Prendersi cura. Sulle tracce delle suore del Saint Vincent’s che vollero accogliere i malati di AIDS rifiutati da tutti
Articolo di Michael J. O’Loughlin* pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 24 gennaio 2020**, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, seconda parte
Il dottor Ramón Torres fu (negli anni ’80) il primo direttore della clinica per l’AIDS all’ospedale cattolico Saint Vincent’s di New York. Sovrintendeva a decine di medici e infermieri e contribuì a costruire la reputazione dell’ospedale nelle cure dell’AIDS. Il dottor Torres, anch’egli gay, fece della clinica un luogo dove le persone LGBT potessero sentirsi al sicuro.
Durante la mia intervista mi disse che i pazienti ad alto rischio avevano bisogno di preservativi, soprattutto quelli senza fissa dimora, e si assicurava che li ricevessero, anche se era rischioso per lui. Non è che fosse proprio un segreto: nel 1993 sul New York Times comparve un articolo che diceva “Una persona che lavora alla clinica per l’AIDS del St. Vincent’s ha riferito di tenere nel suo ufficio dei preservativi da distribuire quando necessario”.
Tutto questo per dire che la protesta nella sala d’attesa non riguardava in realtà i preservativi, e suor Karen lo intuì molto presto: assieme ad altri si interrogò “Cosa dovremmo fare ancora per queste persone? Possiamo forse capire cosa vogliono?”.
Una delle organizzatrici della protesta era Gerri Wells, un membro di ACT UP cresciuta in una famiglia cattolica e il cui fratello era morto di AIDS. Oggi vive in Pennsylvania; abbiamo provato più volte a metterci in contatto con lei, ma senza successo. Nell’ambito del progetto di storia orale di ACT UP del 2007, comunque, Gerri Wells spiega perché fosse stato preso di mira il Saint Vincent’s: “[In quel periodo] sentivamo un sacco di storie brutte, di amanti che morivano, o che erano molto malati, e [al Saint Vincent’s] non era possibile, per i loro partner, visitarli. Le guardie giurate maltrattavano i gay”.
L’impeto della protesta sembrava inserirsi nel contesto del weekend della Festa dei Lavoratori, quando molti gay vennero aggrediti durante un festival drag. Una delle vittime venne portata al Saint Vincent’s: era vestita da drag queen, e disse che alcune persone dello staff si riferirono a lui come a una “prostituta”; altri lo chiamarono “frocio”. Al suo partner non venne concesso di accompagnarlo in pronto soccorso.
Tutto questo era abbastanza per Gerri, per la quale le proteste sembrarono funzionare. Ebbe una serie di incontri con alcune delle suore e come risultato i pazienti LGBT si sentirono più rispettati nell’ospedale: “Le incontravamo ogni due settimane e parlavamo di come cambiare le regole dell’ospedale. Ottenemmo ciò che volevamo, perché ci avevamo lavorato molto”.
Tutto grazie alla fede
Molte delle persone con cui ho parlato mi hanno detto che l’ospedale rifletté molto su come servire meglio la comunità gay e non a dispetto del fatto di essere cattolico, ma proprio perché lo era, perché le suore e gli altri amministratori presero sul serio la loro vocazione di aiutare i bisognosi.
Joan Blanchfield è un’infermiera in pensione, che oggi ha superato gli 80 anni. Ricorda come collegava il suo lavoro alla sua fede grazie a una particolare immagine di Gesù. Le persone malate di AIDS spesso sviluppano delle lesioni di colore viola scuro sulla pelle: il sarcoma di Kaposi.
Joan Blanchfield, che si era diplomata al Saint Vincent’s, ricorda come i pazienti tentavano invano di coprire le lesioni con il trucco. Il suo cuore si spezzava nel sentire che venivano discriminati quando comparivano le lesioni sulle braccia e sul volto. Ciò che la colpì fu un’immagine di Gesù malato di AIDS dipinta da padre William Hart McNichols, artista e attivista: “Era molto commovente, perché avevo un paziente con il sarcoma di Kaposi e lo vedevo soffrire come Cristo stesso aveva sofferto”.
Il dottor Christopher Mills era chirurgo al Saint Vincent’s. In principio, quando si sapeva poco dell’AIDS, non era infrequente sentire medici etero prendere sottogamba la malattia e raccontarci su battute da cabarettista, ma, man mano che l’epidemia avanzava, lo staff medico divenne più sensibile alla comunità gay: un cambiamento di mentalità dovuto anche ai numerosi colleghi gay, i quali, peraltro, non erano immuni alla malattia.
Il dottor Mills, morto pochi mesi dopo la nostra intervista, dovette un giorno fare una linea intravenosa a uno dei suoi colleghi, che si era ammalato. Il collega lo avvertì di stare molto attento al sangue: un modo in codice per dire che sapeva di avere l’HIV. Questo breve scambio di parole continuò a perseguitare il dottor Mills per decenni: la sensazione di essere senza speranza “era terrificante”. Più tardi, nella cappella dell’ospedale, condivise un ricordo del suo giovane collega: “Fu triste come nient’altro”.
Secondo molte delle persone che abbiamo intervistato, il Saint Vincent’s stesso lottava per fornire le cure giuste. L’omofobia era presente all’interno dello staff e le paure della società (del tempo) si facevano strada anche nel nosocomio, ma invece di arrendersi, persone come suor Karen e il dottor Torres, i cui percorsi di vita non avrebbero potuto essere più distanti, lavorarono insieme per assicurarsi che i pazienti del quartiere venissero curati con dignità e rispetto. Con questo impegno, un’istituzione cattolica è diventata un’icona della storia della lotta all’HIV negli Stati Uniti.
I cambiamenti nella sanità hanno poi portato alla chiusura del Saint Vincent’s nel 2010, lasciando il quartiere privo di un presidio sanitario completo. Una serie di fusioni con altri ospedali, miliardi di dollari di debiti e la dichiarazione del ministero della sanità secondo cui il quartiere del Greenwich Village non aveva bisogno di un ospedale, misero la parola fine alla storia del Saint Vincent’s. Suor Jane Iannucelli, membro dell’amministrazione in quel periodo, descrisse così la chiusura: “Penso sia la fine di un grande ciclo, la fine di un’era per le Suore della Carità”.
Tornati nel parco, Tom Bernarden deplora, a distanza di quasi dieci anni, la chiusura dell’ospedale, ma l’eredità del Saint Vincent’s continua, perché le suore hanno chiesto come potessero fare ancora di più per fornire le cure che i loro pazienti meritavano: “Le uniche persone che, seguendo la loro vocazione cristiana, si sono messe a prendersi cura dei malati sono state le Suore della Carità”.
* Michael J. O’Loughlin è corrispondente per gli Stati Uniti del settimanale gesuita America ed autore della serie di articoli e podcast della serie Plague (La peste: storie mai raccontate su AIDS e Chiesa Cattolica) Twitter:@mikeoloughlin
** Questo articolo è apparso anche nella versione a stampa del settimanale America il 3 febbraio 2020.
Testo originale: The Catholic Hospital That Pioneered AIDS Care