Omosessualità e pastorale. Nuovi sguardi con Paolo Rigliano
Intervista di Luciano Moia a Paolo Rigliano* pubblicata su “Noi famiglia & vita“, supplemento di Avvenire del 31 marzo 2019, pag.35
Paolo Rigliano, psichiatra milanese, è uno studioso scomodo. Ha studiato a lungo l’omosessualità, ha indagato il rapporto tra Vangelo e gay (“Gesù e le persone omosessuali“, La Meridiana, 2014), e ha studiato da specialista il problema delle cosiddette terapie riparative. Non tutto quello che spiega in questa intervista ci trova d’accordo, a cominciare dall’opportunità del matrimonio omosessuale. Ma lo dice da studioso e da credente, dopo aver lungamente studiato. Quindi, se è giusto dissentire, è giusto anche ascoltarlo.
La Chiesa ha avviato un difficile e complesso percorso per dare concretezza all’invito di papa Francesco a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali «a realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita», nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni marchio di ingiusta discriminazione. In che modo le nuove conoscenze scientifiche sulle radici dell’omosessualità possono contribuire a questo percorso di sviluppo pastorale?
Possono contribuirvi attraverso vari processi, convergenti verso un fondamento essenziale, vale a dire l’evidenza scientifica che le persone omosessuali sono e possono essere — come tutti — integrate e serene, prive di psicopatologia o di qualsivoglia patologia “costituzionale”. Tale evidenza obbliga a rapportarsi a loro co- me a persone valide e degne. Le persone omosessuali sono, allo stesso modo e con uguale dignità e valore di tutte le altre, portatrici di doveri e di diritti e, dunque, non sono da trattare come segnate da un deficit o da una tara squalificante.
Luoghi comuni o letture scientifiche sbagliate?
Queste acquisizioni scientifiche portano la teologia e la pastorale a riflettere sulla fallacia di luoghi comuni e mistificazioni spacciati come “scientifici”; mi riferisco agli innumerevoli modelli psichiatrici, psicoanalitici, sociologici o biologici, per esempio quelli sui presunti percorsi patologici di costituzione dell’orientamento omosessuale.
Questa riflessione non è, né può essere indolore, per tutti: occorre un impegno rigoroso nel riconoscere come ideologia pseudoscientifica le tante concezioni patologizzanti che. si sono poste come “dimostrate, naturali e giuste” fino a poco tempo fa. Una pastorale aggiornata deve sapere indagare non solo le ragioni per rigettare tali falsità, proprie e altrui, ma deve anche saper indicare perché e come sono state create e sostenute, da cosa sono scaturite, cosa le ha legittimate, a cosa hanno risposto.
Per la pastorale è un universo tutto da scoprire…
Ma l’analisi necessaria che sto indicando implica il confronto con gli effetti, a volte drammatici, sue dentro la persona, provocati dal disprezzo sociale e dalla discriminazione. Una pastorale cristiana infatti non può non farsi carico dell’ oppressione chele persone omosessuali soffrono ancora nella gran parte del mondo con la finalità di produrre liberazione. Una pastorale nuova, però, deve anche potersi confrontare con un universo, appunto, ancora tutto da scoprire, e che non si è mai manifestato nella storia dell’umanità: la nostra è una condizione inedita, così come è inedita la condizione delle donne, che punta a rendere — ancora tra tante violenze ed ostacoli — normalità quotidiana per tutti e tutte la piena parità di espressione di se dentro la società.
Una pastorale adeguata deve divenire e crescere per poter pensare il nuovo del nostro oggi e del nostro domani, deve formarsi per poter accompagnare ciò che si annuncia. A mio avviso, deve essere una pastorale in cammino, che si fa non sulla testa delle persone omosessuali, ma insieme a loro, apprendendo con loro, offrendo un dialogo mai scontato, mai concluso, in cui tutti ci si mette radicalmente in gioco.
Esiste una specificità della persona omosessuale di cui pastorale e teologia dovrebbero tenere conto?
Ci sono diverse specificità della realtà delle persone omosessuali alle quali occorre prestare la massima attenzione. Una condizione di incertezza, confusione e inconsapevolezza circonda ancora l’essere omosessuali. Ci si chiede quali ne siano i fondamenti e i fattori costitutivi: è una diversità biologica o psicologica o sociale? È genetica o è acquisita?
Si tratta di una specificità di tutti o solo di alcune persone “speciali”? E cosa ne deriva, una sensibilità altrettanto “speciale”? Attitudini peculiari? Modi di essere, di pensare, di sentirsi “differenziati”? A questa incertezza se ne aggiunge un’altra, relativa allo “spazio proprio” dell’omosessualità: è la sessualità (con l’indefinitezza che con questo temine si intende) oppure l’affettività? O una più generica relazionalità? Ancora. Riflettiamo sulla discriminazione e sulle sue ricadute. La condizione di discriminazione spesso può provocare nella persona molteplici dinamiche di autosoppressione e disprezzo di sé, con le reazioni negative conseguenti. Non è tutto. Come vivere?
Può caratterizzare le persone omosessuali l’incertezza sui modelli di espressione e realizzazione, di scopi e percorsi di vita — sperando che gli esiti non siano i modelli stereotipati accreditati dalla visione dominante. Non ultimo, può impegnare le persone omosessuali la ricerca di una valorizzazione di sé — come singoli e come gruppo — nell’ambito sociale più. vasto.
Allo stesso modo degli ebrei, che — per secoli, possiamo dire — hanno riflettuto su cosa volesse dire e dirsi essere ebrei nei particolari contesti sociali, anche le persone omosessuali sono portate a porsi questo interrogativo, con più o meno urgenza e profondità a seconda delle situazioni. E questo non può non interrogare una pastorale all’ ascolto delle domande che le persone si fanno per realizzare se stesse.
Ritiene che il nuovo sguardo della Chiesa sull’omosessualità, più inclusivo, accogliente e rispettoso, possa risultare positivo anche in una logica più ampia di accettazione culturale delle diversità
Certamente, può, risultare estremamente positivo, perché stabilisce un vincolo e una indicazione di valore per tutti, un impegno e una difesa. Tale sguardo contribuisce fortemente a far avanzare il concetto e l’esperienza collettiva di “che cosa è l’umanità” nella pluralità delle sue espressioni e forme, incarnate nella vita di ogni uomo e donna. II valore fondante la comunità e l’esperienza di Gesù.
Lei ha più volte spiegato che eterosessualitù ed omosessualità sono due aspetti di un medesimo percorso di crescita. Questa convinzione non contraddice la verità della differenza sessuale e l’antropologia che si fonda su questa evidenza?
Credo fermamente che oggi abbiamo tutti un compito arduo ma irrinunciabile, per cui l’esperienza di Gesù costituisce una guida decisiva: comprendere la peculiare unicità di ogni vivente e allo stesso tempo prenderci cura del valore e della dignità che tutti ci accomuna. Non quindi la falsa contrapposizione tra differenza e umanità, unicità e uguaglianza, singolarità e comunità: ma l’una e l’altra, e dall’una all’altra. L’amore omosessuale conosce e riconosce bene e precisamente la differenza censuale: questa non racchiude e non esaurisce, non spiega e non determina la differenza unica che è (propria di) ogni singola persona.
Dovremmo stare attenti a non attuare (inconsapevolmente) e imporre (ideologicamente) sotto il termine “differenza sessuale” una serie di operazioni assai pericolose, temo, per cui la bio- logia del corpo fonda l’interezza psichica, interiore e spirituale di ogni persona. Quegli stereotipi che Gesù ci ha insegnato a cacciare dalla nostra vita e dalle nostre menti rientrerebbero trionfalmente sotto forma di “differenza sessuale” che spiega e impone un dover-essere predefinito a tutti.
Il rispetto della multiformità e delle distinzioni fonda ed esige una educazione a valorizzare la differenza unica di ogni persona: ognuno è diverso, differente e distinto. Non credo perciò che possa esserci contraddizione tra il riconoscere la differenza sessuale e l’amore omosessuale, così come non c’è contraddizione tra credere e affermare i valori comuni e il riconoscere le differenze di ognuno, valorizzandolo nella sua unicità e nelle sue forme di vita — quando queste producono bene, serenità, realizzazione di sé.
È noto che il riconoscimento sociale del legame affettivo tra due persone omosessuali, soprattutto quando si pretende di equiparare il matrimonio sacramentale ad altre forme di unione, rappresenti per la Chiesa un’ipotesi inaccettabile, e non si tratta solo di un ostacolo simbolico.
Non le sembra che tutelare la specificità del matrimonio eterosessuale rappresenti un obiettivo ragionevole e utile dal punto di vista educativo e sociale?
Mi sembra che un atteggiamento preclusivo non giovi a pensare una realtà in divenire, ancora da scoprire e accogliere, e che tradisca anche molte paure nei confronti di un futuro immaginato come minaccioso. A mio avviso, riconoscere la piena dignità all’unione gay o lesbica, riconoscendo il matrimonio tra persone dello stesso sesso, non reca alcun danno al matrimonio eterosessuale, né sul piano educativo né su quello simbolico, né su quello sociale. E finora non solo nessuno l’ha dimostrato, ma non si è riusciti neanche ad articolare il danno presunto: quale sarebbe? in cosa consisterebbe?
Il riconoscimento di due possibilità positive non danneggia l’una o l’altra: riconoscere i diritti delle donne non danneggia i diritti degli uomini, riconoscere i diritti degli ebrei, dei nativi, degli afroamericani….. non danneggia i diritti dei non ebrei, dei non nativi, dei “bianchi”, ma revoca solo i presunti diritti alla superiorità di questi ultimi. Ciò che pende tutela è appunto questa presunzione, questa sedicente unicità che impone uno status di inferiorità all’altro.
Al contrario, ritengo che l’insegnamento di Gesù — meglio: la sua testimonianza radicale — sia proprio che l’estensione del (riconoscimento di) valore all’altro, e il riconoscimento dell’altro come bene/valore prioritario, fondi la pienezza e celebri la bellezza di quel valore, e dei valori in gioco. “Tutelare”, in questo senso, significa esprimere pienamente la bellezza di entrambe le esperienze di vita, non sminuirne una. Questione drammatica questa nei Vangeli, posto che vari personaggi si sono risentiti — e sentiti lesi — quando coloro che erano esclusi, per molteplici motivi e processi, sono stati inclusi, alla pari. Gesù insegna, mi pare, che i valori vanno riconosciuti e donati a tutti, a chi soprattutto viene trattato e si vive come diverso.
Ecco che allora tutelare un valore e il Bene come valore (il bene della vita sponsale cristiana!) può volere dire che la promozione della bellezza del matrimonio cristiano venga realizzata anche dall’evidenza che i suoi valori fondanti siano fatti propri da altre forme di relazione amorosa: a testimonianza e conferma della validità universale e per tutti di quel bene che assume tanti volti.
Non le pare che riconoscere la piena dignità del matrimonio omosessuale apra la strada a tutta una serie di problemi legati alla presenza di eventuali figli? Non intendo solo far riferimento alla discussa teoria della “nessuna differenza” tra genitori etero e omosessuali, ma anche alla volontà da parte di coppie gay di rivendicare il diritto alla genitorialità con pratiche come il commercio di gameti e l’utero in affitto che rimangono eticamente inaccettabili. Qual è il suo parere?
Questi temi sollevano dilemmi etici che necessitano di essere affrontati con rigore, su molteplici livelli: proprio per questo è essenziale mantenere distinte le questioni, e non credere che esse siano “naturalmente” connesse. Riconoscere la dignità del matrimonio omosessuale non implica accettare incondizionatamente la maternità surrogata (ricordando comunque che questa è in massima parte richiesta da coppie eterosessuali, sposate e no).
Che a sua volta è diversa dall’adozione, o dall’eventuale arcudimento di figli nati per fecondazione eterologa in una coppia lesbica, o del figlio\a di un precedente matrimonio in una coppia gay. Sono tutti casi che implicano riflessioni e categorie — etiche, sociali, psicorelazionali, istituzionali — diverse. Inoltre, bisogna sempre confrontarsi con le evidenze di ricerche scientifiche, condotte con metodologie esplicitate, sottoposte a una disamina dura e “acuminata” e replicabili da altri.
Per esempio, tutte le ricerche, ripetutamente confermate negli anni e vagliate da società scientifiche e istituzioni internazionali, che hanno dimostrato che i figli allevati da coppie omosessuali non mostrano nessun indice, parametro o segno di alterazione patologica, né di devianza o deficit.
Su queste ricerche però i pareri sono diversi. Esistono studi qualificati (Canzi, 2017) che individuano limiti e contraddizioni…
Certo, non è detto che, partendo da questo dato, si arrivi unanimemente alla stessa conclusione etica, e tuttavia da questa evidenza non si può prescindere se si vuole sviluppare una riflessione che si confronti con i dati di realtà. In ogni caso, per poter pensare queste questioni “emergenti”, è necessario, come sempre, porsi dalla parte del bene integrale di tutte le persone coinvolte, e della società tutta: il bene che si viene a realizzare o che viene intaccato o violato.
E allora il rispetto delle persone — prima di tutto le donne — in stato di bisogno, di soggezione, di minorità o sottoposte a violenza (di qualsiasi forma o grado) ci impone di rifiutare ogni operazione o pratica che dovesse basarsi sul considerare l’Altro un mezzo, anche quando si presumesse di realizzare un fine “nobile” o sublime.
Al di là delle teorie gender, quelle almeno che parlano di fluidità di genere, crede che l’orientamento sessuale di una persona possa realisticamente cambiare (e non mi riferisco alla transessualità)? E se questo succede — scoprirsi gay a 40 anni o viceversa — quali dovrebbero essere le attenzioni pastorali per queste persone?
Una premessa: per orientamento sessuale — omo o etero — si deve intendere una struttura profondissima, basilare e costitutiva del soggetto, che riguarda il desiderio e l’aspettativa di completamento di sé, ai livelli più intimi e profondi, tramite il legame con un altro che ci corrisponda, e che si forma sin nei primissimi annidi vita, arrivando a definirsi assai precocemente.
E dunque usiamo con cura le parole: nessuno ha mai dimostrato che l’orientamento sessuale — etero o omo che sia — possa essere cambiato, né dalla persona né da altri. Invece l’orientamento sessuale — questa struttura del nucleo più intimo del Sé — può essere oppresso, mistificato o “coperto” perché non si dà orientamento senza e al di fuori della matura consapevolezza di sé: questa struttura va assunta, valorizzata, realizzata, e ogni passaggio è una scoperta e una sfida, un’opportunità o una condanna. Un percorso che gli eterosessuali compiono senza nessun intoppo, all’interno di un sistema che non solo li sostiene in tutto e per tutto, ma che addirittura pretende e valorizza il compimento di tale processo.
Attenzione però, ancora una volta, alle parole e al potere delle metafore, comprese quelle che qui usiamo per semplicità: non si “ha” una struttura di orientamento sessuale, ma si “è” quella struttura di desiderio, di aspettativa di completare se stessi tramite l’altro. Per cui, e soprattutto, è cruciale considerare che dove non c’è libertà e valorizmzione è assai più probabile che la consapevolezza di sé e della propria struttura di desiderio autentico sia impedita nel proprio sviluppo e nella propria affermazione, come dimostra la storia millenaria dell’oppressione delle donne.
Ecco: se consideriamo che tale autoconsapevolezza è frutto di autoriflessione e perciò è sottoposta a tutte le imposizioni, i fraintendimenti e le rimozioni che ogni persona può produrre e subire, comprendiamo bene come essa possa essere bloccata, ritardata o rimossa, per cui è possibile che alcune persone scoprano in sé — magari in età matura o addirittura tarda — una struttura di desiderio che avevano “preferito… scelto… dovuto…” non vedere, non considerare, non interrogare.
Forse il termine migliore è che “scoprano” di essere quella struttura di desiderio che avevano nascosto in un cantuccio della mente, barrierata da molteplici fraintendimenti e interdizioni. E certo una pastorale cristiana non può non aiutare queste persone ad una riconciliazione autentica di se stessi con se stessi, supportandole nelle complessità molteplici della loro vita e anche delle loro famiglie. Senza preclusioni e senza forzature, senza schemi precostituiti e senza mistificazioni: chiedendosi e imparando a ricercare sempre quale sia il bene della persona, delle persone, supportandole attivamente, con sguardo compassionevole e coraggioso.
* Paolo Rigliano, 61 anni, dal 2006 è responsabile del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale “San Carlo” di Milano. Psichiatra e psicoterapeuta sistemico-relazionale, familiare, di coppia e individuale, è anche esperto di criminologia, di sessuologia clinica, di psicologia delle dipendenze, di psicoterapia dell’orientamento sessuale e di disturbi bipolari. E anche ricercatore volontario del Laboratorio di epidemiologia e psichiatria sociale dell’Istituto “Mario Negri” dl Milano e ha frequentato un master di bioetica.
Tra suol libri: “Famiglia e tossicodipendenza. La sofferenza e II suo superamento” Città Nuova, 1991; “L’Aids e il suo dolore“, Edizioni Gruppo Abele, 1994; “Amori senza scandalo. Cosa vuol dire essere lesbica e gay“, Feltrinelli, 2001; “Piaceri drogati. Psicologia delle tossicodipendenze“, Feltrinelli, 2004; “Doppia diagnosi. Tossicodipendenza e psicoterapia”, Raffaello Cortina, 2004; “Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità” (insieme a J. CIliberto e F.Ferrari). Raffaello Cortina, 2009; “Gesù e le persone omosessuali“, La Meridiana, 2014. Tra i libri curati: “Tossicomania e sofferenza psichica“, Franco Angeli, 2003 Milano (con L. Randlio); “Gay e lesbiche in psicoterapia“, Raffaello Cortina (con M Graglia), 2006; “Cocaina. Consumi, psicopatologia, trattamento”. Raffaello Cortina (con E. Bignamini), 2009; “Sguardi sui genere. Voci in dialogo” (Mimesis, 2018).