sul pubblico, dell’egoismo sulla solidarietà sociale, del denaro e del successo sulla fedeltà a determinati principi morali. Di conseguenza, già chi si è trovato a educare dei figli alla fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta, si è abituato a guardare al cristianesimo domestico come si guarda al residuo di un mondo – arcaico, contadino, premoderno – piacevole da contemplare, forse capace anche di suscitare un moto di nostalgia e di rimpianto, ma completamente estraneo a una contemporaneità nella quale tutto è pensato e fatto in vista del profitto, della ricchezza, dell’utilità pratica, dell’economicità e nella quale ne per la religione ne per la Chiesa c’è più spazio.
Per quanto concerne, invece, la prima delle due integrazioni, essa rimanda al progressivo venir meno della convinzione che il domani sarebbe stato migliore dell’oggi. A partire, infatti, dalla crisi petrolifera del 1973, si sono verificati una serie di eventi “inattesi”, come li ha denominati Edgar Morin, che hanno drammaticamente dimostrato che i tre decenni di sviluppo ininterrotto (1945-1973), dal punto di vista economico, sociale, tecnico, raccontavano solamente una parte della storia: quella in luce, quella epica, quella che pareva coniugare alla perfezione la verità, in ambito economico e tecnologico, del motto plus ultra (“più oltre”) con la diffusione nel mondo, in ambito politico-sociale, della democrazia rappresentativa.
La disgregazione dell’Unione Sovietica e la successiva guerra in Jugoslavia, l’11 settembre, la crisi finanziaria del 2008, la più grave del dopoguerra, hanno incrinato una volta per tutte l’idea che ci possa essere sviluppo senza recessione. E questi “inattesi” si sono succeduti a così breve distanza di tempo da rendere incerto, se non inutile, ogni tentativo di guardare con fiducia e ottimismo al futuro, quell’ottimismo e quella fiducia che hanno rappresentato uno dei più significativi punti di contatto tra la tradizione giudaico-cristiana e il messianismo scientifico e rivoluzionario, accomunati, pur nelle loro differenze, dall’intima persuasione che il meglio non è alle nostre spalle, ma ci è sempre davanti.
DI FRONTE ALLE OMBRE DELLA CHIESA
La seconda integrazione da fare, invece, alla tesi di Armando Matteo, per spiegare la vita senza Dio di tanti nostri giovani, pertiene all’immagine di se che la Chiesa offre. La mondializzazione, sotto questo aspetto, non ha solamente donato continuità alla presenza in video del pontefice, offrendo la possibilità di ascoltarlo e di vederlo anche a coloro che abitano in paesi non toccati dai suoi viaggi pastorali, ma ha messo sotto la luce dei riflettori anche i comportamenti censurabili di sacerdoti e alti prelati. Ciò che a lungo era rimasto confinato all’interno della curia papale, della canonica di campagna, del perimetro di un borgo rurale o di un quartiere cittadino, si è così fatto notizia, informazione, cronaca che in tempo reale è entrata nelle case degli italiani. Il pettegolezzo si è così convertito in certezza (nel caso di reo confessi, patteggiamento della pena, condanna definitiva), mentre il perdono chiesto meritoriamente e pubblicamente da papa Francesco, in Cile come in Irlanda, per le violenze patite da bambini e bambine, ha permesso di cogliere la vergognosa portata del fenomeno.
L’impatto è stato devastante. La bontà dell’istituzione religiosa, questo è il fatto, non si misura sulla base del rigore logico di una lettera apostolica o dell’entusiasmo che permea di se un documento sinodale, ma della coerenza dei suoi ministri, che devono offrirne testimonianza concreta e quotidiana. E in una fase della vita, quale è l’adolescenza, contraddistinta dall’idealismo e dal senso della giustizia, la pedofilia appare un reato talmente odioso da mettere in ombra l’azione di tutti quegli uomini e donne di Chiesa, che si spendono interamente per i più deboli, i più sfortunati, per tutti “gli umiliati e offesi” del pianeta, che la globalizzazione – il capitalismo globale – anziché far diminuire ha incrementato nel numero.