La crisi del sacerdozio al tempo del matrimonio omosessuale
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte settima
Tuttavia, l’immagine rimane sfocata, rendendo possibile vedervi altre immagini, e giustamente Benedetto XVI sembra averne paura; visto che la modernità ha portato all’abbandono del cattolicesimo (un fenomeno in crescita nella nostra tarda modernità), e quindi alla dissipazione dell’aura di sacralità che preservava l’effetto simbolico del sacerdozio, non sorprende che tale atipica performance di genere [il sacerdozio cattolico] debba sottostare a ciò che può essere definita una “svirilizzazione simbolica”: vale a dire che, all’interno dell’ordine di genere intra-mascolino, viene considerata “altra” e subordinata.
Tale svirilizzazione simbolica si è verificata in primo luogo per via del sospetto che incombe sul celibato sacrificale all’interno della “cultura eterosessuale”. È interessante notare come la Chiesa stessa sia responsabile di questo, avendo contribuito a instaurare l’egemonia di tale cultura, a partire dalla tardiva sacramentalizzazione del matrimonio nel XIII secolo, per finire, molto vicino a noi, con la glorificazione delle relazioni sessuali nell’ambito del matrimonio cristiano che troviamo nella “teologia del corpo” promossa da Giovanni Paolo II a partire dal 1997 [1].
In breve, sebbene la Chiesa abbia contribuito a promuovere il matrimonio eterosessuale fondato sull’amore (che oggi le persone omosessuali rivendicano, a grande scorno della Chiesa), nel fare questo ha anche contribuito alla diffidenza, da parte della cultura dominante, del celibato sacerdotale, che in precedenza veniva presentato come lo “stato di perfezione”; vale a dire che, nel promuovere la “cultura eterosessuale”, la Chiesa Cattolica ha in un certo senso agito contro se stessa, contribuendo al declino del simbolismo e del prestigio del celibato clericale sacrificale, che poneva il sacerdote al di sopra dei laici (uomini e donne), e aprendo la strada alle richieste di liberalizzazione da parte del clero stesso: pensiamo al grande numero di sacerdoti che negli anni ‘70 hanno abbandonato il sacerdozio per potersi sposare con una donna.
Rimane tuttavia il fatto che, a livello individuale, dato che il matrimonio eterosessuale rimane un obiettivo importantissimo per la società, il sacerdozio e la vita monastica sono stati tra le poche condizioni in cui fosse accettabile, per gli uomini, essere diversi.
Entrare nella vita clericale o religiosa veniva vista come un qualcosa di “naturale” per gli uomini allevati nella fede cattolica, ma che non si sentivano “chiamati” al matrimonio cristiano e a una vita eterosessuale attiva e stabile, o anche che cercavano inconsciamente di sfuggirla. Questa è senza dubbio la ragione principale del fatto che, all’interno del clero cattolico, gli uomini che esprimono una preferenza omosessuale siano in percentuale molto maggiore rispetto alla società, per quanto parzialmente invisibili fino ad oggi.
Inoltre, se seguiamo le argomentazioni del teologo David Berger, tale percentuale aumenta ulteriormente quanto più in alto si va nella scala della gerarchia ecclesiastica. Jean-Louis Schlegel così sintetizza l’analisi di David Berger: “Per secoli il modello cattolico di celibato sacerdotale ha attratto molti omosessuali: il ‘sacerdozio celibe’ era ‘sostanzialmente pensato per gli uomini con tendenze omosessuali’. Al tempo stesso, però, la Chiesa ha stigmatizzato l’omosessualità: uno stigma morale che ha dato via libera alla repressione da parte delle autorità e ha incrementato la sottomissione dei gay all’autorità della Chiesa. Secondo Berger, questo spiega perché (contrariamente a quanto in genere si pensa oggi) i preti gay hanno, per così dire, esagerato nelle loro professioni di lealtà al Papa e nelle loro posizioni conservatrici per quanto riguarda la dottrina e la disciplina: ‘I sacerdoti gay soffrono spesso di omofobia interiorizzata, che gestiscono pensando: Soffro per la mancanza di qualcosa, e devo compensare dimostrando un enorme zelo’. Questo modo di pensare forse spiega come mai, più in alto si va nella gerarchia, più gay si trovano” [2].
[1] Con questa mossa, Giovanni Paolo II ha rovesciato il tradizionale sospetto del Magistero romano verso la sessualità coniugale, ma senza modificare le norme che la Chiesa impone in tale ambito.
[2] È una teoria che sicuramente rende conto della percentuale molto alta di gay all’interno del clero cattolico, soprattutto nelle posizioni più alte, e della tendenza del clero, soprattutto quello omosessuale, ad essere complice della mascolinità egemonica. Il suo punto di vista astorico, tuttavia, è la sua debolezza, in quanto non spiega le condizioni storiche della sua manifestazione più recente, vale a dire il sempre maggior numero di sacerdoti che non solo riconoscono le proprie preferenze omosessuali, ma che hanno interiorizzato la possibilità [di essere omosessuali], e anche i codici con cui esprimerla. Non prende nemmeno in considerazione la posizione del suo autore: uno dei pochi teologi romani laici, non clericali, e non spiega quindi la sua capacità di rivelare segreti imbarazzanti.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage