Esserci. Sulle tracce delle suore del Saint Vincent’s che vollero accogliere i malati di AIDS rifiutati dai tutti
Articolo di Michael J. O’Loughlin* pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 24 gennaio 2020, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, prima parte
Un pomeriggio d’autunno mi trovavo in una piccola isola verde all’intersezione di tre caotiche strade di New York. Era l’ora di punta, il sole cominciava a tramontare. I newyorkesi, chiusi nelle loro preoccupazioni, erano appena usciti dal lavoro, e si affrettavano per il parco per recarsi all’happy hour.
Una coppia gay sedeva su una panchina, tenendosi per mano; alcuni bambini schiamazzavano e ridevano, fuggendo dai loro genitori dalle facce tiratissime. È possibile che molti dei newyorkesi che erano lì, all’AIDS Memorial Park, non sapessero nulla del luogo, e del fatto che serve a tenere viva la memoria di due cose: i più di 100.000 newyorkesi morti di AIDS a partire dall’inizio degli anni ‘80, e l’ospedale dove molti di essi hanno passato i loro ultimi giorni.
Camminai lungo il perimetro [del parco] e intravidi una serie di medaglioni circolari grigio scuro, delle dimensioni di un tombino, inseriti nella pavimentazione di un rosso sbiadito che circonda il parco. Quei medaglioni formano una serie di cerchi concentrici; su uno di essi, inserito nel cerchio più esterno, a tutte maiuscole è scritto QUI SORGEVA L’OSPEDALE SAINT VINCENT’S, 1849-2010. Più oltre si legge LE SUORE DELLA CARITÀ FONDARONO L’OSPEDALE PER PRENDERSI CURA DEI PIÙ POVERI E SVANTAGGIATI. In mezzo c’è l’immagine di una donna, e si riconosce il caratteristico copricapo delle Suore della Carità.
Continuai a camminare, fino ad arrivare lì dove ero diretto: il medaglione al centro contiene l’immagine di un nastro, e attorno al nastro è scritto EPIDEMIA INTERNAZIONALE DI AIDS, ANNI 1980, e poi NEL 1984 IL SAINT VINCENT’S APRì IL PRIMO E PIÙ GRANDE REPARTO DEDICATO ALL’AIDS DELLA COSTA ORIENTALE.
Un rifugio storico
L’ospedale Saint Vincent’s ha servito i poveri e gli indigenti fin dalla sua fondazione. Nei primi tempi, le suore si presero cura delle vittime di una terribile epidemia di colera, e le persone che si trovavano a bordo del Titanic quando affondò vennero portate qui. L’11 settembre 2001, essendo poco lontano dalle Torri Gemelle, l’ospedale accolse molte vittime degli attacchi.
Ma io ero più interessato a sapere cosa accadde qui negli anni ‘80, quando questo nosocomio cattolico divenne sinonimo di cure per l’AIDS, in particolare a favore di gay a basso reddito e tossicodipendenti, che non potevano permettersi ospedali più rinomati.
Oggi non è facile capire che questo luogo simbolo una volta stesse qui: la maggior parte dei suoi edifici sono stati convertiti in condomini milionari, ma qualcosa rimane: un cartello sopra un portone recita Entrata per gli infermieri, e c’è una scultura di una suora; sopra il portone principale di un altro edificio, un cartello avverte Ospedale St Vincent’s.
“Erano lì”
Mentre camminavo nei paraggi con un paio di amici, il microfono pronto a registrare interviste, ci fermò un uomo con i capelli grigi: voleva dirci qualcosa. Tom Bernarden si presentò: da decenni viveva in quel quartiere, e quando seppe che eravamo interessati alla storia dell’ospedale, ci parlò della sua ammirazione per le Suore della Carità, e del perché il Saint Vincent’s fosse stato così importante per la comunità LGBT all’apice dell’epidemia di HIV.
“Ho perso tutti i miei amici. Proprio così. Capite? Quando sono arrivato nel quartiere avevo 24 anni, oggi ne ho 70.” Gli chiedemmo delle suore, e fece una breve pausa; poi riprese “Erano lì”, ricordando che molta gente invece voltò le spalle ad una comunità LGBT che aveva bisogno di aiuto: “Erano lì”.
Tom Bernarden, una guida locale che afferma di essere il sindaco ufficioso del parco, aveva anche cose poco lusinghiere da dire sulla Chiesa Cattolica, che vertevano soprattutto sul denaro, ma era anche pronto a raccontare a dei perfetti sconosciuti quanto ammirasse le suore dell’ospedale, lodandole per aver prestato le cure necessarie quando tutti gli altri si erano dileguati.
Parlai ancora un po’ con Tom. Le cose che diceva mi facevano sorgere altre domande. Come aveva fatto quell’ospedale cattolico, che da più di un secolo veniva gestito da suore, diventare un rifugio sicuro per i gay durante l’epidemia di AIDS? Per rispondere, osserviamo la geografia dei luoghi: l’ospedale sorgeva in un quartiere dove vivevano molti gay, ma non è solo questo. Il posto di assoluta rilevanza del Saint Vincent’s nella storia dell’AIDS è dovuto alle pressioni degli attivisti, i quali sapevano che l’ospedale poteva fare molto di più, a un medico gay, pioniere nel campo dell’AIDS, assunto dal Saint Vincent’s, e a un gruppo di suore, le quali videro dei bisognosi e si chiesero “Cosa possiamo fare per dare una mano?”.
“Un grido d’aiuto”
In cerca di risposte, mi recai al Bronx, dove dal 1847, in riva al fiume Hudson, sta il College of Mount Saint Vincent. La squadra che dirige le Suore della Carità di New York ha qui i suoi uffici, e qui incontrai suor Karen Helfenstein: diplomata alla scuola di infermieristica del Saint Vincent’s, fece poi carriera fino a diventare una delle amministratrici dell’ospedale, e durante l’apice dell’epidemia di HIV era la vicepresidente delle missioni. Suor Karen mi disse che, in origine, ci furono degli screzi tra l’ospedale e la comunità gay.
Una sera di settembre del 1989 alcuni attivisti del gruppo radicale di protesta noto come ACT UP occupò la sala d’attesa del pronto soccorso, per via delle tensioni nella comunità gay a causa della proibizione cattolica del preservativo. I medici e i responsabili della salute consigliavano fortemente di usarlo per ridurre il rischio di contagio, ma gli ospedali cattolici di New York non erano autorizzati a distribuirli, per via della proibizione della Chiesa.
A prima vista sembrava che la protesta nel pronto soccorso fosse dovuta a questo, perché uno degli attivisti pose alcuni preservativi su una statua del Cristo risorto. Una parte dello staff dell’ospedale voleva denunciare questo atto irrispettoso, ma suor Karen e le altre suore fecero un passo indietro: “In realtà non ero arrabbiata. Sapevo cosa passavano quelle persone. Per me, era un grido d’aiuto”.
Il Saint Vincent’s era un ospedale cattolico, quindi le cure che forniva erano in linea con la dottrina della Chiesa, il che includeva occuparsi dei poveri, e anche dei gay e dei tossicodipendenti con HIV e AIDS. Questo voleva dire anche seguire l’etica sessuale della Chiesa, quindi niente distribuzione di preservativi da parte dei medici, che non potevano nemmeno consigliarli ai loro pazienti.
Ma suor Karen, assieme ad altre persone dello staff, lavorava con i medici per assicurarsi che i pazienti ricevessero tutte le informazioni necessarie per proteggersi da quella malattia, allora poco conosciuta: “Parlavamo con gli infermieri e i medici, secondo i quali, tra le responsabilità del loro mestiere, facevano parte le informazioni date ai pazienti su come potessero proteggere se stessi e i loro partner”.
Secondo suor Karen, c’era una relazione stretta tra l’ospedale, che forniva informazioni, e le farmacie dei paraggi, che fornivano preservativi.
* Michael J. O’Loughlin è corrispondente per gli Stati Uniti del settimanale gesuita America ed autore della serie di articoli e podcast della serie Plague (La peste: storie mai raccontate su AIDS e Chiesa Cattolica) Twitter:@mikeoloughlin
Testo originale: The Catholic Hospital That Pioneered AIDS Care