Nudi e senza vergogna
Articolo di Lidia Maggi pubblicato sulla rivista “Servitium” n.242 di Marzo/Aprile 2019.
Ritorniamo alla narrazione antica, quella che troviamo come portale d’ingresso della Bibbia: un mito che prova a raccontare gli inizi, non tanto per riflettere sulle origini, piuttosto per consegnarci il principio, inteso come il fondamento dell’esistenza. Sono racconti fin troppo conosciuti, quelli che ripercorriamo; così conosciuti da essere usurati. Come un libro troppo sfogliato, frammenti si sbriciolano sotto le dita della memoria. A dire il vero, non è chiaro se lo sgretolamento del manoscritto dipenda dall’usura o non piuttosto dall’abbandono, dall’incuria con cui questi capolavori antichi sono stati trattati.
Alcuni sostengono che l’usura sia iniziata con la modernità, quando la mentalità scientifica ha valutato come illogici e fiabeschi gli scenari proposti dalla Genesi. I racconti poetici sono stati, allora, setacciati dalla lente scientifica e non hanno passato il vaglio: il mondo non è stato creato in 6 giorni, e tantomeno è iniziato in un giardino, con una coppia primordiale che passa, nello spazio di un capitolo, dall’età dell’innocenza a quella della consapevolezza, e tutto per colpa (o grazie) al furto di un frutto proibito.
Che cosa hanno ancora da dirci questi racconti arcaici, mitici, che mettono in scena un mondo fantasioso, dove i serpenti parlano e le donne sono tratte dal fianco dell’uomo? E se non tiene tale impianto per la nostra mentalità moderna, razionale e scientifica, capace di ricercare un ordine del mondo senza chiamare in causa Dio, cosa dire del peso di tante letture moralistiche che, proprio appoggiandosi su queste antiche narrazioni, hanno accusato il genere femminile di aver portato nel mondo il peccato, il disordine e aver causato la cacciata dal giardino? Interpretazioni che hanno legittimato la supremazia dell’uomo sulla donna — perché è la donna che è stata tratta dall’uomo e non viceversa! Ed è sempre la donna ad essersi lasciata “sedurre” dal serpente.
La vergogna per gli abusi del testo
La prima vergogna da riconoscere non è quella messa in scena nel mito; piuttosto, quella che dovremmo provare noi, per tutti quegli utilizzi del testo biblico che, nel passato come ancora oggi, sono serviti a legittimare un abuso, un dominio: la supremazia dell’umano sul creato, dell’uomo sulla donna, del bianco sul nero (ricordate Noè e la maledizione data al figlio Cam per aver guardato la nudità del padre ubriaco?), e così via. Dovremmo provare vergogna per aver deformato queste antiche narrazioni, oscillando da letture moraliste a banalizzazioni antimoderniste.
Oggi, sentiamo di vivere in un’epoca orfana di grandi narrazioni. La maggior parte di queste saranno pure venute meno per l’uso fattone dalle ideologie della modernità; ma pure le chiese, con le loro letture banalizzanti delle pagine bibliche, hanno una loro responsabilità al riguardo. È come se fossimo il figlio minore della parabola che, dopo aver sperperato la propria eredità, si ritrova affamato, nella sporcizia, e prende consapevolezza di dove è precipitato. Aver amministrato male questi capolavori della spiritualità e della fede, averli resi polverosi, noiosi e banali non ci ha solo reso più poveri, ma ci ha sottratto le grandi domande che queste antiche storie collettive ponevano alle generazioni.
Chi sono? Perché esisto? Cosa vuoi dire diventare pienamente umano?
Come il figlio minore, pieni di vergogna, ci alziamo e ci mettiamo in cammino verso casa. Lo facciamo in un momento storico particolare, in cui ci sentiamo nudi di narrazioni condivise, capaci di orientare l’esistenza, di aprire sentieri, permettendo ad un’intera società di specchiarsi e lasciarsi interrogare. Orfani di memoria, vaghiamo nudi e infreddoliti e, nella selva del nostro presente, nessuna voce sembra raggiungerci per chiederci: «Dove sei?».
Alla ricerca del senso perduto
Eppure, proprio come Dio, nel deserto di senso, osiamo ritornare nel folto del testo antico abusato o dimenticato, per ritrovare quelle storie sottratte a una generazione distratta e smemorata. Ritorniamo in quel giardino primordiale per ascoltare, più che un racconto teologico su Dio, una riflessione sull’umanità, che ci aiuti a ritrovare il senso dell’umano. Adamo dove sei? E dov’è tuo fratello?
Le domande che risuonano nel mito sono tutt’altro che estranee alla nostra realtà. La storia degli inizi non ci porta indietro nel tempo: piuttosto, aiuta a leggere il presente, le difficoltà nella relazione con l’altro e con la vita in genere. Non una narrazione storica o scientifica, né tantomeno un codice religioso, ma un racconto sapienziale, consegnato attraverso un linguaggio simbolico che, in una miniatura, prova a cogliere il senso dello stare al mondo e dischiude orizzonti impensati.
Chiamati alla relazione
Nel libro della Genesi, fin dagli inizi, l’umanità è raccontata come chiamata alla relazione: «Non è bene che l’uomo sia solo». Nessuno basta a se stesso. Per essere felici abbiamo bisogno di fare i conti con l’alterità: quella di Dio, prima di tutto, che è diverso da noi, anche se nell’umano abitano tratti divini, al punto di poter scorgere in questa meravigliosa creatura la somiglianza. E anche l’alterità umana. Essere creature relazionali significa riconoscere di aver bisogno di aiuto — «Gli farò un aiuto che gli venga incontro».
Seppure ospitiamo dentro di noi il respiro di Dio, il cielo in noi, siamo creature fragili, impastate di terra; non bastiamo a noi stessi, abbiamo bisogno di relazioni. Insomma, siamo ben lontani da quella creatura onnipotente che, a volte, pretendiamo di essere. Il desiderio di appropriarci del potere di tenere tutto sotto controllo si rivela illusorio. Non possiamo disporre del bene e del male. Accogliere questa verità antropologica ci permette di abitare la nostra fragilità, la nostra nudità, senza provarne vergogna.
L’uomo e la donna, nel giardino, “nudi e senza vergogna”, sono l’immagine di quel progetto di umanità capace di sentirsi riconciliata con la propria creaturalità. Non sono creature inconsapevoli e infantili, che devono ancora crescere, come spesso raffiguriamo quella situazione idilliaca iniziale. «In principio» viene rappresentato il progetto di un’umanità che vive in armonia con le proprie fragilità, felice di essere quello che è, nuda e senza vergogna.
La fragilità umana: dono od ostacolo?
Ciò che è dato all’inizio sembra, tuttavia, un punto di arrivo più che un assodato punto di partenza, poiché non è affatto semplice stare bene con se stessi e con gli altri, accogliersi per come si è, con i propri limiti e le proprie fragilità, riconciliati con le proprie finitezze creaturali, senza desiderare di essere differenti. Perché, di solito, la nostra fragilità viene percepita come ostacolo alla vita piena più che come requisito necessario per diventare pienamente umani, in relazione?
Il primo senso di vergogna sembra trovare traccia in questa fatica di stare con la propria parzialità. Anche di questo ci parla il racconto delle origini, amplificando ed esasperando l’inadeguatezza umana, fino a portarla all’estremo disagio. E come se il mito chiedesse a chi legge: come si vede la creatura umana? Si sente davvero parte del mondo che abita? È in relazione con i doni della terra che custodisce e governa? Questa vocazione di cura l’ha fatta propria oppure la subisce? E il disagio genera il conflitto.
Ecco che, nel giardino, una voce sibilante insinua, strisciante come un serpente, il sospetto sulla bontà della propria creaturalità. Ciò che nel mito è narrato con il prima e il dopo — dall’idillio alla caduta, dal giardinc al deserto — non è il racconto cronologico della parabola umana piuttosto si tratta di due scene che, in tensione fino al conflitto, rivelano qualcosa di profondo del cuore umano. Andare indietro è l’arte antica per affrontare le grandi domande di senso davanti a noi senza banalizzarle. Un immagine temporale per esprimere quello che oggi noi comprendiamo con un’immagine spaziale: andare al fondo delle cose, senza rimanere in superficie. Da una parte, la condizione umana è rappresentata, nella prima scena, dalla nudità, intesa come vulnerabilità, vissuta senza imbarazzo, senza che divenga motivo di vergogna.
Ma subito, accanto a questa scena, attraverso l’arte del racconto, che mette in gioco molteplici punti di vista, ecco che si dà voce al dissenso, si fa emergere quel disagio che abita il cuore umano: perché il bene e il male non è nelle mie mani? Perché non sono come Dio, capace di controllare ogni cosa? Queste domande vengono affrontate immaginando che l’antagonista tenti la coppia primordiale deformandone lo sguardo, facendo loro credere che tutto è divieto per la creatura umana: «davvero il Signore vi ha detto che non potete mangiare di nessun albero?».
Il limite, in realtà, non è rappresentato dall’impossibilità di godere dei frutti della terra, ma dal divieto verso i frutti di un unico albero: quello della conoscenza del bene e del male. Qui la coppia umana si lascia convincere che sia possibile, attraverso la negazione del proprio limite, arrivare a essere come Dio: capaci di controllare ogni cosa, il bene e il male, in grado di attraversare la vita senza perderne mai il controllo. Ma la creatura umana, per quanto si sforzi, per quanti mezzi possa avere, può attraversare la vita con un tale delirio? Non rischia di non vivere, di non amare e rifiutare le relazioni? Perché l’altro è sempre imprevedibile, come del resto molti accadimenti dell’esistenza. Si può controllare qualcosa, ma non tutto!
Possiamo controllare quanto spendiamo, quanto consumiamo, persino quanto mangiamo, ma non possiamo pianificare la nostra vita senza che qualcosa ci sfugga: un lutto, una malattia, una calamità naturale e sociale. La vita va rischiata, non si può vivere in difesa. L’umanità è questa creatura fragile, nuda, esposta senza protezioni alle intemperie nella vita. Nasce, allora, il sospetto che Dio non voglia il bene dell’umanità, avendo creato il terrestre così terrestre.
Vergogna e paura per la propria nudità
L’esperienza dell’albero della conoscenza del bene e del male sgretola l’illusione di poter essere come Dio: dopo averne gustato il frutto, gli occhi si aprono e l’umanità, dopo il delirio, scopre di essere tutt’altro che onnipotente. Si vede nuda e “ne prova vergogna”. Non viene spiegato il perché. Per la disubbidienza? Perché non si è fidata di Dio? Perché si scopre ridicola nella sua fragilità, di fronte al suo desiderio di onnipotenza? Aspetti tutti concatenati tra loro.
La sfiducia nella bontà della propria vocazione porta alla mancanza di autostima e all’incapacità di provare stupore. Chi non è come vorrebbe essere si vergogna e si sottrae allo sguardo. La nuda fragilità è insopportabile, prima di tutto nei confronti del prossimo. Per nascondere questa nudità, le creature umane intrecciano delle foglie per farsi un vestito. Basteranno poche foglie a proteggere dal freddo della fragilità subita? In seguito, nell’udire la voce di Dio che chiama nel giardino, i due si nascondono tra i cespugli. La voce di Dio incute loro paura. Cosa li spaventa? Dio? La propria vulnerabilità davanti a Dio?
L’opposto dell’essere nudi e non vergognarsi, non è essere nudi e vergognarsi, ma provare paura della nudità. Sentirsi fragili, non corazzati per affrontare la vita. «Ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto». La paura nasce dall’amara consapevolezza che non siamo invulnerabili. L’altro può proteggerci ma anche aggredirci e farci male.
Mito e realtà
È accaduto il peggio: la realtà ha superato il mito. Abbiamo mangiato il frutto dell’onnipotenza, ma poi non ci siamo vergognati. E se siamo nudi, non ce ne accorgiamo: nessuna paura vien a ricordarci la nostra condizione. Noi ci sentiamo protetti dalle armature delle nostre costruzioni identitarie. Non ci sentiamo creature fragili, perché sappiamo bastare a noi stessi. Va tutto bene, finché riusciamo ad avere tutto sotto controllo, a cominciare dalle frontiere, le nostre nuove pelli.
Certo, è già accaduto in epoche passate; ma adesso accade a noi: abbiamo riscritto il mito antico cambiando il finale: l’imbroglio del serpente è andato ben oltre le sue aspettative. Ha annebbiato la nostra vista fino a cancellare allo sguardo la nostra fragilità. È accaduto il peggio. Ora, nel giardino, dopo aver condiviso il frutto, l’uomo e la donna si muovono ancora ignari, come nella scena dell’idillio. Sono nudi, ma non lo sanno. Il re è nudo, ma crede di indossare gli abiti dell’imperatore, del re del mondo. È lontano da Dio, ma si vanta di averlo come suo alleato: una presenza che non incute alcun timore, che non pone domande di senso, inascoltabili dagli orecchi sicuri di un’umanità senza vergogna.
Il male si nasconde anche così: ti fa credere di essere altro da te e non ti fa provare vergogna. Contro questa declinazione contemporanea del male, quale Dio ci potrà salvare?