Di fronte al rogo della cattedrale di Notre-Dame
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Riflessioni di Pierre-Olivier Léchot* pubblicate sul blog del mensile protestante Évangile et Liberté (Francia) il 17 aprile 2019, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Ovviamente la distruzione della cattedrale parigina di Notre-Dame è una catastrofe culturale e storica, una perdita inestimabile, il cui peso non può essere minimizzato. Sul piano religioso è un dramma per un’intera comunità, quella dei cattolici di Francia e di chi vi si sente più o meno vicino. Lunedì sera, mentre passavo sul Pont Royal, ho pianto nel vedere le fiamme lambire la fabbrica plurisecolare della vecchia signora. L’emozione non deve però esimerci da qualche riflessione.
Certo, si possono interpretare in molti modi questo avvenimento, e le reazioni che ha suscitato. Mi sorprende molto la rapidità con cui sono tornati in auge i discorsi sulle radici cattoliche della Francia, della Francia “cattolicissima”, come la chiamava Pierre Bayle all’indomani della revoca dell’Editto di Nantes [dove la confessione riformata venne messa di nuovo fuorilegge in Francia, n.d.t.]. I media hanno dato quindi voce a chi si sente autorizzato a rimettere in discussione il “multiculturalismo”, l’”individualismo” o addirittura il “materialismo” dei governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni alla testa del Paese, la cui politica letale sarebbe stata invalidata in un batter di ciglia dal fervore popolare provocato dalle fiamme di Notre-Dame, per non parlare del salvataggio “miracoloso” delle reliquie custodite nella cattedrale…
È incontestabile che la storia della Francia sia legata a doppio filo a quella del cattolicesimo europeo, ma affermare che questa storia non può essere che cattolica, e che il fervore popolare avrebbe il compito di ricordarcelo, è una trappola pericolosa. Prima di tutto, questo discorso non è storicamente vero, perché ignora tutto quello che è esistito prima del battesimo di Clodoveo [il re dei Franchi che, battezzandosi nel 496, impose la confessione cattolica a parte dell’odierna Francia, n.d.t.], come se quel passato fosse una favola, come se il retaggio celtico e romano non avesse sempre contribuito all’identità francese lungo i secoli, come se il nostro Paese non ospitasse da quasi duemila anni delle comunità ebraiche, come se il cristianesimo medievale fosse identico al cattolicesimo tridentino e il gallicanesimo possa essere associato senz’altro all’ultramontanismo [il gallicanesimo era la dottrina che asseriva la superiorità dei concilî ecumenici sull’autorità del Papa e l’autonomia della Chiesa francese; l’ultramontanismo, al contrario, asseriva l’infallibilità del Pontefice e la sua supremazia sui vescovi locali, n.d.t.], come se le comunità protestanti, che esistono da cinque secoli, non fossero legittimamente francesi e i musulmani non avessero contribuito anch’essi alla nostra storia… Questo inventario stile Prévert potrebbe andare avanti a lungo, tanto sono numerosi gli elementi non cattolici i quali, pur essendo senza dubbio spesso minoritari, hanno contribuito ad arricchire, fecondare e costruire quell’identità francese che è plurale e una al tempo stesso.
Dicendo questo so di correre il rischio di essere tacciato di essere sia un difensore del più gretto confessionalismo protestante, che un apologeta del più scatenato multiculturalismo, ma voglio correre questo rischio, perché a mio avviso il pericolo vero non sta qui. Il pericolo sta in quelle emozioni che si sono di nuovo impadronite di noi, e che ci stanno accecando. Credo sia proprio questa euforia popolare ad accecarci, perché non è affatto un segno del grande ritorno dell’identità cattolica francese. In realtà, l’euforia che vediamo per le strade è il frutto di un’epoca in cerca disperata di senso, che si avventa sugli avvenimenti che più fanno notizia per viverli “intensamente”, ma senza farsi troppe domande su cosa sia veramente in gioco. Nel 2015 era “la Francia dei dehors” ad essere sotto attacco, e che doveva continuare a far baldoria, costi quel che costi; nel 2019 è la Francia dei sagrati delle cattedrali a stare sotto i riflettori, a inginocchiarsi e pregare. In questo senso l’euforia popolare mi preoccupa, perché è in realtà la testimonianza di un abissale vuoto identitario, che si traduce in una inquietante versatilità. E non manca mai chi vuole attaccarci il cappello, basta ascoltare il presidente di Sens Commun [movimento politico ostile al matrimonio omosessuale, n.d.t.] pontificare sulla morale in TV per esserne convinti.
Certo, in mezzo alla folla che cantava di fronte al rogo di quella foresta di guglie si trovavano sicuramente dei cattolici ferventi, dalla fede sincera, toccata al cuore dalla tragedia. Ma tra le numerose persone che guardavano la cattedrale in fumo c’era anche gente che passava di lì facendo jogging e perdigiorno in motorino, tutti armati di smartphone, che si erano fermati perché “non si vede tutti i giorni bruciare Notre-Dame”. Quei passanti non stavano assistendo al martirio della storia francese e del suo cattolicesimo, più o meno reale o immaginario, ma a un happening… in attesa di passare poi ad altro. Diciamolo pure: abbiamo tutto il diritto di piangere su Notre-Dame, e anch’io piango, perfettamente solidale con i miei fratelli e sorelle cattolici. Ma non me la sento di essere solidale con “la Francia dei sagrati”, come non pensavo affatto a identificarmi con “la Francia dei dehors”, quasi come la Francia non fosse che uno spazio vuoto, sagrato o marciapiede, su cui si transita. La Francia è un destino “immenso ed eccezionale”, come diceva de Gaulle. Su un destino non si transita, un destino lo si segue, con i piedi ben piantati sul suolo della storia, ma con lo sguardo risolutamente rivolto verso il futuro.
* Pierre-Olivier Léchot è dottore in teologia e professore di storia moderna all’Istituto Protestante di Teologia (facoltà di Parigi). È membro associato del Centro Studi sui Monoteismi (CNRS EPHE) e del comitato della Società per la Storia del Protestantesimo Francese (SHPF).
Testo originale: De la terrasse au parvis… devant la fournaise de Notre-Dame