“Va in pace” (Mc 5,21-43). Prendere forza dalla fede come i genitori cristiani con un figlio LGBT
Restituzione* dell’incontro del gruppo PAROLA… E PAROLE** di Roma del 16 aprile 2019
Leggiamo il brano del Vangelo di Marco 5,21-43 e seguiamo in parallelo le due storie, quella di Giàiro, uno dei capi della sinagoga, e quella della donna ammalata (l’emorroissa). I miracoli che vengono raccontati, di per sé molto lontani dalla nostra razionalità, si intrecciano nel brano del Vangelo con tratti di vita quotidiana, che sentiamo vicini.
Giàiro chiede con insistenza a Gesù il miracolo di salvare la sua figlioletta, che sta per morire. Davanti a Gesù c’è una persona importante che si trova ad affrontare un enorme dolore. La morte di una figlia, di un figlio può fare impazzire di dolore un genitore. Al solo pensiero ci sentiamo attraversati da una paura sotterranea: lo sgomento che persone così preziose per la nostra vita, come un figlio o una figlia, possano venire a mancare. Ci può essere una fede che resiste alle difficoltà della vita anche quando sono estreme, come la perdita di un figlio?
Dall’altra parte c’è la donna ammalata, un’impura nella concezione del tempo. Lei non chiede il miracolo, glielo sfila dal mantello a Gesù! Fa tutto lei: “Gli toccò il mantello e subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male”. Gesù non capisce, non subito, si sorprende, sentendo qualcosa dentro di sé, poi prende consapevolezza di una potenza che esce da lui, attivata dal contatto con la donna. Una potenza che gli permette di esprimere un segno miracoloso, da mettere al servizio della donna, liberandola dalla sua malattia e dal marchio di impurità che la società dove viveva le aveva stampato addosso.
A Giàiro Gesù chiede di aver fede, alla donna no. È una fede preventiva quella della donna, una fiducia in Gesù, a cui lui riconosce forza guaritrice, potere salvifico: “La tua fede ti ha salvata”. E aggiunge: “Va in pace e sii guarita dal tuo male”, ma quando lo dice il miracolo è già avvenuto. La donna si è già presa la sua guarigione. È bastato che gli toccasse il mantello: è proprio l’atteggiamento di fede che fa avvenire il miracolo. Come quella donna tutti abbiamo bisogno di essere e sentirci guariti. Da lei dobbiamo imparare come metterci in gioco perché questo accada.
Ma la morte di un figlio è solo quella fisica o un figlio muore per noi genitori tutte le volte che si mostra diverso da come noi lo vorremmo? Tutte le volte che delude le nostre aspettative? Che muore il modello di figlio che noi abbiamo in mente? Siamo consapevoli che i figli sono altro da noi che li abbiamo generati, eppure rimangono le difficoltà nel gestire le nostre proiezioni su di loro. Che fare? Forse una delle condizioni indispensabili per non condizionare i figli con le nostre aspettative e i nostri desideri è quella di fare i conti con i nostri vissuti presenti e passati e anche con le relazioni profonde e a volte conflittuali con i nostri genitori.
È molto difficile tracciare un confine netto e distinguere sempre con lucidità tra ciò che richiede il nostro ruolo di educatori e ciò che le nostre aspettative ci spingono a fare. Educare è anche stimolare senso critico, proporre modelli alternativi a quelli vincenti. E questo comporta una fatica strenua. Dirsi: è giusto che mio figlio/a faccia quello che decide lui/lei di fare, sembra un comportamento inattaccabile da parte di un genitore, eppure spesso nasconde altro. Le nostre frustrazioni, la fatica, la stanchezza, come educatori, a proporre ai figli qualcosa che non segua il default, lo standard, che poi coincide con quello che fanno tutti. Allora la scappatoia può essere quella di dirsi che è giusto lasciarli decidere autonomamente. Come se la società che li circonda sia neutra e non imponga essa stessa dei modelli di vita. Standard appunto. Siamo chiamati come genitori ad affrontare questa difficoltà. Non abbiamo altra scelta che camminare su un confine incerto, con il rischio continuo di sbagliare. Senza dimenticare mai però di metterci in una posizione di ascolto, lasciandoci interpellare dai dubbi, cercando risposte, nella consapevolezza che non saranno mai definitive, che forse saranno anche un po’ sbagliate, purché però siano almeno oneste.
Sarebbe bello trovare il tempo, cronologico ed interiore, per fermarci a guardare, ad ascoltare il proprio figlio/a, riuscendo così a vivere lo stupore di fronte ad una giovane vita che sta crescendo. Ma quanto è difficile l’esercizio dello stupore quotidiano! Richiede di sgombrare il cuore dalle nostre aspettative, richiede la capacità di creare il vuoto, per lasciare spazio e riuscire a vedere il bello. Per fortuna che la consapevolezza che Gesù accoglie ciascuno e ciascuna di noi con tutte le sue imperfezioni e contraddizioni guida le nostre esistenze e ci aiuta ad accettare le nostre fragilità.
Essere genitori non è facile, esserlo di ragazzi e ragazze omosessuali è ancora più difficile. E non ci sentiamo aiutati dalla società e neanche dalla nostra chiesa. Il cammino, lungo e faticoso, comporta anche battute di arresto che ripropongono domande antiche ed inquietanti. La speranza è di poter trarre insegnamento dalla capacità di aver fede di quella donna del Vangelo. Una fede che salva. Nonostante tutto.
Marco 5,21-43
Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva». Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?». I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?». Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male».
Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!». E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina. Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
* La restituzione è una sorta di resoconto di quanto è stato detto nel corso dell’incontro del gruppo PAROLA… E PAROLE. Come in un collage, sono messi insieme frammenti significativi degli interventi dei singoli partecipanti, parole e pensieri espressi da ciascuno e ciascuna.
** PAROLA… E PAROLE è un gruppo di incontro esperienziale cristiano per genitori di persone LGBT e genitori LGBT di Roma. Ci incontriamo per percorrere e tracciare insieme il cammino verso una società ed una chiesa inclusive, dove nessuno sia messo ai margini. Lo facciamo seguendo le orme di quel Gesù di Nazareth, che, sulle strade della Palestina, ha condiviso la sua vita con gli esclusi e le escluse del suo tempo. Ci incontriamo una volta al mese, normalmente il primo venerdì, alle ore 20 presso un locale attiguo alla chiesa di Sant’Ignazio, in v. Del Caravita 8 a. Coloro che sono interessati, possono contattarci a questi recapiti: Alessandra Bialetti 346 221 4143 – alessandra.bialetti@gmail.com; Dea Santonico 338 629 8894 – dea.santonico@gmail.com