La relazione nell’affettività e nell’omo-affettività
Testo del gesuita belga José Davin tratto da Devenir Un en Christ (Francia), liberamente tradotto da Piero
Il tema delle relazioni occupa scaffali interi di biblioteca. Se lo si incentra sull’affettività, questo spazio si restringe e se si inquadra questo argomento nella sfera omo-affettiva, omosessuale, vanno delineandosi un certo numero di situazioni concrete.
Questo è l’itinerario dei miei due interventi: situare l’affettività nelle relazioni umane e considerare poi le sue applicazioni nelle relazioni dei gay e delle lesbiche.
1. Le relazioni ci formano affettivamente
Una persona tra le altre
* Ogni persona omosessuale è innanzitutto una persona e, come tale, sperimenta l’incontro degli altri, il mondo delle relazioni che sono contemporaneamente esteriori ad ogni uomo, ma anche interiori per le loro influenze. Questo incontro degli altri ci plasma in permanenza.
* Le relazioni sono sempre vissute come esteriori da ciascuno di noi, perché ogni uomo, vedente o non vedente, percepisce l’esistenza dei suoi simili.
In una relazione, il punto di partenza è un “me”, un “io” che, spostandosi sposta il centro della percezione, e, in un certo modo, il centro del mondo dove si trova costantemente.
Senza credersi il centro del mondo, noi possiamo intercettare la vita solo a partire dalla nostra percezione sensibile, unica e a nessun’altra simile.Tutti questi incontri che viviamo come esteriori alla nostra personalità ci arricchiscono con il loro apporto originale.
* Queste relazioni colpiscono così profondamente la nostra vita interiore e partecipano alla nostra evoluzione.
Noi non restiamo indifferenti di fronte alla presenza degli altri; costoro provocano in noi un’interpretazione permanente (certo incosciente in gran parte): Cosa vuol dire? Cosa pensa di me, cosa prova verso di me?
Come ha potuto fare con successo o fallire ciò? Gli altri suscitano in noi domande e risposte, e anche tutto un film, un cinema di spiegazioni, soprattutto quando si pensa a loro, in loro assenza.
Di più, gli altri segnano non soltanto le nostre menti, ma fanno vibrare in noi dei sentimenti. In un certo qual modo, ci abitano.
Così, in certe professioni: infermieri, educatori, insegnanti, si sente spesso questa frase “Quando li lascio, continuano a seguirmi, a segnare la mia vita”. Quindi, come è formato l’essere umano, se è cosi toccato interiormente dai contatti esteriori con altri?
Personalità e affettività
* Un grande bisogno di relazione, lo sappiamo, è inscritto nel nostro corpo, sessuato e orientato verso l’altro sesso; è un’energia incosciente, una forza, una pulsione che ci spinge verso altri e verso la fecondità, essere genitore, utile, prendere posto tra gli altri.
Presso la maggior parte, questa pulsione quando si concretizza in una relazione amorosa, li volge verso qualcuno del sesso complementare (altro, in greco “heteros”), mentre presso una parte non trascurabile della popolazione (3% nelle statistiche più basse), essa si dirige verso qualcuno dell’identico sesso (stesso, in greco “homos”), un orientamento che, in Francia, riguarda dunque circa 1.300.000 persone.
Questo bisogno è inscritto in noi: essere in collegamento con un altro, con gli altri (con l’Altro).
* Noi siamo il nostro corpo, una realtà visibile, con i suoi punti di forza e i suoi limiti, lasciato in balia dell’usura. Abitato, animato dalla nostra mente, questo corpo è più della materia inerte di un cadavere, forma la persona vivente e visibile.
La nostra mente, è la nostra intelligenza, certo relativa, proprio come la nostra volontà, un insieme che ci dà una certa libertà di decisione e d’azione.
Ma la nostra mente, è anche un mondo d’emozioni, la nostra affettività, una sensazione che si produce in noi e che dobbiamo gestire. Questa vita emozionale, questi sentimenti sono alla congiunzione tra la mente e il corpo.
Per esempio, se proviamo grandi paure, il corpo lo sente, il cuore batte più in fretta, la mente prende cognizione di questa paura, ed esprime a parole ciò che succede.
* Questa affettività, questa sensibilità calorosa è infinitamente variabile secondo le persone. È evidentemente una ricchezza, perché essa permette di percepire il vissuto emozionale degli altri, d’apprezzare la bellezza, l’amore, la delicatezza…
È anche un luogo di vulnerabilità, di sofferenza, perché relazioni difficili, l’assenza d’amore, altre contrarietà sono presto percepite. Se l’emozione si rivela un grande stimolante, un prezioso cooperante di progetti, di relazioni e d’azioni, non può essere il nocchiero finale della nostra barca.
Il pilotaggio è di competenza della ragione, della riflessione, dell’intelligenza e della volontà che sono chiamate a scegliere la direzione, il senso della nostra vita, senza lasciarsi dirigere dagli eccessi dei sentimenti, dalle passioni, anche se buoni sentimenti, come la misericordia, sono sollecitatori di numerose decisioni positive.
I primi legami… e i seguenti
* Nessuno nasce su un’isola, portato da una gentile cicogna alsaziana! Così siamo molto dipendenti dagli altri al momento della nostra giovane età. Lo restiamo, in parte, e per tutta la nostra vita, pur acquisendo una certa autonomia.
Questa resta relativa, soprattutto quando seri limiti richiedono un accompagnamento specifico; è questo il caso delle persone aventi un deficit mentale pronunciato.
* I genitori, l’ambiente familiare, costituiscono le prime relazioni importanti, perché prendono in mano tutte le componenti vitali (cibo, bisogni materiali, risveglio del linguaggio, posizione eretta, conoscenze elementari, clima d’attaccamento e d’affetto…).
Una certa fiducia in sé sufficiente è abitualmente suscitata da questo nido familiare: “Sono stato abbastanza importante per i miei parenti”
* Tuttavia, non essendo perfetto nessun padre né madre, le esperienze positive e le frustrazioni inutili, le ricchezze affettive e le lacune fanno parte, in gradi diversi, di ogni educazione. Le personalità ne risentono.
Così, per tutta l’esistenza, alcuni hanno bisogno di una mano ferma accanto a loro e altri di un supplemento di tenerezza.
Ma, malgrado questo percorso inevitabilmente imperfetto, la nostra sorte in buona parte ci appartiene. E conoscersi aiuta ad accettarsi e a progredire.
* Freud e la psicanalisi hanno illuminato questo universo emozionale legato alle prime esperienze positive o negative vissute nel nostro ambiente familiare, impregnato anche di direttive differenti.
Così, un bambino abbandonato molto presto da sua madre soffrirà spontaneamente di disturbi nell’attaccamento agli altri.
Le ferite della vita, soprattutto fin dalla giovane età, ma anche più tardi, possono segnare gravemente le personalità: rivolta, angosce latenti, aggressività eccessiva, depressione.
Se è il caso, farsi curare il “cuore straziato dalla sofferenza” non è mai segno di debolezza, ma piuttosto un indice di lucidità e di coraggio per progredire.
In questo spirito, fare il punto con un accompagnatore può essere utile, anzi necessario, quando ci si sente “sopraffatti” o troppo depressi.
In strada, sotto lo sguardo degli altri
* Per tutta l’esistenza, gli altri ci sono necessari. Il loro sguardo ci incrocia. Sotto la parola “sguardo”, pensando a dei non vedenti, a dei ciechi, bisogna intendere l’idea di una “opinione degli altri su di noi” che, certo, è abitualmente forgiata a partire dalla vista.
Questo sguardo è permanente, anche nella via o in una sala d’attesa, chi è questo altro che sto per incrociare o che è di fronte a me?
Quali emozioni suscita in me: paura, interesse, curiosità, disprezzo…? Come sarò accettato a tavola questa sera, o nei gruppi di condivisione?
Fortunatamente, non ne abbiamo molto coscienza e ci siamo abituati a questa realtà umana.
* Lo sguardo d’altri, presenza inevitabile del nostro destino sociale, è solo una prima tappa, in parte affettiva, verso relazioni di qualità. Le relazioni!
Quando si dice di qualcuno “Ha molte relazioni”, per esempio con il mondo degli affari, con dei responsabili, si accenna a referenze utili.
Ma entrare in relazione con qualcuno fa allusione a un processo più profondo che impegna l’insieme della nostra personalità. Avere una relazione è più superficiale, meno intenso che essere in relazione.
Nel nostro percorso umano, certe relazioni ci formano veramente e altre ci impegnano (Voi siete impegnati ad ascoltarmi, senza dubbio saremo più in relazione domani sera!).
Si può vivere un contatto regolare con qualcuno senza entrare profondamente in relazione con lui, è il caso in certe attività ed è frequente prendendo ogni giorno la stessa metropolitana.
* La relazione autentica presuppone che noi diventiamo una persona per un altro o un’altra, un “io esisto” con le mie idee, le mie emozioni, i miei progetti, le mie differenze, per qualcuno che sia così a proprio agio con noi da raccontarsi, ascoltarci, dialogare.
Le relazioni umane sono, si può dire, essenzialmente affettive, perché si costruiscono sul nostro bisogno di vivere con gli altri in un sentimento di pace, d’amicizia, anche se con alcuni la relazione è più caratterizzata dallo scambio interessante delle idee o dalla realizzazione stimolante di azioni comuni.
* Nel corso dell’esistenza, beneficiamo di diverse relazioni positive che ci fanno vivere, con le loro ricchezze e nonostante i loro limiti, talvolta anche con le loro esigenze (aiutare i nostri vecchi genitori in fin di vita) o con le loro sofferenze (come nelle separazioni).
In tutte le nostre relazioni, ci aspettiamo di essere trattati con rispetto, giustizia e se possibile, di essere stimati.
In tutti i nostri contatti con altri, riceviamo, più o meno, infelicità e felicità, ma mai la pienezza. Così restiamo interessati per ogni nuova relazione, sorgente di speranze. Chi è quello, quella che mi telefona? Attese di novità, talvolta d’inquietudini, o ancora di curiosità.
* Profondo è il nostro bisogno incosciente di vera relazione. Vivere da uomini, è avere fame e sete di relazioni autentiche, d’amicizia, d’affetto, di una pienezza d’amore (e d’Amore).
Accettarsi, grazie allo sguardo dell’Altro
* Di fronte a questo destino comune che ci forma come persone, sarebbe vano e inutile guardarsi in uno specchio e ancora meno piangere, su un passato, eventualmente doloroso o sui suoi limiti, sui suoi insuccessi, sulle sue differenze.
L’essenziale consiste nel prendere in carico me stesso nell’oggi della mia vita, come sono, perché ogni mattino, c’è una nuova pagina di vita da scrivere. L’alternanza del giorno dopo la notte ci invita ad alzarci, a rialzarci di continuo.
* Per comporre questo foglio nuovo in un clima di pace, è benefico affidarsi al Signore Gesù, fedelmente presente al nostro fianco, come lo è stato nel tempo della rivelazione del suo cuore. Due episodi illuminanti possono guidare le nostre riflessioni.
* Dopo una messa in guardia nei confronti degli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti ed occupare i primi posti, ma che opprimono le vedove, mentre fanno lunghe preghiere (Mc 12,38-40), il Cristo che si era seduto presso il tempio con i suoi apostoli, ha svelato un messaggio prezioso sullo sguardo di Dio.
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,41-44).
Proprio come Gesù, noi ammiriamo la grande generosità di questa donna che ha deposto tutto in una di quelle tredici cassette delle elemosine, quei grandi recipienti di bronzo allineati lungo la sala del tesoro.
La Buona Novella presenta in questa situazione il Signore come il testimone delle azioni degli uomini e delle loro intenzioni: “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,13).
Egli guarda dei ricchi che danno molto, con vanità. Osserva anche una povera vedova, nascosta, perduta nella folla, il cui gesto, tuttavia, è inciso nella storia umana. Chi era questa donna?
Durante tutta la mattinata chiacchierando con le sue vicine aveva spettegolato su tutto o parlato male alle spalle di un’amica?
Può darsi, come nei pettegolezzi passatempo. Poco importa, Dio prende in considerazione solo una cosa: non il contenuto del suo regalo modesto, ma lo sforzo che ha effettuato, qui per una nobile causa, i bisogni del tempio.
Da cui questa domanda interessante: Dio prende in considerazione il male di cui siamo gli autori? Penso sinceramente che lo dimentichi, perché promuove di continuo la vita e si meraviglia davanti alle nostre buone azioni, anche se, umanamente, sembrano insignificanti. “Infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7).
Questo sguardo divino è liberatore per le nostre vite personali, ma anche di fronte allo sguardo che hanno alcuni sulle nostre personalità, sull’omosessualità!
* Altro testo rallegrante riguardante lo sguardo di Dio, la parabola rivolta a quelli che si credono giusti perché compiono atti di devozione, ma che disprezzano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato (Lc 18,10-14).
L’umiltà che si sprigiona dalle parole del pubblicano ci indica il vero cammino per lasciare che Dio ci renda giusti, ci raggiunga in tutte le nostre relazioni macchiate anche da imperfezioni, da insuccessi più o meno gravi.
Gesù ci invita innanzitutto a volgersi verso di lui, nella verità: “Signore, non sono fiero di tali atti, di tali parole, mi pento di essi, aiutami, abbi pietà di me peccatore”.
Poi, ci propone di superare i sensi di colpa, volti verso di noi e senza uscita, accettandoci come siamo, omosessuali o eterosessuali, con i nostri punti forti (da guardare ogni tanto) e con i nostri difetti, le nostre debolezze, su cui la nostra influenza è del resto relativa.
Infine, suggerisce una certa indulgenza per noi stessi, senza cadere nella noncuranza. Indulgenza fondata su una speranza che viene dall’alto, perché sa anche che il buon grano delle nostre azioni cresce a partire da solide radici e che hanno valore d’eternità, mentre la zizzania che ci aderisce ai piedi è solo fragilità passeggera.
Dio colma il nostro bisogno di relazione?
* Per disillusione nei confronti del genere umano, per proiezione su Dio delle nostre attese più profonde, potremmo immaginare che Dio è la sola risposta alle aspirazioni più profonde della nostra affettività: amare ed essere amati. Ciò è in parte vero e falso.
* Falso immaginare che ora Dio che non si vede compenserà, colmerà la nostra affettività che richiede manifestazioni tangibili, corporee d’amore.
Il suo rispetto per la nostra avventura umana non cambia niente di quello che il genere umano ha fatto e realizza liberamente. Il Padrone è partito e ci ha affidato dei talenti da sviluppare per un felice vivere insieme, facendo attenzione ai più inermi (Mt 25,14-30).
* Vero. Un giorno, presso di Lui, troveremo la felicità totale d’essere veramente amati senza condizione con la gioia di vederlo, di conoscerlo e di amarlo, mentre vivremo un amore reciproco perfetto con i nostri simili. È l’avvenire che Gesù, Dio in persona, ci ha rivelato (Ap 21,3-4).
Aspettando, il nostro cuore in desiderio e mai soddisfatto può scoprire in Gesù, incontrato attraverso l’invisibile della fede, Qualcuno che ci accetta come siamo, ci stima, ci stimola, ci dà la pace, ci perdona, in una parola ci ama. “Niente può separarci da questo amore” (Rom 8,31-39).
Questa amicizia profonda può essere vissuta da ogni fedele, quale che sia il suo stato: celibato o in coppia.
Quelli o quelle che hanno risposto a una chiamata di Dio per seguirlo quaggiù nel celibato effettivo del prete, in quello del religioso o del laico cristiano impegnato, approfondiscono questa amicizia, rinunciando ad ogni amore umano, ad ogni genitorialità carnale.
Tutti, consacrati o laici, amici del Cristo, incontriamo Dio modestamente, ma realmente. Senza vederlo direttamente fin da questa vita, sappiamo ciò che ci è promesso.
E anche se il Signore sostiene i suoi amici con rari momenti affettivi di consolazione (operando anche con dei periodi di desolazione) (questa analisi spirituale è stata messa in luce da Sant’Ignazio di Loyola nel suo libro Gli esercizi spirituali), noi camminiamo con fiducia in una quotidianità spesso banale che assomiglia a quella di Nazareth, ma la cui grandezza si misura con l’amore che lo Spirito ci ispira.
2. La relazione nella vita omo-affettiva
Come combinare la ricerca del bene e della felicità degli altri, mentre ci si procura i propri, legittimamente? Senza dubbio le parole “comprensione dell’altro e di sé stesso” offrono una soluzione, un sentiero per percorrere serenamente i vari territori delle relazioni.
E specificamente per considerare le situazioni concrete della vita omo-affettiva (in parte applicabile anche agli eterosessuali).
Servizi
* In relazioni d’aiuto, amare gli altri come sé stessi è un grande ideale che richiede in primo luogo di amare sé stessi.
Principalmente, “io” (cioè ciascuno) io devo innanzitutto avere il coraggio di prendere il mio posto, di esprimere i miei sentimenti, i miei pareri nel rispetto di quelli degli altri, senza inventare delle “storie”, senza manipolare altri, perché ho il diritto e il dovere di essere autentico, di dire sì e no.
Poi, si tratta di essere benevolo con me stesso, non criticarmi di continuo, accettare i miei limiti, la mia differenza omo-affettiva, la mia storia, vedendo anche le mie qualità, le mie competenze, le mie conoscenze. In breve, prendere con serenità il mio giusto posto.
* Rendere servizio fa del bene a qualcuno e corrisponde nello stesso tempo al nostro bisogno d’essere fecondo. Se non vediamo chi aiutare, bisogna mettersi in ricerca, perché c’è più gente in ristrettezza, solitudine, povertà, che il contrario.
Talvolta una semplice telefonata a un conoscente malato, solo è già un prezioso servizio. E anche pregare per altri. Quando Gesù ci dice di amare gli altri “come” egli ci ama, propone un orizzonte ottimale, perché questo “come lui” significa che si rinuncia totalmente a favorirsi, anche legittimamente.
Questa opzione è molto esigente; raramente i nostri atti di generosità sono totalmente privi di un certo interesse, di un po’ d’egoismo. Questa rinuncia (che fu quella di Cristo) porta a pensare che niente ci è dovuto, nemmeno il grazie o la gratitudine che fanno tuttavia molto piacere.
È allora rendere servizio perché si è deciso di dare, di darsi, senza contraccambio, qualunque sia la simpatia.
I cristiani che non hanno il monopolio di questa santità la praticano perché sul volto d’altri leggono la dignità umana, un riflesso di Dio, l’identità di una persona amata da Dio, in un certo qual modo un fratello, una sorella in umanità.
Dopo aver guarito dieci lebbrosi, Gesù s’è meravigliato che uno solo ringrazi. In effetti, il grazie fa del bene a colui che lo pronuncia e a colui che lo riceve. È legittimo aspettarsi un grazie, senza tuttavia pensare che il servizio lo esiga. Gesù, senza pensare all’ingratitudine, si è soprattutto rallegrato che uno dei dieci lodi Dio, renda grazie, e, in questo modo, divenga più umano.
Questo spirito di servizio piuttosto eccezionale non significa che si sia ridotti a diventare un “buon pollo” che si lascia consumare senza mai pensare a sopravvivere.
Mentre si diventa una persona di “comunione”, bisogna anche “salvare la propria pelle”, riposarsi, assumere un atteggiamento distaccato, ritirarsi dall’ambiente talvolta troppo invadente del servizio, evitare d’essere invischiato in attività costantemente catturanti al punto che l’indispensabile raccoglimento, il tempo della preghiera di cui abbiamo bisogno si esauriscono. Amare sé stessi resta tanto importante quanto servire gli altri.
In queste situazioni coraggiose di servizio gratuito, fiorisce un grande sentimento di pace e di gioia perché il servizio ben eseguito rallegra il cuore umano. Così, tra numerosi Santi, padre Damiano ha vissuto, con amore e felicità, al servizio di lebbrosi poco attraenti fisicamente.
Più vicino a noi, anche i genitori sono indotti ad operare in questo stesso spirito di generosità disinteressata a vantaggio dei loro figli. Molti agiscono in questo spirito di dono di sé che è anche un cammino di santificazione.
Nel caso contrario, quando un interesse sottile occupa troppo il servizio reso, se abbiamo il coraggio della verità sulle nostre intenzioni, una sana mortificazione può nascere nel nostro cuore e aprire uno spazio di umiltà, quella del peccatore che vive la sua conversione e si sa accolto dal Signore, venuto a rialzare, a risollevare e non a condannare. La nostra imperfezione (sempre presente) diventa un luogo di incontro autentico del Signore.
Amicizie
* Le definizioni dell’amicizia la descrivono come un sentimento di simpatia e d’affetto reciproco che lega delle persone, indipendentemente da ogni attività sessuale.
Questo sentimento varia da un’amicizia all’altra, come i legami che ne derivano. Non li si crea di sana pianta, è la vita che ce ne dà l’occasione.
* Peraltro, è saggio non sognare un’amicizia perfetta che ci appagherebbe o che sarebbe l’equivalente di una relazione amorosa (sognata, anch’essa, perché nessun amore è pienamente soddisfacente).
In un trattato celebre sull’amicizia, Padre Ricci scrisse: “Il mio amico ed io, diamo come risultato due, ma in queste due persone, il cuore è uno. Fare affidamento l’uno sull’altro ed aiutarsi reciprocamente, è ciò che unisce l’amicizia.”
Detto in altro modo, essere a proprio agio e felice con qualcun altro e contare reciprocamente l’uno sull’altro, senza necessariamente incontrarsi spesso, benché sia necessario mantenere le proprie amicizie promuovendo dei contatti ogni tanto se non sono evidenti, viste le distanze o le occupazioni.
* Secondo le persone incontrate, viviamo ciascuna delle nostre amicizie in maniera diversa, a seconda di vari fattori: prossimità (l’uno in Svizzera, l’altro in Belgio), età, conversazioni, e anche talvolta in una capacità di dono o di bisogno differente.
Non condividiamo le stesse conversazioni con ogni amico. Nessuno di loro è neanche colui che dà la risposta ideale ai nostri bisogni affettivi, materiali, intellettuali o spirituali.
* È importante mantenere le proprie amicizie, soprattutto se non si vive in coppia. Infatti, la solitudine del celibato può diventare insopportabile e mutarsi in isolamento distruttore, se non si instaura nessuna relazione amicale, cordiale con altri.
Per alcuni, uno sforzo d’incontro d’altri diventa imperioso. Presso altri meno, perché il loro desiderio e la loro capacità di vivere soli è reale e notevole.
* La storia cristiana è costellata d’amicizie celebri, come quella di Francesco d’Assisi e di Chiara, o ancora quella di Sant’Agostino e di Alipio, durata una quarantina d’anni. Anche gli scritti di Agostino sull’amicizia sono istruttivi.
Alla fine del suo studio sulla Città di Dio, Agostino scrisse questa riflessione interessante: “Che cosa ci consola in questa società umana, sovraccarica di errori e di tormenti, se non la fede sincera e l’affetto reciproco di veri e buoni amici?”
I contatti amicali abbelliscono, infatti, il nostro percorso umano. Se se ne hanno veramente troppo pochi, il modo di aumentarli è semplice: uscire da casa propria, iscriversi a club culturali, sportivi, proporre i propri servizi ad associazioni di volontariato.
Tuttavia una sola amicizia autentica può bastare a rendere la vita molto gradevole.
* (Leggere anche, qui sotto, alla fine del paragrafo sul coniuge le osservazioni interessanti provenienti dai gruppi di lavoro, sulle diverse espressioni riguardanti l’amicizia e l’amore)
Con il proprio figlio
* Genitori che mettono al mondo, in maniera inattesa, un figlio gravemente handicappato (io sono il loro cappellano nel mio paese) devono fare una seria ristrutturazione: mettere da parte il figlio naturalmente sognato da dei genitori e accogliere quello che dovranno imboccare per tutta la loro vita (o affidarlo a un istituto).
In modo simile, genitori che apprendono l’omo-affettività dei loro figli, si confrontano con il loro immaginario, seguendo l’idea, ancora spesso negativa, che si fanno dell’omosessualità.
Si trovano anche impreparati sulle possibilità, tuttavia reali secondo i paesi, di una eventuale prole. La positività o la negatività di questa reazione può liberare il loro figlio o, al contrario, addolorarlo.
Ma la cosa più importante è essere felici di avere un figlio, ragazza o ragazzo, con tutta la ricchezza della sua personalità interessante fra cui senza dubbio, come in molti gay/lesbiche, una sensibilità e una delicatezza superiori alla media.
Essere felici anche dei legami che potranno stabilirsi con questo figlio, questa figlia. Amare il proprio figlio non è per niente legato al fatto che si sarà nonno o nonna!
* Si diventa genitori, con il tempo. Aspettando, un figlio, una figlia omosessuale dovrà vivere con le reazioni inadeguate della propria famiglia.
Dovrà gestire questa eventuale lacuna. Ho sempre ammirato tutti quelli e quelle che hanno dovuto soffrirne ed uscirne.
Per fortuna, sempre più genitori entrano progressivamente in una dinamica di accoglienza. Così, conservo una profonda ammirazione per quella madre, modello, che ha reagito all’annuncio di suo figlio, piangendo nella stanza vicina alcuni istanti, prima di tornare da lui dicendo: “Spero che tu non abbia sofferto troppo finora!”
Uno spirito d’accoglienza che rende più umano ciascuno
Secondo tre principi che la realtà delle relazioni umane ci propone, il nostro cuore può crescere in accoglienza e in solidarietà.
* In profondità, ogni genitore ed ogni essere umano dovrebbe accettare di non dominare tutto della vita del proprio figlio o di un altro, cioè di non potere fare tutto per lui. È alla fine accettare la finitezza, i limiti della nostra umanità.
Di più, si tratta di riconoscere che ogni altro, fra cui il figlio, ci sfugge in un modo o nell’altro, il che porta ad accettare una certa solitudine inevitabile.
Questo fa paura, ma agire così libera l’altro dalle nostre attese e dalle nostre proiezioni. Viene infine il momento di fare un ultimo passo.
Invece di pensare: “Dopo tutto quello che ho fatto per lui, ecco ciò che mi fa!”, si tratta di fare propria questa verità esigente: niente ci è dovuto nella vita, ossia ciò che porta a vivere con una qualche incertezza sulle reazioni d’altri, sulla loro gratitudine o sulla loro ingratitudine.
Questa rinuncia progressiva alla nostra volontà di onnipotenza è il prezzo da pagare per vivere l’accoglienza perfetta in ogni relazione.
L’annuncio alla famiglia
* Per una persona omosessuale già assillata in sé stessa tra accettare o reprimere questa tendenza, l’annuncio alla famiglia resta un momento difficile. Lo è meno di 50 anni fa quando l’omosessualità era mal conosciuta ed assimilata a deviazioni morali.
Nelle famiglie musulmane impiantate in Occidente, resta tabù, ad imitazione dei paesi d’origine dove è assimilabile ad una perversione punibile!Nei miei gruppi di ascolto, alcuni di una cinquantina d’anni confessano di non aver compiuto questa strada d’annuncio. Ne soffrono.
Infatti, sapersi omosessuale, e in presenza della famiglia ristretta, dover fare come non lo si fosse, equivale a non vivere veramente come si è.Ciascuno di noi prova la necessità di un certo riconoscimento della propria identità, compresa l’omo-affettiva, per quanto è possibile, perché è meglio o era meglio non parlarne che creare tensioni gravi, incomprensioni dolorose.
Il criterio ultimo non è evidentemente l’annuncio, ma la carità: dunque conservare legami positivi, senza un annuncio, spesso tardivo, piuttosto che vivere un disaccordo. (Grazie ai membri di Devenir Un En Christ che hanno presentato questi accenni).
* I giovani d’oggi rischiano di essere meno tolleranti su questo annuncio possibile: “Se i genitori non sono pronti ad accogliermi come sono, taglio la corda o mi uccido!”
È tuttavia possibile arrivarci, anche tardivamente, facendosi aiutare da una persona vicina ai genitori (un fratello, una sorella, un loro amico) o da associazioni di gay e lesbiche che possono instaurare dei ponti di dialogo.
* Quanto all’annuncio di questa caratteristica alla famiglia allargata, condivido la riserva espressa da Padre Xavier Thévenot “Non vedo – scrive – in nome di cosa la zia Ursula avrebbe il diritto di conoscere l’orientamento sessuale di ciascuno dei suoi nipoti.”
Si può aggiungere che procedendo per tappe successive e con un dialogo appropriato, è bellissimo condividere la notizia con l’ambiente familiare diretto. Talvolta, ciò si realizza del tutto naturalmente, senza intervento particolare.
A proposito del coniuge
Dato che le relazioni di Michel Samolard affrontano largamente questo argomento, mi limito ad alcune riflessioni complementari.
* Quando una coppia di gay o di lesbiche si forma, l’annuncio di questo avvenimento, alla famiglia e ai parenti, diventa vitale. Infatti, pretendere di farne a meno o fare come se i giudizi e gli sguardi non esistessero, è amputare la propria relazione amorosa di una parte della realtà, perché essa si inscrive in una rete umana. Il fatto di fuggire la rivelazione o di nasconderla mostra bene che resta presente nella relazione amorosa stessa.
Nella realtà, questa non rivelazione (per degli omosessuali, come per degli eterosessuali) causa sofferenza. Di chi la colpa? Questo è un altro problema. Il risultato è che alcuni(e) devono accettare consapevolmente questa situazione. Incidere, se possibile, questo ascesso, è spesso salutare.
* A questo riguardo e su altri, due grandi mezzi sono alla nostra portata per renderci più umani, diventare più unificati, e secondo il nostro rapporto con il Signore “diventare uno nel Cristo”. Da una parte, domandando a qualcuno di competente di riflettere su ciò che fa soffrire.
Dall’altra parte, affidando realmente le nostre pene al Signore. È passato lui stesso attraverso la prova, attraverso lo sconforto e la tristezza, l’esclusione e le incomprensioni. Nella preghiera, ci guadagniamo sempre ad affidargli i nostri fardelli.
* La grande sfida della coppia resta l’incontro affettivo dell’altro, l’accettazione delle differenze che disturbano o feriscono. Si crede di aver fatto coppia con un arancio e si è sorpresi di vederlo produrre ciliegie! Una reale distanza appare progressivamente tra l’attesa affettiva che ci anima e il contributo effettivo che riceviamo.
Bisogna tagliare certi rami dell’arancio o lasciarlo? O piuttosto, del tutto semplicemente, rimettere ordine nei nostri desideri e arrischiare delle messe a punto sotto forma di negoziazione per un vivere insieme armonioso!
* Non confondiamo neanche il fascino iniziale (che si spiega con la novità e il desiderio fisico) e la simpatia profonda e solida che è tessuta di stima e di una facilità di contatto. È anche indicato riesaminare di nuovo, dopo qualche tempo, la situazione delle qualità dell’altro, talvolta nascoste da irritazioni secondarie. Rifare l’accordo con lo stesso coniuge è una buona idea.
* Nei rapporti amicali, come fissare certi limiti tra amicizia e amore? (Grazie anche a quelli che hanno riflettuto nel week-end su questa questione e specialmente a Marcel che ha ben collocato le poste in gioco in due frasi che qui vedete). Dire a qualcuno “Ti amo” è una parola creatrice e rivelatrice d’amore. Mentre dire a un amico: “Ti voglio bene” non ipoteca una relazione amorosa.
Nella società fra cui la Chiesa
* Cittadino di un paese, il Belgio, dove le organizzazioni omosessuali hanno ottenuto il diritto al matrimonio civile e all’adozione, lavoro nel rispetto di queste leggi. Tuttavia, chiedo al momento di ogni benedizione di coppia gay o lesbica che si sostituisca la parola matrimonio usato in comune (municipio) con i termini alleanza o unione, al fine di distinguere le due realtà, il che non pone nessun problema.
E quando dei cristiani omosessuali mi chiedono di battezzare il loro figlio, sono felice di preparare e di celebrare questo avvenimento. Il mio riferimento principale in questo apostolato si fonda su questa domanda: “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”
* La posta in gioco comunitaria si trova altrove, nello sguardo della società, della gente, sull’omosessualità, e dunque sulle persone coinvolte. Per partecipare a questo dibattito con le nostre convinzioni, non possiamo restare bene al caldo nelle nostre sacrestie, nelle nostre chiese o tra noi.
Mi sembra importante che i cristiani frequentino l’ambito civile, compreso quello degli oppositori, al fine di fare conoscere, in un clima di solidarietà, le loro posizioni evangeliche, spesso ignorate, dialogando sui nostri punti di vista rispettivi tra cui quelli che ci sono comuni: un migliore rispetto delle persone coinvolte.
* Anche in seno alla Chiesa, è stato il caso di prendere la parola e di prendere posizione. Certo, si è superata l’epoca di un rifiuto sicuro che John McNeill, un ex gesuita americano, ha denunciato nel 1988 nel suo celebre libro “Gli esclusi della Chiesa”.
Prima, passi importanti erano tuttavia stati già compiuti da don Marc Oraison e da diversi scritti del Padre salesiano Xavier Thévenot. Resta ancora della strada da fare per capire meglio la mentalità degli autori biblici, e di conseguenza, per pronunciare parole di rispetto e d’accompagnamento spirituale.
Ciascuno di noi è invitato a prolungare questa missione d’apertura evangelica. È uno dei grandi meriti di Devenir Un en Christ (l’Associazione dei cattolici omosessuali francesi) viverla in seno alla Chiesa cattolica e alla vita sociale.
* Al di là della Chiesa, bisogna sempre risalire agli atti e alle parole di Gesù che accoglieva ciascuno/ciascuna, qualunque fossero le differenze. Un atteggiamento liberatore che San Paolo ha riassunto terminando la sua celebre lode dell’amore di Dio con questa frase
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. (Rm 8,31-39)
Testo originale: Le relationnel dans l’affectivité et l’homo-affectivité