Consigli pastorali su come accogliere in una comunità cattolica una persona omosessuale
Testo redatto dall’associazione cattolica Devenir Un En Christ (Francia), liberamente tradotto da Angelica Mancini
Di seguito si trovano dei consigli rivolti a coloro che sono chiamati ad accogliere le persone omosessuali all’interno di un cammino pastorale o a titolo personale.
Come premessa, ricordiamo che l’omosessualità non è una scelta, è una realtà che si impone nella vita di una persona. L’omosessualità non è nemmeno un peccato in sé e non si può rimproverare a qualcuno di essere omosessuale, né esprimere il minimo giudizio a causa di un’inclinazione che non dipende da lui o lei. Non può farci nulla, è un dato di fatto di cui dovrà tenere conto nella vita, in un modo o nell’altro.
1. Quando una persona omosessuale si rivolge a noi o chiede di essere accolta, bisogna prima di tutto tenere presente che forse le ci sono voluti mesi prima di decidersi a compiere quel passo. Alcuni, sapendo di non rientrare nelle «norme» della Chiesa, spesso esitano a recarsi da un prete o un operatore pastorale, perché pensano che saranno giudicati, persino rifiutati. Pertanto bisogna essere molto delicati nell’accoglienza, perché la minima parola di giudizio sarà percepita in modo particolarmente doloroso perché chi accoglie è considerato testimone dell’amore di Dio. Per questo motivo, è necessario evitare ogni tipo di discorso generale o moralizzante, evitare le parole che fanno sentire in colpa. La cosa migliore sarebbe eliminare qualsiasi atteggiamento indagatore e dimostrare pudore e umiltà.
2. È importante mettere le cose al posto giusto: l’omosessualità non copre tutti gli aspetti di una vita. Si può chiedere alla persona quali siano i suoi interessi, le sue abilità, le sue qualità, per farle scoprire una ricchezza molto più ampia dentro di sé. È giusto valorizzare la sua bellezza, soprattutto quando si percepisce che si sottovaluta. È fondamentale farle capire che ogni uomo e ogni donna sono prima di tutto figli di Dio, indipendentemente dall’orientamento sessuale.
3. Non è necessario parlare da subito della posizione della Chiesa sull’omosessualità, delle severe scritture della Bibbia, ecc… Tuttavia, spesso chi si sente molto in colpa ci tiene ad affrontare l’argomento, perché è ciò che ha alimentato il senso di colpa. Alcuni sono spinti proprio dal senso di colpa a tornare sui testi molto di frequente, e li conoscono perfettamente.
Che dire in questi casi? La maggior parte delle volte è inutile affrontare un’analisi dettagliata; non è quello che la persona si aspetta nel profondo. Quando il senso di colpa soffoca, bisogna piuttosto spalancare «finestre» per respirare, aprire la strada a prospettive liberatrici:
– Per quanto riguarda il Catechismo, è inutile insistere su espressioni quali « grave depravazione » o « intrinsecamente disordinati »; si può invece, ad esempio, ricordare la legge della gradualità («avvicinarsi, gradualmente e con decisione, alla perfezione cristiana» ). Essere santo, oggi, non significa essere perfetto, ma chiedersi cosa si può fare per crescere. Il solo rendersene conto spesso ha un effetto tranquillizzante. Ad altri si può far notare che gli atti omosessuali sono definiti «disordinati», e non colpevoli: il Catechismo non si pronuncia sulla colpevolezza delle persone che commettono tali atti; questa differenza è illuminante.
– Per quanto riguarda la Bibbia, si può innanzitutto sottolineare che parla poco di omosessualità, e quel poco che dice è difficile da capire. Ebbene, la Bibbia è interamente parola di un Dio d’amore salvatore e non condanna di un giudice. Si ricorderà che l’episodio di Sodoma non ha nulla a che vedere con una condanna dell’omosessualità; il testo riguarda lo stupro e la mancanza di ospitalità. Occorre poter mettere le Scritture nel giusto contesto: al tempo in cui sono stati scritti i testi biblici, l’orientamento omosessuale non era un fatto noto. I testi di San Paolo non riguardano dunque persone che si scoprono omosessuali, ma eterosessuali che si lasciano andare a pratiche omosessuali. Dal punto di vista del giudizio morale, la differenza è fondamentale: non è la stessa libertà, e nemmeno la stessa motivazione! Bisogna ricordare anche che per Paolo, la grazia di Cristo trasforma ogni credente e cancella ogni differenza esistente, in modo che non ci siano più ebrei né greci, né uomini né donne, ma siamo tutti figli di Dio. Una persona che si sente colpevole avrà la tendenza a ricondurre la propria omosessualità a un elenco di peccati e a una condanna, tralasciando quello che è il vero insegnamento di Paolo: l’amore di Dio è offerto a tutti.
– La Chiesa, infine, è vista da taluni come una « nemica » o come una restrizione che si oppone alla realizzazione dell’individuo. Occorre allora mostrare che essere cristiani non significa in primo luogo rispettare una serie di regole, ma rispondere a una chiamata, a una proposta di vita che tiene conto di tutto ciò che siamo. La Chiesa non è perfetta, anche se è molto esperta di umanità. Ne fanno parte uomini e donne che stanno a loro volta compiendo un percorso, e l’omosessualità è un mistero che la Chiesa esplora alla luce della fede e dell’esperienza umana. D’altronde, la Chiesa non è solo «l’istituzione», facile da rimproverare: è anche il prete che accoglie con bontà, ed è ognuno di noi.
4. Può capitare che alcuni rientrino nel registro della tentazione, della dannazione, ecc… A quel punto è opportuno ricordare che la vera tentazione non riguarda l’atto sessuale, che sia stato commesso o meno: consiste nel far perdere la speranza nella misericordia di Dio, per separarci da lui. Per questo motivo si può sottolineare tutto ciò che permetterà di mantenere Dio presente nella realtà della nostra vita: la preghiera, la partecipazione all’eucarestia, i sacramenti…
5. Essere cristiano non significa essere un eroe, ma fare un passo alla volta seguendo il proprio ritmo, nella sequela di Cristo. Il minimo passo in avanti è grande agli occhi di Dio. Possiamo allora cercare con la persona quel passo concreto che può farla crescere. È particolarmente importante per chi non ha stima di sé: vedere che si è capaci di fare passi in avanti ristabilisce la fiducia in sé stessi.
6. Si può anche proporre alla persona che si accoglie di riflettere a proposito di una fecondità possibile nella sua vita. Dare un progetto significa dare una speranza. È opportuno mostrare che, anche se ci sarà sempre una tensione nella nostra via, questa potrà rappresentare uno stimolo perché ci obbliga a trovare un percorso di vita personale, una fecondità.
7. Infine, ecco alcune esigenze più specifiche che potrebbero essere affrontate:
– Alcuni avranno bisogno di un aiuto spirituale (preghiera, sacramenti) o di essere accompagnati; si tratterà di indirizzarli al meglio affinché possano trovare un prete, un religioso capace di accoglierli con delicatezza.
– Altri potranno trovare un supporto all’interno di un gruppo per condividere con altre persone questa dimensione della loro persona; è bene avere i contatti di associazioni o siti, opuscoli da fornire.
– Altri ancora avranno bisogno di un approccio terapeutico; occorre essere prudenti e attenti nell’aiutarli a comprendere, affinché questo approccio non li ferisca ulteriormente ma al contrario li apra alla vita e li faccia crescere in umanità. Li si indirizzerà verso terapeuti aperti e gentili.
Un incontro ha «successo» se la persona accolta se ne va sollevata di aver potuto raccontare la propria storia, felice di essersi riscoperta più bella di quanto pensasse, con una speranza e la convinzione che Dio l’ama così com’è.
Testo originale: Des repères pastoraux pour l’accueil d’une personne homosexuelle