L’omosessualità in famiglia. Il coming out: un processo familiare
Testo di Alessandra Bialetti*, pedagogista sociale e Consulente della coppia e della famiglia di Roma, tratto dalla sua tesi di Baccalaureato su “Genitori sempre. Omosessualità e genitorialità”, Pontificia Università Salesiana, Facoltà Scienze dell’educazione e della formazione salesiana – Facoltà di Scienze dell’Educazione, Corso di Pedagogia Sociale, Roma, anno accademico 2012-2013, capitolo 2, paragrafo 1.1
Il processo del coming out non è un atto compiuto semplicemente dalla persona omosessuale. Si configura come un processo interattivo che comporta un cambiamento delle relazioni tra tutti i membri della famiglia e tra la famiglia e il mondo esterno.[1] L’omosessuale che esce dalla clandestinità non lo fa mai da solo ma spinge l’intera famiglia a confrontarsi con se stessa e con la società.
La famiglia è l’ambiente più delicato e complesso in cui dichiararsi. Molte persone dicono di accettare l’omosessualità purché non tocchi la loro famiglia ma quando si tratta di qualcuno molto vicino la tempesta emotiva prende il sopravvento generando spesso conflitti e rotture.[2]
«Tutta la famiglia è colorata di omosessualità»[3], afferma Chiari, sottolineando come questa fase delicatissima interessa, coinvolge, interpella, mobilita tutte le risorse familiari in gioco spingendo ogni singolo soggetto a rivedere le proprie convinzioni e il proprio atteggiamento verso l’altro. La famiglia, in questa fase, necessita di nuove strategie di coping e di non sentirsi relegata in un ambito patologico o disfunzionale. Sul panorama familiare si affaccia un nuovo compito evolutivo che va molto al di là dell’accompagnare il figlio nella sua entrata nel mondo adulto. Si tratta di definirsi come famiglia con un figlio omosessuale rispetto ad un mondo esterno che, nella maggior parte dei casi, è portatore di stereotipi e pregiudizi nei confronti di una “differente normalità”.[4]
Questo passaggio è molto doloroso per tutta la famiglia ed ancor più per i genitori che spesso chiedono al figlio di non dire nulla, di vivere nascostamente la propria affettività proteggendo se stessi dalla possibile discriminazione esterna. Il processo diventa circolare: il genitore vive una difficoltà, chiede segretezza a rispetto della propria sofferenza senza rendersi conto che tale richiesta potrebbe essere vissuta dal figlio come un rifiuto, come segno della rottura di un legame, come perdita di un equilibrio necessario per la propria accettazione. Il sentimento della vergogna accomuna tutti i familiari che sentono di non corrispondere ai canoni considerati adeguati dalla società e che la società richiede per farne parte a pieno diritto.[5] Tutti i membri della famiglia diventano, in potenza, soggetti alla discriminazione sociale e tale sofferenza potrebbe agire sia da collante che da motivo di allontanamento e rifiuto reciproco.
Il coming out in famiglia, quasi sempre problematico, reca in sé un potenziale positivo: potrebbe essere capace di avviare un miglioramento della comunicazione genitori-figli fino a quel momento gravata da nascondimenti, bugie, finzioni, ipocrisie. La discriminazione, in questo caso, può produrre la resilienza dell’intero contesto familiare aprendo nuove vie, nuove modalità relazionali, nuovi atteggiamenti di comprensione e di dialogo costruttivo.[6]
Molto spesso si instaura nella famiglia un clima di silenzio: non si parla dell’omosessualità di un componente, delle sue relazioni affettive, del suo bisogno di riconoscimento. Ognuno si confronta con le proprie paure, limiti e con i tabù che ogni contesto familiare perpetua nel tempo e nel passaggio di generazione in generazione. Il tabù familiare racchiude un silenzio carico di insinuazioni, rimproveri, ritorsioni e tutta una serie di divieti e proibizioni che minano alla radice la mappa affettiva della famiglia stessa.
Nel processo familiare di ridefinizione delle relazioni interpersonali, risulta chiaramente più rischioso e difficile prendere l’iniziativa di rompere il silenzio piuttosto che restarci chiusi salvaguardando ognuno le proprie posizioni e il proprio bisogno di sicurezza.[7]
Considerando gli effetti del coming out in chiave familiare e circolare, questo si può considerare come un evento che innesca un processo simile all’elaborazione di un lutto. Come il figlio è chiamato a lavorare sulla perdita dell’ideale eterosessuale, anche i genitori devono elaborare la “perdita del figlio sperato” sostituendo l’immagine fantasticata di un futuro di famiglia, figli e nipoti con una più congruente alla realtà e che potrebbe includere anche una relazione e una unione omosessuale.[8]
In un processo circolare, il momento dello svelarsi può diventare occasione di educarsi a vicenda: il figlio aiuta i genitori e viceversa. L’omosessuale è chiamato a mettersi nei panni dei familiari, dei loro sentimenti, dei loro timori ma soprattutto del senso di colpa che provano nei confronti di un figlio che non pare “riuscito bene”. L’annuncio dell’omosessualità spinge infatti i genitori a un bilancio della loro vita come educatori e a cercare di comprendere se, in tale ruolo, hanno sbagliato qualche passo del loro percorso educativo. Sono proprio i genitori, inizialmente, ad avere bisogno di rassicurazioni, di un sostegno che comunichi incoraggiamento dopo che la loro autostima ha subito un grave contraccolpo. In special modo sono le mamme “casalinghe” ad essere più vulnerabili in quanto hanno profuso tutta o gran parte della loro vita nella corretta educazione dei figli investendo emotivamente molte delle loro energie.[9] Bisogna ricordare che i genitori, comunque, sono cresciuti in un’epoca in cui l’omosessualità era considerata una malattia, una patologia da curare e quindi necessitano di un maggior supporto per integrare in sé qualcosa che avevano vissuto sempre come discriminato.
Occorre sottolineare che, all’interno della famiglia, non esistono colpe da espiare o responsabili da individuare. Non esiste nessuna particolare situazione della vita familiare che causi l’orientamento omosessuale che è invece componente stabile della personalità non modificabile dall’educazione. Semmai i genitori possono solo influenzare, positivamente o negativamente, il modo in cui i figli vivranno la loro sessualità sia etero che omosessuale, ossia se lo faranno con dignità, serenità e pace interiore o con un senso di angoscia, vergogna, paura, rifiuto di sé.[10] L’ostinato tentativo di individuare una colpa può costituire un’importante minaccia per l’equilibrio familiare e scatenare dei conflitti all’interno della coppia genitoriale. La ricerca del “capro espiatorio” non fa che bruciare importanti risorse da convogliare invece in un processo di ridefinizione e ricostruzione dei rapporti.
Genitori e fratelli spesso si assumono la responsabilità di lasciare che la famiglia intera conosca l’identità sessuale del proprio familiare. Si pongono come mediatori con la famiglia allargata e con la cerchia di amici, ma è chiaro che tale compito richiede un cammino di crescita personale per risolvere e abbandonare i pregiudizi e stereotipi di cui ognuno è portatore.[11]
Il coming out rappresenta quindi una grande opportunità se letto in chiave di auto ed eteroeducazione: un processo circolare e dinamico che porta ognuno a scendere in se stesso, a confrontarsi con le proprie istanze più profonde e trovare nuove strategie per ridisegnare i rapporti familiari. La rivelazione rappresenta si un evento critico che scardina gli equilibri omeostatici creati e mantenuti all’interno della famiglia, ma la crisi va letta come opportunità di cambiamento positivo e di crescita, dando inizio ad un processo di ricerca di nuove risorse e pratiche di coping.
L’amore familiare, anche se passa attraverso dolori e sofferenze, non dovrebbe mai essere messo in discussione, sono invece i pregiudizi e i condizionamenti culturali che spesso aprono fratture profonde e alzano barriere comunicative a volte difficili da superare.[12]
[1] Cfr. C. CHIARI – L. BORGHI, Psicologia dell’omosessualità. Identità, relazioni familiari e sociali, p. 78.
[2] Cfr. J. QUILES, Più che amiche, p. 196.
[3] C. CHIARI – L. BORGHI, Psicologia dell’omosessualità. Identità, relazioni familiari e sociali, p. 89.
[4] Cfr. Ibidem, p. 89.
[5] Cfr. Ibidem, p. 90.
[6] Cfr. V. LINGIARDI, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, p. 96.
[7] Cfr. M. CASTAÑEDA, Comprendere l’omosessualità, p. 89.
[8] Cfr. A. DI LUOFFO, Educazione al rispetto delle omosessualità, p. 125.
[9] Cfr. G. DALL’ORTO – P. DALL’ORTO, Figli diversi. New generation, Casale Monferrato, Sonda, 2005, p. 76.
[10] Cfr. G. DALL’ORTO – P. DALL’ORTO, Figli diversi. New generation, p. 143.
[11] Cfr. D. DI CEGLIE, Straniero nel mio corpo, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 107.
[12] Cfr. A. MONTANO, Psicoterapia con clienti omosessuali, Milano, McGraw Hill, 2000, p. 75.
* Alessandra Bialetti, vive e opera a Roma come Pedagogista Sociale e Consulente della coppia e della famiglia in vari progetti di diverse associazioni e realtà laiche e cattoliche. Il suo sito web è https://alessandrabialetti.wordpress.com/