Quale scisma minaccia la chiesa cattolica?
Riflessioni di Gianni Geraci
Il cardinal Müller, durante un colloquio con Massimo Franco, pubblicato lo scorso 26 novembre (2017) sul Corriere della Sera ha affermato che: «Le autorità della Chiesa devono ascoltare chi ha delle domande serie o dei reclami giusti; non ignorarlo o, peggio, umiliarlo. Altrimenti, senza volerlo, può aumentare il rischio di una lenta separazione che potrebbe sfociare in uno scisma di una parte del mondo cattolico, disorientato e deluso». E, per sottolineare la gravità dell’allarme che intendeva lanciare ha aggiunto che: «La storia dello scisma protestante di Martin Lutero di cinquecento anni fa dovrebbe insegnarci soprattutto quali sbagli evitare».
Naturalmente tutti si sono messi a parlare di questo scisma strisciante come se si trattasse di una conseguenza delle scelte fatte durante il pontificato di papa Francesco.
Nessuno, per quello che ne so, sembra essersi ricordato di quello che, nel novembre del 1998, il professor Pietro Prini, uno dei più eminenti filosofi cattolici italiani, aveva denunciato nel libro Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa cattolica.
Partendo da un dato di fatto che la gerarchia fingeva di ignorare lui osservava infatti che, al di là degli apparenti trionfi, nella Chiesa era in atto uno vero e proprio «scisma sommerso» dovuto al divario profondo che si era progressivamente creato tra le coscienze dei fedeli e la dottrina ufficiale.
Poche settimane prima Giovanni Paolo II aveva ribadito con forza quella stessa dottrina nell’enciclica Fides et Ratio, riprendendo la rilettura in chiave riduttiva del primato della coscienza morale che già aveva proposto nel 1993, quando, proprio per correggere i tanti fedeli che, su alcune questioni, si riservavano di non seguire alla lettera le indicazioni del Magistero, aveva scrtto la Veritatis splendor.
Poco meno di un anno dopo il cardinal Martini, durante il suo intervento al Sinodo dei vescovi per l’Europa, parlando di temi come «la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, (…) il rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale», si chiedeva «se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi».
Molti giornalisti titolarono dicendo che l’arcivescovo di Milano aveva chiesto la convocazione di un nuovo concilio e l’Osservatore Romano decise di non pubblicare il suo intervento: l’idea che lo “scisma sommerso” di cui ormai si parlava apertamente nella chiesa, avesse bisogno di una risposta concreta da parte del Magistero, probabilmente, era ritenuta “sovversiva”.
Non so se quando papa Francesco ha pensato al discorso fatto dal cardinal Martini, quando ha deciso di convocare, prima del sinodo ordinario dedicato alla famiglia che si è svolto nel 2015, un sinodo straordinario dedicato allo stesso tema. Di certo, pur senza parlare di un concilio, ha deciso comunque di affrontare il tema della famiglia, con uno strumento simile a un concilio strutturato in due sessioni distinte capaci di dare il tempo ai padri sinodali di arrivare a una sintesi capace di dare delle risposte concrete alla drammatica frattura che, proprio su alcuni aspetti della vita delle famiglie, c’è tra le scelte concrete dei fedeli e le indicazioni che provengono dal magistero ordinario.
Dopo la fine inconsueta e, per molti aspetti drammatica, del pontificato di Benedetto XVI, era chiaro che una delle sfide che il nuovo papa doveva affrontare era quella di colmare questa frattura con tutti gli strumenti che aveva a sua disposizione. Ormai lo capivano anche i sassi: se restava ferma sulle posizioni elaborate nel ventennio precedente, la Chiesa rischiava di perdere la stragrande maggioranza dei fedeli che aveva nel mondo occidentale, ma se rompeva con il recente passato e iniziava a interrogare la modernità per trovare delle risposte a questa diaspora, rischiava, per contro, di perdere le chiese dei paesi in via di sviluppo.
La relatio finalis, approvata dai padri sinodali nel 2015, cercava di tener conto di queste esigenze contrastanti, e l’esortazione apostolica Amoris Laetitia in cui il papa ha ripreso le conclusioni del sinodo raccomandando, all’interno di un sistema di regole che non è di fatto cambiato, un discernimento che valorizzava finalmente il ruolo che una retta coscienza deve avere nella vita morale del credente.
Letta alla luce di questa lunga storia, la minaccia di uno scisma ventilata dal cardinal Müller deve essere riformulata con un linguaggio completamente diverso, perché quello che la chiesa rischia non è tanto uno scisma da parte di quegli ambienti fondamentalisti che fanno della contestazione di papa Francesco uno degli elementi su cui costruiscono la loro identità. Uno scisma del genere, tra l’altro, c’è già ed è quello iniziato da monsignor Lefebvre.
Il vero scisma di cui la chiesa si deve preoccupare è quello di cui si parlava già negli anni novanta, e che è nato dall’autoreferenzialità di un Magistero che non è stato capace di mettersi in ascolto dei “segni dei tempi”.
Pero fortuna, di questo scisma, il papa si è occupato e si continua a occupare con una dedizione nonostante le preoccupazioni e le critiche che arrivano dal cardinal Müller e da quanti, stando alle sue parole, gli hanno chiesto di guidare il dissenso all’interno della chiesa.