Omosessuali (e non solo), la castità e la via della pastorale dell’accoglienza
Lettera con risposta di Luciano Moia pubblicata sul giornale Avvenire il 14 settembre 2019, pag.2
Una lettera offre (su Avvenire) una nuova occasione di riflessione e dialogo sulla questione del formarsi degli “orientamenti”, riportata alla ribalta dalla ricerca coordinata dal genetista Ganna e approfondita in tre interviste su Avvenire, e sul modo cristiano di vivere la dimensione sessuale.
Caro direttore capisco e condivido le ragioni pastorali che por- tano il nostro giornale a dare spazio a studi e riflessioni sul “mistero” del formarsi degli orientamenti sessuali e ad aiutarci ad affrontare con apertura di cuore l’attuale dilagare di relazioni omosessuali, astenendosi da valutazioni morali sulle persone che ne possano ostacolare l’incontro con la grazia di Cristo.
Non condivido invece la tendenza a “irridere” – quasi fosse “contro natura” – l’indicazione dell’ideale del- l’astinenza dai rapporti sessuali. Si afferma infatti che l’astinenza sarebbe un “pesante fardello” che solo i religiosi si autoimpongono per uno strano ideale “ascetico”, ma non si può proporre ad altri. Mi sembra di veder passare in alcuni interventi non l’attenzione vera a tutte le persone concrete, richiesta anche da Amoris laetitia, ma una resa ideologica alla mentalità dominante della “obbligatorietà dell’azione sessuale” e del conseguente “diritto” privo di qualunque limite.
Nella mia esperienza di sposato da 36 anni ho sempre vissuto la proposta alla mia libertà dell’astinenza pre-matrimoniale e la frequente astinenza nell’ambito della vita matrimoniale – per mille motivi inclusa la paternità responsabile – come una faticosa grazia per la verità mia e del rapporto con mia moglie e non come una “trappola etica”. E soprattutto ho sempre pensa- to all’importanza che hanno nel disegno di Dio quel- la schiera di persone che sono costrette dalle circo- stanze (malattie, disabilità, solitudine, lavoro, emigrazione, ecc) a vivere l’astinenza da rapporti sessuali e testimoniano con semplicità la grandezza del dono della vita. Ma su queste cose vale il “chi può capire capisca”. Cordiali saluti. Roberto Ceresoli
La risposta…
Il problema che lei solleva, gentile amico, è di grande rilevanza. Per questo il direttore mi affida la sua lettera e mi offre la possibilità di riprendere alcuni spunti della complessa questione legata al problema dell’orientamento sessuale in rapporto al corredo genetico. Nelle tre interviste che abbiamo pubblicato per approfondire la ricerca, gli esperti ascoltati – il genetista Andrea Ganna, proprio colui che ha coordinato lo studio negli Usa, il neuroscienziato Pietro Pietrini e il teologo e medico endocrinologo Maurizio Faggioni – hanno espresso pareri sostanzialmente concordanti: l’orientamento sessuale è frutto di un complesso mix di fattori, la genetica potrebbe pesare al massimo per il 25%. Il resto lo fanno equilibri ormonali, imprinting neuropsichici, ambiente, cultura, esperienze. Nessuno comunque sceglie il proprio orientamento. Non a caso, già 26 anni fa, il Catechismo parlava di tendenze “profondamente radicate”.
Oggi gli esperti parlano di struttura profonda della personalità. Padre Faggioni, da moralista di grande esperienza, ha innestato nel dibattito scientifico sulle origini dell’omosessualità, il problema etico. Se la spinta omoerotica non è il risultato di una scelta ma la precede, come valutare la responsabilità morale della persona in rapporto alla sua situazione concreta e alla difficoltà di misurare la qualità umana di questa relazione? Nessuna conclusione azzardata. Rimane un grande nodo e, per quanto riguarda la dottrina, vale sempre la richiesta dell’astensione totale e permanente dai rapporti sessuali. Richiesta così impegnativa che lo stesso Catechismo indica agli omosessuali come esempio la sequela di Cristo, cioè l’unione alla croce del Signore. Traguardo che nessuno può considerare in modo banale.
Non si tratta quindi di “irridere” l’astinenza dai rapporti sessuali e il prezioso senso cristiano della castità – nelle interviste non c’è alcuna traccia di questa deriva – ma di prendere consapevolezza di una difficoltà oggettiva che, per le persone credenti, può essere affrontata solo con una se- ria disciplina spirituale. Tanto più complessa quando non c’è un preciso atto di volontà, cioè una scelta religiosa o celibataria. Ma non è tutto. Sullo sfondo rimane il grande problema dell’accoglienza pastorale della persona omosessuale “che cerca Dio”.
Amoris laetitia – che anche lei opportunamente cita – ribadisce la necessità del rispetto, mostrando grande sensibilità anche per le famiglie d’origine, spesso attraversate da tensioni laceranti. Ma se questo rispetto si manifesta soltanto per ricordare i “divieti” del catechismo? Un’accoglienza della persona, ma non alla sua condizione concreta, che la scienza ci dice profondamente radicata, va davvero nel senso di quell’integrazione indicata proprio dall’Esortazione postsinodale e dal Papa stesso in tante altre occasioni? Nessuno ha ricette pronte all’uso, anche se più d’uno ne vorrebbe in un senso o nell’altro. E nessuno vuole offrire giudizi predeterminati. La Chiesa tutta è impegnata in un lungo e difficile percorso.
Occorre riflettere, pregare e ascoltare per davvero quanto ci dice Francesco: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, ”non rinuncia al bene possibile, ben- ché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”» (AL 308).
Luciano Moia, Caporedattore responsabile di “Noi Famiglia e Vita”, supplemento di Avvenire