Coscienza o gerarchia? Un dilemma che non c’è
Riflessioni di di Gianni Geraci del Guado di Milano
Qualche tempo fa un giornalista di Avvenire con cui sono in contatto mi ha fatto questa domanda: «Coscienza, fede, magistero, gerarchia, libertà… Mettiamo che sia una rotonda alla francese, come organizziamo le precedenze?». Dopo aver riletto,a distanza di mesi, la risposta che gli avevo dato, ho deciso di pubblicarla sul nostro blog, perché credo che possa essere utile per chiarire una serie di equivoci che circolano in certi ambienti clericali.
Anche se faccio fatica a mettere sullo stesso piano i vari mezzi che intasano la rotonda che hai immaginato provo comunque a rispondere anche se mi rendo conto che il rischio di fare una lunga predica sia molto concreto.
Quando leggo il termine ‘fede’ non riesco a non fare riferimento alla virtù teologale della fede che, alla fine, è un atteggiamento di fiducia che nasce dall’esperienza che ho fatto incontrando Gesù nella Chiesa. La teologia ci dice che è un dono gratuito della grazia di Dio. Per questo faccio fatica a metterla in una rotonda chiedendomi se abbia o meno una precedenza. Al massimo, se proprio ce la vogliamo mettere, direi che la fede è il lampione che illumina la rotonda e che mi permette di vedere i veicoli che stanno passando.
Lo stesso direi che mi capita leggendo la parola ‘libertà’, perché anche la libertà, se ancora vogliamo usare l’immagine della rotonda, non è tanto uno dei mezzi che si muovono per avere la precedenza, ma è la strada che mi ha portato lì.
Mi piace molto l’immagine della strada perché la strada non permette movimenti in qualunque direzione e rende quindi molto bene l’idea che la nostra libertà non è mai qualcosa di assoluto, ma è sempre condizionata dalle circostanze in cui la esercitiamo.
Restano quindi i tre termini ‘gerarchia’, ‘magistero’ e ‘coscienza’ che però, ancora una volta, non possono essere messi sullo stesso piano.
Se ci pensi bene, quando facciamo una scelta seguendo la nostra coscienza morale, implicitamente, compiamo un atto che potrebbe avere un valore ‘magisteriale’: pensa a quello che ha fatto San Francesco (un laico come te e come me) quando si è spogliato davanti al vescovo di Assisi, nessuno può negare che quel gesto abbia influenzato il magistero universale della chiesa più di molte bolle e di molti decreti.
Il fatto è che la chiesa tutta partecipa all’esercizio del magistero, anche se poi, essendo la chiesa un popolo “gerarchicamente costituito”, l’esercizio di questo unico magistero ha forme che hanno un’universalità e un valore molto diverse fra loro e che il magistero esercitato dalla gerarchia possiede alcune caratteristiche specifiche di autorevolezza, di universalità e di indefettibilità che lo rendono speciale.
Sulla rotonda restano quindi la coscienza e la gerarchia che, se ci pensi, sono due espressioni distinte e diverse, dell’unico magistero della chiesa.
Chi ha la precedenza? Si tratta della domanda che san Tommaso d’Aquino si fa nella quaestio 17 del De veritate dove, all’articolo 5, dopo aver osservato che: «Confrontare le indicazioni della coscienza (ligamen conscientiae) con le indicazioni della gerarchia (ligamen quod est ex praeceptum praelati) equivale (nihil est aliud) che confrontare il vincolo dato da un precetto divino con il vincolo dato dalle indicazioni della gerarchia (ligamen praecepti divini ad ligamen praecepti praelati)».
E, dopoo aver osservato che il precetto divino è più vincolante delle indicazioni della gerarchia (Cum praeceptum divinum obliget contra praeceptum praelati, et magis obliget quam praeceptum praelati) arriva alla conclusione che il vincolo della coscienza è più forte di quello che deriva dalle indicazioni della gerarchia (etiam conscientiae ligamen erit maius quam ligamen praecepti praelati, et conscientia ligabit, etiam praecepto praelati in contrarium existente).
Non si tratta di un ferro vecchio della teologia, perché il Catechismo della Chiesa cattolica, anche se non riprende questo testo di Tommaso, afferma la stessa cosa quando dice che: «L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza» (cf. 1800).
Lo stesso Giovanni Paolo II, nella Veritatis Splendor, riconosce questa dottrina, ma nel farlo sottolinea i rischi derivanti dal fatto che la coscienza morale può anche essere erronea e, partendo da questo rischio, rilegge in chiave riduttiva la dottrina del primato della coscienza. Credo anch’io che il rischio di scegliere seguendo una “coscienza erronea” sia molto concreto e che, come dice il catechismo, ciascuno deve «formare la propria coscienza».
Su questo argomento, nella Veritatis Spendor c’è un passaggio molto bello: «Nelle parole di Gesù troviamo l’appello a formare la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene» (cf. paragrafo 64). Ed è proprio partendo da questa frase che possiamo chiederci in cosa consista questa «continua conversione alla verità e al bene».
Non so se ho ragione, ma io credo che la conversione si realizza solo là dove c’è ascolto. Non l’ascolto distratto di chi sta già pensando cosa ribattere alle cose che sta sentendo, ma l’ascolto accogliente di chi accetta di lasciarsi interpellare dalle parole del suo interlocutore. Questo ascolto, secondo una bella osservazione fatta da Karl Rahner nella sua Lettera aperta sul celibato”: «Trasforma le parole di chi parla, per l’azione misteriosa dello Spirito Santo, nelle parole che chi ascolta ha bisogno di sentire».
Naturalmente, una volta che siamo d’accordo sull’importanza dell’ascolto, è il caso di chiederci che cosa dobbiamo ascoltare per formare in maniera retta la nostra coscienza. Due strumenti li suggerisce una frase di Dietrich Bonhoeffer quando scrive: «La Bibbia e il giornale siano gli strumenti del vostro ascolto».
Noi cattolici, a questi due strumenti, dobbiamo aggiungerne un terzo: il magistero della chiesa, quello stesso magistero che all’inizio di questa riflessione avevo tolto dalla rotonda quando avevo osservato che il magistero .
Nauralmente, parlando di magistero, occorre ricordare quello che ho osservato prima, ovvero che non è fatto soltanto di costituzioni dogmatiche, di encicliche e di documenti della curia vaticana, ma che è l’espressione della vita stessa di tutta la chiesa (come non ricordare qui che le più antichi testi magisteriali raccolti dal Denzinger, nel suo Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum sono umili preghiere che hanno però dato forma alla fede della chiesa).
Per dirla con le parole che usava Bernard Haering: «Il magistero della chiesa è anche quello che dice la mia mamma, che è una donna che prega tanto e che mi vuole bene. Magistero della chiesa è anche quello che mi dice il mio papà, che ha fatto tanto per aiutarmi a realizzare le mie aspirazioni. Magistero della chiesa è anche quello che dice il mio confessore, quello che mi dicono i miei amici, quello che mi dice il mio parroco e poi, sempre più su, quello che dice il vescovo, quello che dice la curia e quello che dice il papa».
Si può anche osservare che più questo magistero si allontana da noi più sarà universale, ma meno sarà in grado di cogliere la situazione specifica in cui ci troviamo. Più sarà invece in grado di guidarmi tenendo conto della mia situazione specifica quanto meno potrà essere considerato un riferimento per altre persone che questa situazione specifica non la vivono».
E così, seguendo la nostra coscienza che, come ricorda il Catechismo al punto 1778 è «il primo tra tutti i vicari di Cristo» e senza chiuderci nella corazza delle nostre certezze, siamo sicuri che, in un determinato momento, facciamo davvero la volontà di Dio.
Se poi chiediamo al Signore di correggerci se per caso stiamo sbagliando e restiamo in ascolto dei tanti piccoli segni che lui ci manda, di sicuro abbiamo fissato le precedenze giuste alle auto che circolano nella rotonda della nostra vita.