Per gli omosessuali cristiani c’è sempre un “guado” da attraversare
Riflessioni di Gianni Geraci del gruppo Il Guado di Milano e de La Tenda di Gionata
Ho letto la testimonianza che il signor Pier ha mandato a Gionata e la trovo il solito esercizio di autocommiserazione in cui gli omosessuali credenti di tutte le età si esercitano quando non hanno il coraggio di seguire il Vangelo fino in fondo. Ne ho conosciute tante di persone come il signor Pier e, tutte le volte, mi sono reso conto che, se stanno male la colpa è principalmente loro.
Ho più o meno la sua età e faccio parte da trent’anni di un gruppo di omosessuali credenti che si chiama appunto “Il Guado“. Solo che noi, con il passare degli anni, abbiamo iniziato a pensare che lo “stare in mezzo al Guado” non è una condizione che blocca e condanna all’immobilismo, ma è un’opportunità che permette di mettere in dialogo le due sponde che, tramite quel guado possono entrare in relazione.
Il signor Pier parla male del movimento omosessuale («sono contrario a certe forme di protesta» scrive a un certo punto), ma parla male anche delle realtà ecclesiali che ha incontrato («Ho fatto parte di alcuni siti cattolici in rete, che delusione!»). Si tratta di un esempio lampante della deriva narcisistica in cui cadono tanti omosessuali di tutte le età. Non si domandano: «Cosa mi chiede Dio, attraverso questa esperienza di confine che mi fa vivere?», ma si autocommiserano dicendo: «Possibile che non ci siano degli omosessuali identici a me con cui condividere tutto?».
E no! Caro signor Pier! Le cose non funzionano così. La realtà è sempre diversa da come la vorremmo quando pretendiamo che sia costruita per noi. Se vogliamo “vivere” dobbiamo liberarci dalla paura, uscire dalla pigrizia e iniziare a chiederci: «Cosa posso fare per migliorare il mondo che ho intorno?». E la prima risposta è semplice: «Devi sporcarti le mani». Io, quarant’anni fa, mi sarei commosso leggendo la lettera del signor Pier e avrei detto: «Ecco finalmente qualcuno che vive quello che vivo io!».
Nei quarant’anni che sono passati da allora ho deciso che un “guado” ha senso se è visibile dalle due sponde che intende collegare e così ho iniziato a dichiararmi come omosessuale nei gruppi di credenti che frequentavo e ho iniziato a dichiararmi come credente nelle realtà gay con cui entravo in contatto. Non è stato facile. I giudizi e gli insulti non sono mancati. Non è stato facile, ma sono sicuro che è stata la cosa giusta.
E adesso, a sessant’anni, posso dire che un omosessuale credente che vuole seguire il Vangelo deve mettere da parte le paure e iniziare a testimoniare nella chiesa e fuori dalla chiesa, la sua condizione di omosessuale credente, pensandola come a un’opportunità, a un kayros, a una “grazia” e non come a un problema e una disgrazia. Naturalmente, per fare questo, occorre fare scelte che, in prima istanza, sono difficili e pesanti, ma se si resta bloccati per quarant’anni si fa la fine del signor Pier che continua a imprecare contro il buio e che, per paura di essere visto, si ostina a non accendere nessuna luce. Una luce che, magari, potrebbe diventare un segno di speranza per qualcuno come lui.
Come regalo, al signor Pier e a tutti voi, vorrei mandare un estratto del testo con cui, quasi quarant’anni fa, il Guado aveva motivato la scelta del suo nome. Sono ancora colpito dall’attualità di quelle parole.
«L’immagine del guado che abbiamo scelto richiama una pagina biblica: la cosiddetta Lotta di Giacobbe con l’Angelo sulla riva del fiume Jabbok (Gen 32, 22-32). Dopo aver fatto passare al di là dal torrente le mogli, le schiave, i figli e tutto quanto possedeva, Giacobbe resta solo e al calar della notte è aggredito da un «uomo che si avvinghiò con lui fino allo spuntare dell’alba». Giacobbe si difende da quello che sente come un nemico, ma poi, paradossalmente, accorgendosi che si tratta di un essere superiore in cui è presente la divinità, gli dice: «Non ti lascerò se prima non mi darai la tua benedizione».
Gli chiede cioè di dargli quanto ha di buono, potremmo quasi dire che gli chiede di volergli bene e, insieme, gli rivela il proprio nome, che è come dire che gli si affida e gli si consegna. Non è difficile riconoscere la traccia e il senso di tante nostre storie. L’entrata improvvisa e violenta, nel nostro paesaggio di solitudine, di qualcuno da cui speriamo di ottenere la risposta al nostro bisogno profondo di amicizia, la ‘benedizione’ che possa aiutarci a vincere l’isolamento e l’insignificanza, una presenza che in certo modo ci aggredisce, contro cui lottiamo, perché se da una parte promette dall’altra chiede e può esigere quello che non vogliamo dare, la dialettica continua tra l’istinto di soverchiare l’altro e quello di abbandonarvisi, l’intuizione che in ogni forma di amore si fa, in qualche modo, l’esperienza della divinità e del bisogno assoluto e che quello che cerchiamo è alla fine Dio stesso. Tutto questo noi lo ritroviamo nella storia di Giacobbe al guado di Jabbok. Ma il guado è anche un’immagine che descrive un passaggio, faticoso, ma pur sempre possibile, da una riva all’altra del fiume.
Gli omosessuali sono anche detti, e non certo con benevolenza, «quelli dell’altra sponda». Se ci piace l’immagine è perché vogliamo che non ci sia né antagonismo né separazione tra gli uomini, ma una costante possibilità di passaggio da una sponda all’altra, per un incontro che avviene, magari, proprio in mezzo al guado. Per noi però l’altra sponda significa soprattutto un approdo di liberazione, una terra dove poter vivere un amore purificato dall’egoismo e da tutte le ambiguità. È una speranza, questa, che ci fa muovere verso i campi dell’amicizia e della fraternità, seguendo le indicazioni del Vangelo che resta, per molti di noi, un preciso punto di riferimento. In questo senso c’è per tutti un’altra sponda verso la quale andare, insieme possibilmente, perché così la fatica si fa più leggera e, se uno inciampa, può trovare subito aiuto. Ed è per camminare insieme che il nostro gruppo continua ad esistere e ad operare».