Il viaggio di un fotografo nella comunità queer ugandese
Articolo di Sarah Stacke pubblicato sul sito della National Geographic Society (Stati Uniti) l’8 febbraio 2018, liberamente tradotto da Fabiana Ceccarelli
Diamo uno sguardo a come in Africa orientale alcune persone LGBT – trattate da rifugiati nel loro stesso Paese a causa della loro sessualità – riescono a costruire delle vite fatte di bellezza e di resilienza.
Nel 2013 l’Uganda è stato riconosciuto a livello internazionale come un luogo orribile dove essere omosessuali; è stato in quell’anno che il Paese ha approvato la legge Anti-Omosessualità, tristemente nota anche come legge “Ammazzagay”.
All’indomani della convalida della legge, agli attivisti LGBTQ in Uganda sono stati concessi finanziamenti internazionali e risorse e sono stati catapultati sotto i riflettori di tutto il mondo: ”C’è però il rovescio della medaglia” spiega il fotografo Jake Naughton, “tanta visibilità ha generato sul posto una vera e propria avversione verso questa realtà, portando ad un aumento della violenza, e non da parte di leader politici o autorità religiose, bensì da parte della gente comune, le persone del quartiere, quelle che frequentano la chiesa, le persone di famiglia”.
Al giorno d’oggi vivere in Uganda, per gli omosessuali, può essere più che mai pericoloso, nonostante la legge Anti-Omosessualità sia stata abolita nel 2014.
Il progetto di Naughton, This is How the Heart Beats (Ecco come batte il cuore), richiama l’attenzione sulla migrazione forzata dei rifugiati LGBTQ dell’Africa orientale. Questo reportage segue i rifugiati mentre abbandonano le loro abitazioni in Uganda, cercano rifugio in Kenya, si trasferiscono negli Stati Uniti e, in alcuni casi, fanno un ritorno decisivo in Uganda.
Naughton, curioso di sapere quale risonanza abbiano avuto nel Paese gli avvenimenti del 2013, ci è stato nel 2017, per descrivere la vita delle persone comuni che fanno parte della comunità LGBTQ ugandese. Anche se le persone che ha fotografato non possono essere formalmente identificate come attivisti, le azioni banali della loro vita quotidiana diventano comunque una forma di attivismo, una sfida verso coloro che le vorrebbero vedere esiliate o morte.
Parlando del suo approccio con la comunità LGBTQ in Africa orientale, Naughton riconosce che il fatto di essere americano e bianco pone dei limiti nel suo relazionarsi con gli ugandesi; ma come “gay mi si offre la fiducia implicita che sappia comprendere il pericolo e i rischi che si corrono rendendo pubblica la propria omosessualità nell’ambito dei media”.
In Kenya i rifugiati fotografati da Naughton spesso hanno chiesto di mantenere l’anonimato, per paura che le loro famiglie a casa potessero subire ritorsioni. È stata quindi una sorpresa quando ad un certo punto le persone si sono dimostrate quasi tutte felici di mostrarsi a volto scoperto. Secondo Naughton la maggior parte di loro, in un modo o nell’altro, è venuta fuori da questa situazione, il che non significa che non corrano più rischi. Affrontano costantemente i pericoli dichiarando apertamente la propria omosessualità, ma ora lo fanno con una nuova consapevolezza: “Le persone sanno chi sono, ed è così, e basta” ribadisce Naughton.
Per rendere l’idea del controllo serrato, a livello pubblico e privato, a cui sono sottoposte le persone LGBTQ in Africa orientale, Naughton fa delle foto sfruttando il “flash off-camera”. La forte luce che inonda le figure è una metafora visiva che vuole evidenziare la sorveglianza indesiderata che i gay ugandesi devono sopportare. Questa tecnica, coi suoi contrasti e le ombre profonde create dal flash, permette di “rappresentare in maniera elegante la duplice natura di essere una persona queer, ed esserlo in Africa orientale” dice Naughton, alludendo alle esigenze di segretezza che possono essere generate dalla paura del pregiudizio.
Attualmente Naughton vede sempre più se stesso come un documentarista di “queerness”: “Come gay è davvero difficile vedere la violenza incredibile che devono subire queste persone a causa della loro identità, che è anche la mia”. D’altro canto, però, Naughton è rincuorato dalla profonda resilienza delle persone queer, dal loro entusiasmo per la vita, dalla loro capacità di affrontare una quantità inimmaginabile di traumi per poi trasformare tutte quelle esperienze negative in “qualcosa di bellissimo”.
Una giovane transessuale di nome Javan incarna le qualità descritte da Naughton. Dopo essere sopravvissuta ad abusi brutali, Javan è scappata dall’Uganda per rifugiarsi in Kenya. Sei mesi dopo è tornata a casa dicendo: “Devo prendere una posizione. Che esempio darò alle altre persone trans ugandesi se vado via?”.
In un ritratto luminoso che Naughton ha fatto di Javan vicino alla sua abitazione a Kampala, lei guarda dritto nell’obiettivo della macchina fotografica con lo sguardo fiero e sereno. Le persone LGBTQ ugandesi sono “impegnate a riformare i preconcetti che la gente del paese ha sugli omosessuali” dice Naughton, ”e sono a casa perché vogliono rimanerci”.
Testo originale: East Africa’s Queer Community Searches for a Home of Its Own