Quali segni e prodigi. Il cammino percorso da una comunità di suore con i cristiani LGBT e i loro genitori
Intervento di suor Fabrizia Giacobbe* tenuto all’incontro-dibattito “Quali segni e prodigi. L’esperienza dei cristiani LGBT a Firenze” (28 novembre 2019)
Sempre più mi confermo nell’idea che la nostra vita sia fatta soprattutto di incontri. Sono gli incontri a tessere la trama della nostra esistenza, a darle spessore, consistenza, colore. Ed è anche proprio attraverso gli incontri veri con l’altro, quelli che nascono da un’apertura reciproca del cuore e della mente, che Dio si fa presente, viene a visitarci, a parlarci, a regalarci ricchezza e gioia, aprendo nuovi percorsi e chiamandoci sempre anche a conversione.
Per la nostra comunità (di suore domenicane fiorentine) l’incontro con Kairòs, il gruppo di cristiani LGBT e i loro genitori di Firenze, è stato un po’ tutto questo: un incontro che indubbiamente ci ha segnate, che ci ha enormemente arricchite, che ci ha aperto un percorso con tanti fratelli e sorelle nella fede che mai avremmo immaginato di fare e ci ha regalato molta gioia. È un incontro che con gratitudine leggiamo oggi come dono di Dio e che per noi ha significato anche chiamata a conversione.
Chiamata innanzitutto a far saltare quei pregiudizi che, io credo, esistano in tutti (chi più, chi meno) finché non si arriva alla conoscenza diretta, finché non si incontrano le persone. Finché non conosci, ragioni per forza sulla base di pre-giudizi. E quelli sulle persone lgbt sono indubbiamente tanti. Ricordo che quando incominciammo ad ospitare il Gruppo Kairòs per un percorso biblico di lectio divina, immediatamente un giovane, piuttosto scandalizzato, mi chiese spiegazioni: “Ho saputo che ospitate un gruppo di omosessuali. Ma è vero? Mi devi spiegare…Perché?” E io ho ribaltato la domanda: “Perché no? Nella chiesa dovrebbe essere anomalo escludere, non accogliere..”.
Ma anche tra religiosi e religiose ho verificato questo: finché ti occupi di poveri, di malati, di senza dimora, di detenuti (sono andata in carcere parecchi anni a Prato)… tutto sommato fai bella figura; gli omosessuali fanno solo problema. E così li si tiene a distanza e i pregiudizi rimangono, perché non si arriva alla conoscenza.
Per questo, quando oggi si dice che è urgente affrontare o riaffrontare nella chiesa la questione dell’omosessualità, io sono pienamente d’accordo; però a condizione di ricordare che prima di essere una ‘questione’ e dunque un argomento di riflessione, di discussione, un oggetto di ricerca teologica e poi di pronunciamenti magisteriali, l’omosessualità è condizione di vita di persone che hanno nomi, volti, storie concrete, delle quali non ci è lecito, io credo, parlare senza averle prima ascoltate, senza aver accettato in qualche modo di farcene carico.
Scriveva il card. Pellegrino, arcivescovo di Torino nella sua lettera programmatica del dicembre 1971 (Camminare insieme): “Nella vita della Chiesa (…) dobbiamo constatare spesso un comportamento che si potrebbe dire caratterizzato dall’anonimato, nel senso che manca un rapporto con le persone. Questo può avverarsi a tutti i livelli.
Ci sono le strutture che qualche volta fanno dimenticare le persone; così nella predicazione, nella celebrazione dei sacramenti, nella attività organizzata è giusto che ci domandiamo se la persona ha sempre il primo posto, o se qualche volta non si lavora come certe strutture o certe attività tradizionali ci suggeriscono o ci impongono senza la debita attenzione alle persone.
C’è nella nostra situazione una carenza, più volte rilevata, in relazione al mondo operaio, che pure ha nella nostra società un peso preponderante per il numero e per il senso di solidarietà che lo anima, mentre è in grandissima parte assente dalla Chiesa. Dobbiamo riconoscere che sono troppo scarsi da parte della comunità ecclesiale quei contatti che sarebbero necessari per conoscere a fondo il lavoratore e per aiutarlo a sentirsi Chiesa e vivere nella Chiesa. C’è difficoltà da parte di molti, sacerdoti e anche laici, e per tante cause, a investirsi dei problemi reali dei lavoratori.
C’è una certa paura di compromettersi di fronte a rivendicazioni espresse talvolta in forma discutibile, ma spesso pienamente giustificate. Penso a una parola detta da P. Loew, che fece per più anni lo scaricatore nel porto di Marsiglia, negli esercizi tenuti in Vaticano nel 1970: il povero è colui che ascolta tutti, ascolta il suo caporeparto in officina, ascolta il deputato che fa il comizio, ascolta il sindacalista, alla fine deve ancora ascoltare sua moglie quando torna in casa la sera, ascolta il parroco quando va in chiesa, e non è ascoltato da nessuno. Manca troppo spesso l’impegno dell’ascolto.
Quello che ho detto del mondo operaio vale per altri ambienti della nostra società, che si trovano in situazioni di sofferenza non abbastanza conosciute e valutate”.
Per noi l’incontro col Gruppo Kairòs è stata una grazia innanzitutto perché ci ha permesso di conoscere, di ascoltare, di lasciarci toccare e convertire da una prossimità che oggi ci permette di sostituire alla categoria astratta “LGBT” volti e storie concrete che nel tempo abbiamo fatto nostre (e in dodici anni dal gruppo sono passati davvero tanti uomini e donne, di età e provenienze assai varie).
Che cosa abbiamo fatto in questi anni? Abbiamo semplicemente camminato insieme nella fede, condividendo gioie e speranze, tristezze ed angosce alla luce di quella Parola di Dio che è il vero cuore della vita del gruppo, così come dovrebbe esserlo di ogni vita cristiana. Lo abbiamo fatto in uno spirito di comunione, che è lo spirito della Chiesa, dove non ci può essere chi accoglie e chi è accolto, ma dove tutti, accolti da Dio, impariamo ad accoglierci reciprocamente: “accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi” (Rm 15,7).
Con Kairòs abbiamo sperimentato questa accoglienza reciproca: noi abbiamo aperto le porte della nostra casa e certamente anche le porte del cuore, e gli amici di Kairòs a loro volta ci hanno riservato un’accoglienza straordinaria, permettendoci di entrare progressivamente nelle pieghe del loro vissuto. È stata la rivelazione di ricchissima, dotata, pur con i limiti che sono di tutti, di una bellezza e sensibilità non comune; un’umanità impegnata in cammini di fede spesso sofferti, ma sempre, direi, autentici e profondi; un’umanità assetata della Parola di Dio, e nello stesso tempo fragile, perché segnata da profonde ferite e sofferenze, forse “non abbastanza conosciute e valutate”, per riprendere un’espressione del card. Pellegrino.
La prima tra queste è legata alla difficoltà solitamente incontrata nel cammino di autoaccettazione. Passano a volte decenni prima che la persona omosessuale arrivi ad accettare la propria condizione, a guardarla in faccia nella verità, imparando ad amarsi per quel che si è. E non tutti ci arrivano.
Ora, la fede cristiana dovrebbe aiutare, perché fondata sul Vangelo e quindi sulla buona notizia dell’infinito amore di Dio per ciascuno: un amore personalissimo e gratuito, senza condizioni, da cui quindi nessuno dovrebbe sentirsi escluso, in qualunque situazione si trovi. E invece purtroppo accade il contrario: la fede viene per lo più percepita come un ostacolo all’accettazione di sé.
Credo che in questo tutti nella comunità cristiana abbiamo la nostra responsabilità, che dovremmo riconoscere, arrivando anche a chiedere perdono. Chiedere perdono per avere tante volte tradito quello sguardo che il Dio “amante della vita” (Sap 11) ha nei confronti di ogni uomo fin dall’inizio della storia: quello sguardo innamorato di un Dio che vede in ciascuno qualcosa di “molto bello/buono”.
Quante volte noi non testimoniamo uno sguardo come questo, sguardo di cui tutti avremmo bisogno! Durante un dialogo, una sera, un ragazzo gay scoppiò a piangere e, tra un singhiozzo e l’altro, mi disse: “Nessuno mi ha mai detto che sono una bella persona”. Tutti abbiamo bisogno di sguardi e parole che ci confermino nella nostra bellezza, nel nostro valore, nella nostra straordinaria dignità.
E allora mi chiedo: perché nelle comunità cristiane le persone omosessuali (che sono molto più numerose di quanto immaginiamo) sono state spesso invitate al nascondimento (dicendo: continua a fare quel servizio che fai, ma non dire a nessuno della tua condizione)? L’invito al nascondimento accresce la solitudine (non c’è visibilità e quindi ciascun pensa di essere il solo) e soprattutto accresce il senso di vergogna e di inadeguatezza: quella sensazione di “essere sbagliati” che la persona LGBT già porta abitualmente in sé.
Si perpetua così anche il sospetto insopportabile (per chi lo vive sulla propria pelle) di un legame tra condizione omosessuale e perversione morale. Tra l’altro, questa invisibilità condanna all’isolamento anche le famiglie che hanno al proprio interno persone omosessuali, facendo sì che i genitori cattolici vivano il coming out dei propri figli come una tragedia di fronte alla quale si trovano spesso del tutto soli e impreparati.
Per tutti questi motivi credo che sia urgente una conversione delle comunità cristiane, di cui vediamo già alcuni segni, almeno qui a Firenze (Chiesa che probabilmente però conosce una situazione privilegiata, come la storia del gruppo Kairòs mostra). Qualcosa in ogni caso sta cambiando e noi aspettiamo il momento in cui non sia più necessaria una pastorale per le persone LGBT, perché potranno sentirsi davvero a casa propria in ogni comunità cristiana, mostrandosi con serenità per quello che sono.
In attesa di quel giorno, dal momento che la fede cristiana non può che essere visssuta richiede quella comunione che si traduce in una vita di comunità di essere vissuta in comunità, gruppi come Kairòs svolgono un servizio preziosissimo, poiché suppliscono a vecchie dinamiche di emarginazione che purtroppo esistono ancora in numerose parrocchie e movimenti.
Dinamiche che tante volte hanno determinato anche allontanamenti dall’appartenenza ecclesiale; perché se tieni o spingi le persone sulla soglia, poi non puoi stupirti che a un certo punto queste decidano di uscire. Kairòs ha svolto in questi anni un servizio importantissimo anche da questo punto di vista, favorendo la ripresa di un cammino di fede da parte di diverse persone che (a volte anche da decenni) si erano allontanate.
Accanto alla conversione delle comunità, resta necessaria anche una conversione che parta da un ripensamento teologico delle questioni legate al mondo LGBT: questioni che – bisogna ammetterlo con onestà – sono assai complesse, com’è complessa d’altro canto la vita, com’è complesso quel cammino di fede che continua ad essere chiamata alla santità per tutti, omosessuali ed eterosessuali: un cammino però che non può che partire dalle condizioni reali e fragili nelle quali sempre ci troviamo.
Da questo punto di vista devo ammettere che l’esperienza con Kairòs mi ha creato anche “problemi”, nel senso che mi ha suscitato domande per le quali non è facile trovare risposte. Merita continuare a cercarle, evitando semplificazioni che non aiutano nessuno.
E sono tali sia quelle di chi si erge a difensore della morale cattolica, disprezzando ed emarginando le persone omosessuali, sia quelle di chi liquida la morale cattolica in ambito di sessualità come ridicola e interamente da buttare. Credo che, di fronte alla complessità delle questioni, l’atteggiamento migliore da assumere sia quello indicato da don Luigi Ciotti in una frase tratta dalla sua Lettera a un razzista del terzo millennio: “Non mi sento, comodamente e presuntuosamente dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è piuttosto un orizzonte da raggiungere. Insieme. Ma nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri” (p. 9).
Quanto è detto qui in relazione ai migranti può valere anche per le persone LGBT. Il mio augurio agli amici di Kairòs è che possiamo mantenerci in questa umiltà di chi continua a camminare nella vita e nella fede, non sentendosi a posto, ma ricercando insieme agli altri quella “giustizia” che è la volontà di Dio sulla nostra vita, sapendo che “Dio non fa preferenze di persone ma chi lo teme e pratica la giustizia è a lui accetto” (At 10, 34-35).
* Suor Fabrizia Giacobbe, della Congregazione domenicana Unione S. Tommaso d’Aquino, divide il suo tempo tra l’insegnamento e l’accompagnamento di quanti sono in cerca “di un Dio amico”, da alcuni anni accoglie e accompagna con la sua comunità di Firenze i cristiani LGBT del gruppo Kairos e i loro genitori. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo “Sulle tracce di un Dio amico. Vattimo e il cristianesimo” (Aleph Edizioni, 2012); un suo intervento sulla pastorale con le persone omosessuali è già stato pubblicato nel volume “Quali segni e prodigi Dio ha compiuto per mezzo di loro” curato da Gianni Geraci (ed. Viator, 2019)