Il triangolo rosa, simbolo inadeguato dell’orgoglio gay
Articolo di R. Amy Elman* apparso sul Journal of Homosexuality, volume 30, No. 3, 1-11, anno 1996, e ripubblicato sul sito Remember.org (Stati Uniti), liberamente tradotto da Virginia Campolongo
Mi sono ritrovata davanti a un negozio di t-shirt nel cuore del Greenwich Village, a New York, e lì, appesa nella vetrina, c’era una maglietta bianca con sopra il disegno di un albero. All’interno dell’albero vi era un triangolo rosa che penzolava come una foglia da un ramo e, sotto all’immagine, il designer ha scritto: “L’ albero genealogico finisce qui”.
Questo particolare tentativo di dare comicamente un’alternativa all’eterosessualità convenzionale mi ha tragicamente impressionato, quasi come il nazista Heinrich Himmler, l’omofobo più estremista a capo delle SS, il quale affermò “Dobbiamo annientare queste persone dalla testa ai piedi… Gli omosessuali devono essere eliminati” (Plant, 1986, p.99). Evidentemente ignaro del fatto che gay (e lesbiche) possano procreare attraverso la ben conosciuta pratica dei rapporti sessuali, Himmler definì l’uomo omosessuale come “traditore della patria”, e che quindi dovesse essere “estirpato” a causa della sua incapacità di riprodursi. È così che la consapevolezza dell’Olocausto svanisce. L’amnesia cela la ripugnante ironia delle facezie contemporanee.
Inizialmente adottato dagli Americani gay agli inizi degli anni ’70, dopo le rivolte di Stonewall del 1969, il triangolo rosa viene attualmente utilizzato, a livello internazionale, come simbolo della liberazione e dell’orgoglio gay e lesbico (1). Questo articolo ha lo scopo di analizzare in profondità la storia legata a tale simbolo, e svolge un’argomentazione contro il suo uso come affermazione dell’identità gay in generale, e di quella lesbica in particolare.
Poiché il triangolo rosa capovolto era usato come simbolo distintivo dell’eterosessismo nazista, che voleva la distruzione, anche rapida, dei gay, sostengo dunque che venga abbandonato come emblema positivo del movimento. Come tutti i simboli nazisti, questo triangolo è impenitente. Inoltre, il solo fatto di adottare il triangolo rosa da parte delle lesbiche va a nascondere tutte quelle lotte che le stesse lesbiche hanno dovuto affrontare per affermarsi. Non solo, tale adozione porterebbe a confondere le lesbiche con i gay, mistificando così la loro esistenza e la loro storia durante l’Olocausto.
Come Julia Penelope osserva: “La nostra invisibilità, anche per noi stesse, è, almeno in piccola parte, dovuta al fatto che la nostra identità viene suddivisa in due gruppi: donne e uomini gay” (1992, p.48). Di conseguenza, le verità sulla storia, e anche sul presente, del lesbismo vengono spesso disperse, perché lo stesso saffismo viene rappresentato come socialmente impensabile (Frye, 1983; Hoagland, 1988; Raymond, 1986, 1989; Robson, 1992). Tale condizione viene inasprita dalla neutralità di genere del “crogiolo queer” (Miriam, 1993). Le lesbiche hanno perso la loro autonomia (ad esempio, la loro “nazione lesbica”) e, non a caso, il simbolo distintivo del loro orgoglio: il simbolo con due donne di colore viola è, ormai, quasi estinto.
È sconveniente che le ragazze e le donne, a lungo rimproverate a causa degli identificatori forzati rosa, siano ora, come lesbiche, convinte che un triangolo rosa sia simbolo della ribellione di genere. L’incapacità di riuscire ad accettare questa situazione contribuisce ad una sempre crescente impossibilità di distinguere tutte quelle associazioni e strategie che aumentano l’integrità visibile da quelle che tentano di distruggerla.
TRIANGOLO ROSA: IDENTITÀ GAY
Il Terzo Reich ha utilizzato una miriade di triangoli colorati per identificare i vari gruppi di persone rinchiuse nei campi di concentramento (2). I colori erano: rosso per i dissidenti politici, verde per i criminali, viola per i Testimoni di Geova, blu per gli emigranti, marrone per gli zingari, nero per le lesbiche e per persone considerate “anti-sociali”, e rosa per i gay. I triangoli rosa simboleggiavano la femminilità di quel gruppo di detenuti, la cui mascolinità, nell’ottica dell’eterosessismo nazista, veniva sminuita. Inoltre, questi triangoli erano generalmente più grandi rispetto agli altri, in quanto lo scopo dei nazisti era quello di rendere più visibili tutti gli omosessuali (Rector, 1981). Al contrario, gli Ebrei venivano identificati dalla stella gialla a sei punte di David, sulle quali era incisa la parola “Ebreo” (3).
I triangoli rosa identificavano le migliaia di uomini omosessuali che erano stati mandati nei campi di concentramento sotto la scritta “175”. Tale numero si riferisce al paragrafo del Codice Penale, adottato nel 1871, in cui si considerava criminosa l’omosessualità maschile. Questa legge venne poi estesa, nel 1935, fino a includere qualsiasi atteggiamento indecente tra due uomini; tale “indecenza” consisteva in un “piccolo bacio o in un abbraccio, oppure un romanzo con contenuti omosessuali” e, per questo crimine, il “criminale” doveva scontare sei mesi in prigione (Fernbach, 1980, p.11).
Dopo il 1936, i gay furono deportati nei campi di concentramento e, dato che non venivano mai mandati in gruppo, proprio perché omosessuali, pochi di loro sono sopravvissuti (5). Ancora, la persecuzione dei gay non è mai stata “sistematica e in blocco” (Oosterhuis, 1991, p.248). A differenza degli Ebrei, la cui affiliazione religiosa era ordinariamente messa per iscritto nei certificati di nascita, o come le persone di sinistra, le cui simpatie politiche erano stabilite dalle liste del partito, i gay non erano facilmente identificabili. Soprattutto, “gli uomini omosessuali erano l’unico gruppo… che non venne selezionato immediatamente per lo sterminio nei territori conquistati dai nazisti…” (Plant, 1986, p.100), questo perché Himmler era convinto che “l’omosessualità tra queste persone le avrebbe portate più velocemente alla fine” (Plant, 1986, p.99). Dunque, i gay non-tedeschi non erano puniti come quelli tedeschi. In verità, durante i Giochi Olimpici del 1936 , venne permesso ad alcuni bar gay di Berlino di riaprire, e alla polizia venne ordinato di non infastidire i turisti gay (Plant, 1986, p.110; Rector, 1981).
La reazione del regime non fu priva di complicazioni. Nonostante l’omosessualità tra uomini fosse fermamente denunciata, ed i gay, quando scoperti, ne pagassero il prezzo con la loro stessa vita, l’omoerotismo era alla base del “cameratismo maschile” nelle organizzazioni paramilitari del Reich, composte unicamente da maschi (ad esempio, le camicie marroni delle SA, le Sturmabteilungen [le truppe d’assalto], la Gioventù Hitleriana, e anche l’élite delle uniformi nere delle SS, le Schtutzstaffeln [le squadre di protezione] (6). Quando le voci sugli evidenti atteggiamenti omosessuali all’interno delle SA raggiunsero l’orecchio di Hitler, lui affermò che la vita privata degli ufficiali non poteva “essere oggetto di specifiche indagini, a meno che questa non entri in contraddizione con i princìpi alla base dell’ideologia nazionalsocialista” (Plant, 1986, p.61).
Ma solo quando le SA si mostrarono indisciplinate, Hitler ordinò sia l’omicidio del capo omosessuale delle SA, Ernst Röhm, sia l’espulsione di qualsiasi gay dalle SA e dal partito nazista. Tuttavia, l’omoerotismo continuò ad essere l’elemento caratterizzante della propaganda nazionalista che alimentava il movimento (Theweleit, 1987): “Alcuni artisti gay approfittarono della protezione dei gerarchi nazisti” (Oosterheuis, 1991, p.248). Per giunta, anche il rapporto tra Hitler ed i suoi stretti collaboratori era intriso di elementi omoerotici, infatti Hermann Göring, a riguardo, (una volta) disse “Ogni volta che me lo trovo [Hitler] di fronte, il mio cuore finisce nei miei pantaloni” (Leidholdt, 1983, p.21). Durante tutto il dominio del Terzo Reich, vi fu questa contraddizione, poiché da una parte vi furono uomini omosessuali che vivevano indisturbati in Germania, mentre dall’altra ve ne furono migliaia che morirono nei campi di concentramento.
I nazisti non consideravano unanimemente i gay come una degenerazione biologica. Molti, infatti, ritenevano che l’omosessualità fosse una contagiosa malattia sociale, ma comunque curabile, Invero, appena il 2% di coloro che erano colpevoli di essere gay venivano classificati come “incorreggibili”; per gli altri invece, la “ri-educazione” poteva garantire una possibile guarigione (Osterhuis, 1991, p.249).
Heinz Heger, mandato prima al campo di concentramento di Sachsenhausen, e poi a quello di Flossenberg, ha spiegato che lì si credeva che “chi aveva il triangolo rosa avrebbe potuto essere ‘curato’ dalla sua omosessualita, attraverso visite obbligatorie e regolari al bordello” (1980, p.96). In quei luoghi, le donne zingare ed ebree erano costrette a prostituirsi dai nazisti, e proprio questi giudicavano se gli uomini chiamati “175” fossero guariti. Le castrazioni e le iniezioni di testosterone venivano praticate per “guarire” i gay e convertirli all’eterosessualità (Heger, 1980; Plant, 1986).
TRIANGOLI NERI: L’OCCULTAZIONE DEL LESBISMO
Il fatto che il triangolo rosa sia considerato un simbolo di liberazione per i gay e le lesbiche è inquietante, perché quella immagine veniva indossata da coloro che i nazisti additavano come gay (7). A differenza loro, “tutte le lesbiche godevano di una certa immunità legale” (Plant, 1986, p.27), ma questo non era dovuto all’accettazione del lesbsmo, anzi le relazioni tra donne non venivano per nulla tollerate, tanto che l’esistenza delle lesbiche veniva clamorosamente negata.
Successivamente, nel 1910, furono prese in considerazione delle misure per criminalizzare queste donne, ma poi furono immediatamente abbandonate, in quanto l’opposizione femminista fu efficace a livello politico (Faderman & Eriksson, 1990, p. xv; Steakley, 1975, p. 42) (8). Di conseguenza, il paragrafo 175 non venne esteso alle lesbiche; eppure, come vi è scritto più in fondo, una società maschilista dovrebbe trovare “mezzi molto più adeguati per sopprimere qualsiasi tipo di indipendenza femminile” (Fernbach, 1980, p. 10) (9).
Il modo migliore per rendere le lesbiche sempre meno potenti era quello di troncare le loro relazioni con altre donne. Con l’ascesa del nazismo, i luoghi d’incontro per lesbiche furono soggette ad incursioni (della polizia), e la loro visibilità venne oscurata (Faderman & Eriksson, 1990, p. xx) (10). “Le lesbiche”, ha scritto Irene Reti, “facevano parte di quel gruppo di donne rinchiuse nei campi come asociali, e considerate una minaccia dalla società tedesca già prima del 1939” (1993, p. 95) (11). Tutte le persone giudicate asociali venivano identificate con triangoli neri capovolti, ed i/le detenuti/e che li indossavano erano “considerati/e stupide, incapaci a comunicare, prive di coraggio nel difendere un fratello [sic]” (Plant, 1986, p. 160). Le SS le disprezzavano, in quanto “il colore dei loro triangoli era un insulto alle loro uniformi nere” (Plant, 1986, p. 10).
È politicamente significativo ricordare che il gruppo degli asociali non includeva solamente le lesbiche, ma era un gruppo variegato, che includeva prostitute, vagabondi, assassini, ladri, e tutti coloro che infrangevano le leggi per le quali erano proibiti i rapporti sessuali tra ariani ed ebrei. Proprio perché il gruppo degli asociali era tanto eterogeneo, le lesbiche non venivano riconosciute subito come i gay, il cui contrassegno rosa indicava il loro orientamento sessuale. Rendere oggi il triangolo rosa un simbolo universale, significherebbe rendere invisibili le lesbiche, come è successo in passato con i triangoli neri. Non capire questo concetto porterebbe all’oblìo diversi aspetti fondamentali della storia del fascismo.
Persino nel Museo della Memoria sull’Olocausto, a Washington D.C., costruito recentemente, è quasi impossibile trovare informazioni esatte sulle lesbiche (12). L’Enciclopedia dell’Olocausto è accessibile tramite i computer in un’area specifica del museo, e se si fanno delle ricerche utilizzando specificatamente la parola “lesbica”, usciranno risultati che riguardano solamente gli uomini omosessuali. Sia il triangolo rosa che il paragrafo 175 appaiono sullo schermo, inducendo a pensare che essi si riferiscano anche alle lesbiche. In un periodo storico in cui coloro che rinnegano l’Olocausto si approfittano di qualsiasi errore per andare ad attaccare tutti gli studi sull’argomento fatti fino ad ora, bisogna fare ancor più attenzione ai fatti.
Molte lesbiche, nel tentativo di rispettare la storia, indossano i triangoli neri, e ciò è comprensibile poiché, avendo il desiderio di rispettare la precisione storica, è giusto che vogliano mostrare di essere discendenti delle donne marcate dai triangoli neri, e non dagli uomini col triangolo rosa. Tuttavia, questa è una soluzione non soddisfacente, perché l’idea di accuratezza storica è legata inestricabilmente ad una domanda etica, troppo spesso trascurata, a cui è impossibile dare una risposta, ed è la seguente: Non è immorale che un simbolo, utilizzato per indicare un gruppo di persone ed il loro sterminio, venga usato come un emblema della liberazione? Inoltre, come possono sentirsi i sopravvissuti a tali persecuzioni nel vedere nuovamente quel simbolo tanto orrendo per loro?
Mentre i giovani gay e le giovani lesbiche possono avere il lusso di indossare e togliere questi simboli di odio, coloro che sono sopravvissuti ai campi di sterminio non possono cancellare i numeri tatuati sulla loro pelle, che divengono in questo modo permanenti e dolorosi, come quei tremendi ricordi che si portano dietro e che non potranno mai essere cancellati.
LA STELLA GIALLA E LA COMUNITÀ EBRAICA
La comunità ebraica si rifiuta di indossare stelle gialle, non perché l’antisemitismo sia scomparso (13), ma perché, giustamente, viene rifiutato qualsiasi tipo di emblema ed etichetta antisemita. La comunità è consapevole delle politiche dei simboli. Nelle prime fasi della politica antisemita, i nazisti insistevano molto sull’annullamento dell’assimilazione; mentre i sionisti sostenevano che gli ebrei dovessero combattere l’antisemitismo mostrando “orgogliosamente il loro essere ebrei” (Dawidowicz, 1986, p. 176).
In risposta alla prima interdizione delle attività ebree, il 1 Aprile 1933, conosciuto come il boicottaggio nazista del commercio ebraico, i sionisti hanno sostenuto che gli ebrei “indossassero con orgoglio” la stella gialla (14). Questa affermazione, fatta da Robert Weltsch, editore di un giornale ebraico, divenne uno degli slogan più conosciuti a quel tempo, “più di sei anni prima che i nazisti obbligassero gli ebrei ad indossare il simbolo” (Arendt, 1977, p. 59). Tale slogan venne utilizzato specificamente contro gli assimilazionisti, accusati dai sionisti di aver tradito la comunità ebraica (15).
Col senno di poi, Weltsch ha affermato che “non avrebbe mai ideato quello slogan se avesse saputo cosa sarebbe accaduto” (Arendt, 1977, p.59). Ironicamente, questo famoso personaggio contribuì ad agevolare la residenza forzata ed i movimenti a favore delle restrizioni verso gli ebrei, il che indusse la polizia ad aumentare le misure di controllo, che permettevano di tenere in stato di fermo, ovunque, qualsiasi ebreo in qualsiasi momento. Inoltre, “l’identificazione ebbe un effetto paralizzante” nella comunità ebraica poiché, essendo costantemente sotto esame ed identificazione, gli ebrei divennero, rispetto a prima, molto più mansueti e sensibili agli ordini dei nazisti. Questa, secondo lo studioso dell’Olocausto Raul Hilberg, è stata la conseguenza più grave a cui ha portato la stella gialla (1961, p.121).
LE POLITICHE DELLA RIVENDICAZIONE
È assurdo che coloro che cercano di conseguire la libertà si concentrino sul passato e sostengano che il simbolo nazista possa essere usato con orgoglio per arrivare alla libertà. Nessun gruppo sopravvissuto ai campi di concentramento, tranne gli uomini omosessuali, ha mai orgogliosamente rivendicato l’uso di quel simbolo, che ha significato la morte per loro. Ma, a differenza di qualsiasi altro gruppo perseguitato, la richiesta dei gay di essere commemorati quali vittime del nazismo è stata ignorata (Heger, 1980, pp. 114-115; Rector, 1981, pp.139-141), e questo non è avvenuto perché gli storici mettono in discussione il loro essere stati vittime, “ma perché a molti sembra non importare” (Rector, 1981, p.123). Sebbene il rifiuto di riconoscere la tirannia dei nazisti verso gli omosessuali sia imperdonabile, adottare i simboli di tale persecuzione può trovare appoggio solo in coloro che ignorano il passato. Senza dubbio, utilizzare tale segno potrebbe avere la conseguenza, non voluta, di nascondere la consapevolezza dell’Olocausto, e non di promuoverla (16).
La studiosa e filosofa femminista Joan Ringelheim si chiede: “Come possiamo rivendicare cosÏ allegramente e considerare giusta una cosa che ha provocato un’oppressione di tali dimensioni, senza nemmeno fare un’indagine accurata sui nostri motivi e sulle nostre politiche?”; inoltre, afferma anche che l’uso di parole dispregiative, quale ‘kike’ e ‘faggot’ (parole inglesi riferite ad ebrei ed omosessuali), dimostrano come tutti quei tentativi di rivendicazione non potranno realizzarsi “finché le parole usate dagli oppressori continueranno ad essere cariche di negatività” (Ringelheim, 1993, p.386).
Allo stesso modo, sostengo che il nuovo triangolo “trasformato” (rosa o nero) non possa essere modificato attraverso la “rivendicazione”: tale concetto è sbagliato, poiché questi triangoli modificati non sono mai appartenuti a coloro che li hanno dovuti indossare. Per di più, il fatto di usarli come simboli di orgoglio significherebbe implicitamente rinnegare il crudele significato che celano; di conseguenza, indossare tali simboli nazisti può essere visto come una forma di revisionismo.
A questo punto, perché non adottare i simboli della vita e dell’amore, al posto di quelli del sadismo e della distruzione? Perché il colore della ribellione è diventato il rosa, e non il viola? E perché non adottare simboli con due uomini o due donne?
La risposta, in parte, potrebbe essere l’ignoranza storica, ma potrebbe anche essere l’eterosessismo interiorizzato; la propensione ad abbracciare proprio quei simboli collegati alla distruzione (e alla morte) riflette un’enorme quantità di odio e disprezzo di sé. In un periodo storico di AIDS e revisionismo, è spaventosamente fortuito che i simboli con cui attualmente ci si identifica provengano da un periodo di morte e totalitarismo. Non è possibile sradicare i triangoli dal loro utilizzo nei campi di sterminio, dove, come disse un sopravvissuto, “l’amore divenne un’emozione immorale per gli schiavi, ed un divertimento sadico per i sorveglianti” (Lengyel, 1993, p.129).
Una persona non può eliminare efficacemente l’oppressione imitandone il linguaggio, le azioni, i simboli dell’oppressore. Per evitare la “valorizzazione dell’oppressore” (Ringelheim, 1993), dobbiamo trovare un nostro linguaggio, dei nostri spazi e dei nostri simboli, e dobbiamo fare tutto ciò se vogliamo un futuro notevolmente diverso dal passato. Nel “rinconfezionare” gli spietati emblemi del nazismo, non trascendiamo i criteri da loro stabiliti; ci inganniamo perché convinti di averne il controllo, ce ne compiacciamo e, forse, diventiamo complici della nostra rovina.
NOTE
1) In una cultura che “americanizza” la storia, sessualizza il dominio ed è innegabilmente imperialistica, tutto ciò non dovrebbe stupire. Per un’analisi approfondita sull’americanizzazione dell’Olocausto, consiglio la lettura dell’articolo di Paul Gourevitch (1993) sul Museo Nazionale della Memoria dell’Olocausto, poiché contiene molte informazioni importanti, tra cui la somiglianza tra particolari esibizioni ed i peep-show (locali attrezzati per consentire la visione di nudi femminili dal vivo).
2) Per gli Ebrei, il triangolo era un simbolo di verità (Cirlot, 1962, p.223). Nel simbolismo cosmico e geometrico il triangolo simboleggia il collegamento tra Terra e Paradiso (Cirlot, 1962, p.16). Nell’alfabeto sacro greco, i triangoli rappresentano la vulva della “Madre Delta” (Walkner, 1983, p.1016). È comprensibile, conoscendo il disprezzo che i nazisti nutrivano verso la verità, verso gli Ebrei e verso tutto ciò che fosse femminile, che il Terzo Reich abbia usato il triangolo capovolto per denigrare tutti coloro a cui ha imposto di indossarlo.
3) Gli uomini omosessuali ebrei erano costretti ad indossare un triangolo giallo sotto quello rosa, ed è dall’unione di questi che è nata la stella di David. In più, gli ebrei comunisti indossavano il triangolo giallo sotto quello rosso, e così via (Rector, 1981, pp.131-132).
4) Harry Oosterhuis rimarca come i ricercatori tedeschi abbiano stimato che, nei campi di concentramento, siano morti tra i 5.000 e i 15.000 gay (e non sono stati inclusi coloro che sono stati internati e poi liberati).
5) Per uno dei pochi resoconti sul tema, consiglio la lettura di “The Man with the Pink Triangle” (1980) di Heger.
6) Le SA erano l’organizzazione paramilitare di massa di Hitler, che si rivelarono particolarmente importanti prima della sua [di Hitler] presa del potere. Vennero create per proteggere le adunate dei nazisti, per fare opposizione ai partiti politici rivali (spesso tramite risse in strada), e diffondere la propaganda. Le SS erano, invece, piuttosto elitarie ed erano forze armate che gestivano i campi di concentramento.
7) Il Centro Simon Wiesenthal per gli Studi sull’Olocausto di Los Angeles riporta che: “Uno dei più grandi problemi del trattamento degli omosessuali da parte dei nazisti è stata la mancanza di documenti autentici sull’argomento” (Rector, 1981, p.108). Per quanto i documenti sui gay nei campi di sterminio fossero pochi, non ce ne sono per niente sulle lesbiche; infatti, mentre Heinz Heger ci fornisce un prezioso memoriale sulla sopravvivenza dei gay (1980), sulle lesbiche non esiste nulla. Inoltre, poiché gli omosessuali erano ufficialmente perseguiti, ed erano riconoscibili dai triangoli rosa, erano messi sotto i riflettori; di conseguenza, ci sono delle menzioni circa il loro trattamento nei campi. Al contrario, le lesbiche erano “nascoste dal doppio velo di ipocrisia e silenzio” (Laska, 1993, p.264). Questa sezione va ad indagare su questo occultamento.
8) Ad esempio, la Lega per la protezione della Maternità e della Riforma Sessuale fece approvare, nel 1911, una mozione che definiva una proposta di criminalizzazione delle lesbiche “un grave errore”, che avrebbe solamente “duplicato l’ingiustizia”.
9) Gli uomini gay erano – e sono – definiti singolarmente col sinonimo di “omosessuale”, e perseguitati pubblicamente come tali tramite procedimenti penali; lo sprezzo verso le lesbiche era, come d’altronde ancora è, espresso tramite l’oscurantismo e dal “ripudio verso quelle donne che si organizzano per ottenere una presenza pubblica, un peso politico e sociale, e un’evidente integrità” (Dworkin, 1993, p.28).
10) Prima di ciò vi erano all’incirca sessanta punti d’incontro per lesbiche a Berlino; inoltre, vi era un giornale esclusivamente per lesbiche, “The Girlfriend: Settimanale per un’Amicizia Ideale” (Faderman & Eriksson, 1990, p.xxi).
11) In seguito, la guerra contro di loro diminuì quasi del tutto gli sforzi per sterminare gli ebrei d’Europa.
12) Andrea Dworkin scrive: “All’interno del museo manca la storia delle donne” (1994, p.54).
13) Per una visione più completa sull’antisemitismo negli Stati Uniti dal colonialismo fino ad ora, suggerisco la lettura di Dinnerstein (1994).
14) È interessante notare come il simbolo giallo, nato come emblema ufficiale di protezione durante il Medioevo, sia stato casualmente esteso agli ebrei nei territori musulmani. Il segno serviva per ricordare a questi ultimi che era proibito attaccare gli ebrei (Biale, 1987, p.67); di conseguenza, serviva a distinguerli e a proteggerli. Si pensa che, probabilmente, sia stata proprio questa storia a spingere i sionisti ad adottare questo particolare simbolo.
15) A loro volta, gli assimilazionisti accusarono i sionisti per la loro persecuzione, sostenendo che i sionisti, che avevano sempre rimarcato il loro essere ebrei, erano un ostacolo alla coesistenza pacifica. Inoltre, gli assimilazionisti insistettero sul fatto che gli ebrei rimanessero fedeli allo “Spirito tedesco” (Dawidowicz, 1986, p.174). Ciò che entrambi, i sionisti e gli assimilazionisti, non considerarono, è che il loro più grave errore non fu il loro comportamento, bansì l’essere nati ebrei (Elman, 1989). Ovviamente, col senno di poi, si potrebbe osservare, come fece Sartre, che “il vero antagonista dell’assimilazione non sia l’ebreo, bensì l’antisemita…” (Sartre, 1969, p.143).
16) Negli ultimi anni ho spesso chiesto a coloro che indossavano i triangoli rosa di spiegarne il loro significato, e raramente mi è stata data una risposta esaustiva. Molti rispondono dicendo semplicemente che simboleggia l’orgoglio gay e lesbico. Inoltre, a eccezione dei sopravvissuti dell’Olocausto che si oppongono all’indossarlo, coloro che non fanno parte né della comunità gay, né di quella lesbica, sono ancor meno a conoscenza del valore storico del triangolo. Sospetto fortemente che l’attrazione verso questo emblema sia dovuta proprio al suo essere astruso, poco conosciuto, ovvero che il triangolo rosa sia un significante “circospetto”.
* R. Amy Elman è assistente di Scienze Politiche all’Università di Kalamazoo, dove impartisce lezioni sull’Olocausto e altre questioni europee dal punto di vista delle donne. L’autrice desidera ringraziare Katinka Strom, Marigene Arnold, Peter L. Corrigan, Gail Griffith, e Donna Hughes per averla incoraggiata a concentrarsi e specializzarsi su questo tema.
Testo originale: Triangles and Tribulations: The Politics of Nazi Symbols