Il teologo moralista don Pier Davide Guenzi: Omosessualità, quale bene nella relazione?
Intervista di Luciano Moia al teologo moralista don Pier Davide Guenzi pubblicata su Avvenire il 19 febbraio 2019
«Oggi siamo invitati a comprendere come la relazione nell’orizzonte della comunione delle persone rappresenti il bene cui tendere e che lo stesso legame uomo-donna non ne esaurisce tutte le forme umane di espressione, anche sotto il profilo affettivo». Nessun proposito di superare la bellezza della differenza sessuale, ma anche la consapevolezza che, all’interno di una relazione, la mancanza di questa differenza non appare né colpevole né patologica, «perché la condizione esistenziale delle persone omosessuali non è un ostacolo insuperabile nella vocazione all’amore». Sono parole che fanno riflettere quelle di don Pier Davide Guenzi, presidente dell’Associazione dei teologi morali e insegnante di teologia morale e di etica sociale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale.
Il n. 250 diAmoris laetitia, a proposito dell’aiuto pastorale che la Chiesa dovrebbe assicurare alle persone omosessuali, ribadisce che ciascuno “indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettato nella sua dignità e accolto con rispetto”. E aggiunge che le persone omosessuali devono avere “gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita”.Queste sottolineature erano già presenti nel documento del 1986 sulla “Cura pastorale delle persone omosessuali”. Però, a differenza di quel testo, in Amoris laetitia manca completamente la condanna etica dei gesti omosessuali. Come interpretare questa scelta?
In Amoris laetitia Francesco, alla luce di una più profonda considerazione dei vissuti, talora difficili, delle persone, sviluppa un’operazione “ricostruttiva” sulla tradizione normativa della Chiesa e le argomentazioni sostenute, che avrebbero potuto mettere in ombra elementi imprescindibili nella valutazione dell’agire, come nel caso del discernimento personale e del giudizio di coscienza. Il testo della Congregazione della Fede del 1986 sottolinea l’atteggiamento fondamentale che deve guidare l’accoglienza e la valorizzazione delle persone omosessuali come elemento prioritario e contesto all’interno del quale aiutare e sostenere la persona a valutare il bene possibile da realizzare nella propria esistenza in riferimento alla propria condizione.
La legge viene dopo la priorità dell’amore accogliente. E se la tradizione della Chiesa non può essere espressa solo dalla norma morale (cfr.AL 305), il processo di discernimento sulle scelte personali può essere riconsiderato non solo per le cosiddette situazioni “irregolari” all’interno del matrimonio. Ciò è chiarito in AL 250 dove il Pontefice, sottolinea l’importanza di offrire tutti gli “aiuti necessari” perché le persone omosessuali, come del resto ogni fedele, possano aprirsi positivamente al bene della vita e della relazione con una attenta considerazione della propria situazione esistenziale. Questa non è vista solo come una difficoltà o un ostacolo insuperabile nei confronti della vocazione all’amore. Ne rappresenta il contesto reale all’interno della quale ciascuno è chiamato a decidere di sé come corrispondere personalmente all’amore di Dio.
Le parole chiave di Amoris laetitia – accompagnare, discernere, integrare – valgono quindi anche per le persone omosessuali?
I tre verbi non devono essere riferiti solo al caso considerato nel capitolo VIII di AL. Che debbano estendersi anche su altre problematiche è espressamente chiarito da Francesco quando afferma, dopo aver ribadito la prospettiva di inclusione (e non di sospensione o di esclusione) come fondamentale atteggiamento ecclesiale, che tale “logica evangelica” è riferibile non solo “ai divorziati che vivono in una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino” (AL 297).
In questa prospettiva è significativo come il Documento finale del Sinodo 2018 sui giovani al paragrafo 150 si richiami ai tre verbi di AL per suggerire pratiche ecclesiali di “accompagnamento nella fede” dove i credenti omosessuali sono aiutati “a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità”. Tale percorso risulta finalizzato a “discernere” le migliori forme per realizzare la propria vocazione personale ed ecclesiale da parte della persona omosessuale e a “integrare” “sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé”. In questo senso non si limita alla sincera accoglienza, a un profondo percorso di discernimento sulla verità della propria persona,ma definisce un traguardo, con il verbo “integrare”, che si impone come esito di un percorso che non può essere interminabile, né senza sbocchi.
A lungo la teologia morale ha radicato la sua condanna nei confronti dei gesti omosessuali con la legge naturale. Come mai oggi si sta rivedendo il rapporto tra natura e cultura?
Nel dibattito di questi anni abbiamo imparato che la legge naturale va continuamente ripensata. Ci sono dinamismi profondi propri di ciascun soggetto umano che domandano di essere rispettati in quanto inerenti la struttura antropologica. Ma esiste anche un governo della ragione nella realizzazione di tali dinamismi in accordo alla responsabilità personale e storico-concreta. Inoltre non dobbiamo dimenticare come il riferimento alla legge naturale è sviluppato all’interno di una lettura teologica della realtà che, cioè, fa riferimento al progetto di amore di Dio sulla creazione e sulle creature; non unicamente a evidenze di ragione che si impongono a prescindere da tale orizzonte complessivo.
Una concezione non meramente “biologica” della natura è, pertanto, accessibile a partire dalle forme della cultura predisposte dalla retta ragione umana. Così l’idea di legge naturale funge da elemento critico per il discernimento di quanto nelle tradizioni umane consenta o meno l’apertura al compimento integrale e definitivo dell’uomo non astrattamente pensato, ma di ogni essere umano, nella singolare dignità che gli/le è propria.
Quindi lei è d’accordo con quella teologia che sostiene l’urgenza di passare dal paradigma naturalistico a quello relazionale?
All’interno della teologia morale cattolica si è insistito per una migliore comprensione dell’affettività e della vita sessuale, non solo a partire dal dato espresso dalla “natura”, ma dall’elemento che la qualifica sotto il profilo umano, cioè la relazione intersoggettiva. Ciò ha consentito di mettere in luce potenzialità costruttive, ma anche limiti inerenti ai vissuti, ben più profondi rispetto al semplice rispetto della dimensione procreativa della sessualità. Così la relazione, che qualifica una specificità umana, comporta l’attenzione alle differenze personali chiamate a entrare in comunione per evidenziare l’unità fondamentale del genere umano come aspetto più radicale e decisivo rispetto alle stesse differenze.
Sollecitati anche dai vissuti delle persone omosessuali credenti, oggi siamo invitati a comprendere come la relazione nell’orizzonte della comunione delle persone rappresenti il bene cui tendere e che lo stesso legame uomo-donna non ne esaurisce tutte le forme umane di espressione, anche sotto il profilo affettivo. In questa luce anche la relazione omosessuale esprime potenzialità e limiti interenti ai legami umani di tipo affettivo, non solo in riferimento alla valutazione morale dei comportamenti, ma anche nel segno positivo di arricchimento reciproco delle persone impegnate in esse.
I gesti affettivi delle persone omosessuali sarebbero eticamente negativi in quanto svuotati del valore della differenza. Anche questa è una sottolineatura che va rivista?
Abitualmente si afferma che la ricerca affettiva e sessuale dell’uguale a sé caratterizza la persona omosessuale. Tale prospettiva introduce l’idea di una mancanza nella percezione del valore della differenza del maschile e del femminile che renderebbe, prima ancora che non giustificabile sotto il profilo degli atti, non pienamente significativa o compiuta l’affettività omofiliaca. Tuttavia occorre riconoscere che tale esperienza della differenza non è ciò che fa prioritariamente problema, in quanto già la dimensione dell’”essere figlio”, comune a ogni essere umano, consente a ciascuno di sperimentare la differenza sessuale.
Semmai nella persona omosessuale non è sentita come promettente per la propria vita la relazione uomo-donna in quanto non radicata nella dimensione profonda del desiderio dell’altro/dell’altra. Tuttavia tale mancanza non è di per sé “colpevole” (e tantomeno patologica).
Rappresenta un elemento del proprio modo di essere al mondo che deve essere elaborata consapevolmente. La questione che può essere posta, ma che domanda di essere studiata meglio, è se tale “mancanza” possa limitare l’accesso alla relazione con l’altro o il percorso di presa di coscienza della propria identità, prima ancora che della moralità delle proprie singole azioni. Ogni essere umano, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, esperisce una mancanza alla propria radice. Il proprio essere situato nel mondo rappresenta non solo l’opportunità aperta al dischiudersi dell’esistenza, ma anche la riconduzione entro il limite esistenziale proprio di ciascuno; limite che è da abitare in quanto, appunto, condizione insuperabile per l’accesso al sé e alla costruzione delle buone relazioni con l’altro.
Sullo sfondo rimane sempre quella definizione del Catechismo a proposito di una condizione omosessuale “moralmente disordinata”. Una posizione insuperabile?
L’affermazione, da ricondurre al testo della Congregazione per la dottrina della fede del 1986, non è priva di ambiguità in quanto considera la “condizione personale” come “una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale” (n. 3) e, in un altro passaggio, lascia intendere come tale condizione sia, sotto il profilo etico, “disordinata” (cfr. n. 6). Il documento non si limita a stigmatizzare, come la tradizione precedente, l’immoralità dei singoli atti omosessuali perché “intrinsecamente disordinati”, ma, pur ammettendo la distinzione tra gli atti e la “condizione”, “tendenza” o “costituzione” (espressioni di fatto sinonimiche nei testi magisteriali) tende a comprenderla come situazione di permanente rischio di peccato. Non sono mancate reazioni critiche a questo inciso, nel quale sembra ampliarsi l’ambito del giudizio etico da quello specifico degli atti, all’identità della persona, fino ad accentuare la colpevolezza per tale condizione esistenziale.
Alla luce di questa valutazione occorre comprendere come, già all’interno dello stesso discernimento etico intra-ecclesiale, risulti di difficile composizione il principio del rispetto della dignità della persona con la considerazione della sua “inclinazione”, da ritenersi “oggettivamente disordinata”.
Mi perdoni l’insistenza, ma quindi il problema rimane sempre quello della liceità degli atti omosessuali?
La posizione argomentata dalla tradizione è di evidenziare la possibilità di azioni che, in se stesse, rappresentano una deviazione rispetto alla regola morale degli atti sessuali. Va tuttavia distinto il piano descrittivo delle azioni rispetto a quello interpretativo, per il quale fondamentale è il rapporto tra l’intenzione del soggetto e il senso delle proprie azioni. A riguardo possono essere ritenuti “imperfetti” altri comportamenti sessuali anche all’interno della vita di una coppia stabile eterosessuale. Ci sono comportamenti che non raggiungono (o non tengono in considerazione in modo adeguato) il significato personale, inter-personale e generativo della sessualità umana, chiamando in causa l’esercizio responsabile della propria decisione più che il loro profilo oggettivo. In questo senso già nel 1975 il documento della Congregazione della fede Persona humana, riconoscendo la possibilità di una omosessualità radicata nella struttura personale, invitava a giudicare “con prudenza” la colpevolezza relativa agli atti sessuali di questo tipo e suggeriva la necessità di una lettura etica dell’azione non unicamente sulla base della sua descrizione fisica.
La prudenza invocata non allude a un semplice atteggiamento di sospensione di ogni giudizio, ma sottolinea la necessità di considerare tutti gli aspetti rilevanti del problema per assicurare a ciascuna persona di poter vivere nella propria condizione i più alti valori umani e cristiani. La condizione personale non può essere considerata nell’ottica della prudenza una semplice attenuante alla responsabilità soggettiva circa il valore di atti oggettivi, ma è un elemento rilevante per la chiarificazione del senso integrale del proprio agire. Non bisogna dimenticare che la virtù e l’esercizio della prudenza resta nello sfondo, ma comunque è determinante, della descrizione che Francesco Amoris laetitia fa del percorso di discernimento personale ed ecclesiale delle situazioni personali complesse.
In questi anni si è puntato spesso il dito contro la cosiddetta cultura gender, nella convinzione che si trattasse di un approccio teso a demolire la verità della differenza sessuale tra uomo e donna per privilegiare le rivendicazioni delle lobby lgbt. Una lettura corretta o una semplificazione che non contribuisce a far chiarezza?
Si tratta di un dibattito importante che ci insegna molte cose. Abbiamo imparato a governare il rischio dell’ideologia, a non semplificare in modo fazioso ragionamenti che non possono essere fuorvianti. Abbiamo imparato a scavare dentro la complessità, oltre l’ideologia che ignora sempre il confronto. Abbiamo imparato che ci può essere un percorso in cui si può imprigionare la riflessione sul genere, anche in ambito ecclesiale, in categorie che accentuano le problematicità, mettendo da parte il loro contributo positivo per la chiarificazione dello sviluppo della personalità che si svolge su più livelli psicologici, sociali e culturali e non semplicemente come sviluppo del dato biologico del maschile e del femminile.
Ma abbiamo anche imparato che ci possono essere rischi connessi alla accentuazione del genere, là dove potrebbe condurre all’annullamento che il senso della differenza sessuale viene ad avere nella costruzione del sé personale e nelle dinamiche relazionali. E su questo non dobbiamo smettere di riflettere.