Il movimento omosessuale visto da Gianni Geraci: la battaglia per i diritti LGBT nell’Italia degli anni ’80
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Intervista di Giacomo Vitali a Gianni Geraci del Guado, gruppo di cristiani omosessuali di Milano, terza parte
Come e in quali circostanze inizia la tua battaglia per l’uguaglianza e quindi per il riconoscimento dei diritti civili delle persone omosessuali nella Milano degli anni ’80? C’è una data particolarmente significativa o un incontro che segna per te l’inizio di quella lotta? Quando si manifestano le prime divisioni in seno al movimento omosessuale?
Gianni Geraci: Negli anni Ottanta ero un cattolico molto impegnato nella mia parrocchia, cercavo di capire quale fosse la mia vocazione in senso lato, e questa era la mia preoccupazione principale. In politica ci sono entrato mal volentieri solo perché nel mio comune d’origine, a Porto Valtravaglia, mi hanno chiesto di occuparmi di cultura.
Devo ammettere che in questo ruolo ho avuto un discreto successo, l’unico inconveniente di questa situazione era che la mia vita privata non esisteva più. Il mio impegno nel movimento omosessuale ha coinciso con una sonora sconfitta politica sul piano amministrativo: abbiamo perso le elezioni e non sono stato rieletto.
Ho iniziato a essere meno presente nel mio paese d’origine e ho preso contatto con l’Arcigay di Varese, la città in cui avevo aperto una libreria e dove, nel frattempo, mi ero trasferito. In quegli anni il movimento omosessuale aveva deciso di dedicare tutte le sue energie alle attività di prevenzione dell’AIDS: avevamo messo in piedi un gruppo di volontari ed organizzato dei corsi di formazione.
Il nostro servizio di supporto telefonico aveva ottenuto il riconoscimento degli enti pubblici e la lotta alle malattie sessualmente trasmissibili era diventata la ragion d’essere di una buona parte del movimento omosessuale, che iniziava a confrontarsi con le istituzioni sul tema della prevenzione e dell’informazione.
L’HIV aveva portato poi il movimento omosessuale a rivalutare l’importanza delle relazioni di coppia, che prima erano snobbate nel nome della liberazione sessuale: queste sono le premesse per la scelta, compiuta nella metà degli anni Novanta, di porsi come obiettivo quello di arrivare a una legge che portasse, attraverso il riconoscimento delle unioni civili, al riconoscimento delle relazioni di coppia omosessuali.
L’obiettivo del riconoscimento delle relazioni di coppia non era però condiviso da una parte del movimento che, da un lato contestava il fatto che si prendesse come modello di riferimento un istituto “borghese” come il matrimonio eterosessuale, dall’altro contestava il fatto che il tentativo di portare a casa una legge di questo tipo rischiava di far perdere al movimento omosessuale quella linea contestatrice che l’aveva sempre caratterizzato.
Si riproduceva ancora una volta la divisione tra chi pensava che il movimento omosessuale dovesse avere un collegamento organico con i partiti di sinistra e chi, invece, dopo aver visto nel Partito Radicale, da sempre de costruttivista e post strutturalista, un interlocutore privilegiato, sosteneva che l’unica strada percorribile era quella di non creare nessun collateralismo.
Giacomo: Dall’impegno nella sezione DC del tuo paese all’Arcigay di Varese, fondata nel 1985 e capitanata a livello nazionale da Franco Grillini, sono stati anni di grande fermento, di formazione della tua coscienza umana e cristiana, e di una passione politica ad ampio spettro. La tua esperienza è in un certo senso paradigmatica del percorso di vita di altri ragazzi e ragazze omosessuali che vivono il clima incandescente di quegli anni, soprattutto a partire dalla diffusione dell’HIV, che segna un punto di rottura e di non ritorno sulla strada delle battaglie per i diritti civili.
Si passa dalla “trasgressione” nella clandestinità dei primi tempi, dalla fine degli anni ’50 e 60 all’inizio degli anni ’80, alla costruzione più matura di un’autocoscienza propria ed originale, si abbandona la contestazione antiborghese della famiglia e del matrimonio e si abbraccia gradualmente l’ideale della vita di coppia, pur scevra di qualunque connotazione sacrale.
Il movimento omosessuale si lega così sempre di più all’area politica della Sinistra Democratica postcomunista rendendo irrilevanti e marginalizzando ipso facto le componenti radicale ed anticollaterale. Tu, da democristiano, come ti poni in quel contesto politico di matrice comunista e socialista?
Gianni: Gli anni del mio approdo in Arcigay erano anche gli anni dell’attenzione alle minoranze all’interno del movimento omosessuale. Ricordo ancora la mia prima assemblea del circolo di Varese in cui il presidente pretese che, tra i membri del direttivo, ci fossero un cattolico, una donna e un eterosessuale.
In realtà in Arcigay l’attenzione al mondo cattolico era sempre stata molto forte e, al di là delle polemiche che ci furono con il ministro democristiano Donat Cattin (che disse che l’AIDS era una malattia che “ci si andava a cercare”), ci furono altri ministri, come Rosy Bindi, con cui si stabilì una collaborazione molto soddisfacente. L’atteggiamento “ecumenico” che Franco Grillini era riuscito a imporre ad Arcigay aveva portato il movimento omosessuale a confrontarsi anche con la Lega Nord: nel 1994 fu proprio Roberto Maroni il primo ministro degli Interni che accettò di incontrare una delegazione delle associazioni omosessuali e, a Varese, la mia città, il sindaco leghista Fassa partecipava spesso alle nostre iniziative.
Quando nel 1996 sono diventato presidente del Guado, un gruppo di omosessuali credenti, Arcigay ha continuato ad invitarmi ai suoi Congressi e ai suoi direttivi. Si pensava erroneamente che l’emancipazione degli omosessuali in Italia non potesse non passare da un tacito assenso del mondo cattolico e che le istituzioni cattoliche fossero pronte per darlo questo tacito assenso.
Questa attenzione mi ha spinto ad approfondire la possibilità di percorrere strade nuove nella ricerca di una sintesi tra cattolicesimo e omosessualità. È in quegli anni che inizio a frequentare come uditore le lezioni della Facoltà di Teologia dell’Università di Lugano, ed è sempre in quegli anni che cerco di capire quali spazi ci potessero essere per una valorizzazione dell’omosessualità nella tradizione cattolica.
La scoperta delle opere di John Boswell, storico, da questo punto di vista è stata decisiva: mi ha fatto capire che, soprattutto fino al XIV secolo, accanto a una lettura molto dura dell’esperienza omosessuale, c’era stata, all’interno delle chiese cristiane, una lettura molto più inclusiva.
Giacomo: Ti ringrazio per questa breve cronistoria di Arcigay e del suo rapporto con i partiti della prima e seconda Repubblica. Essa aggiunge alla nostra intervista elementi fondamentali per poter stimare l’apporto, pur minoritario, delle componenti politiche di matrice non marxista alla costruzione di un pensiero omosessuale, a beneficio di un più generale pluralismo culturale.
Per quanto concerne invece il rapporto fra omosessualità, persone omosessuali e Chiesa cattolica, sappiamo che, a fronte di due papati dall’impostazione “internamente” conservatrice e accentratrice (ma con una forte proiezione in ambito internazionale), quelli di Wojtyla e Ratzinger; con l’attuale pontificato (di papa Francesco) si prefigurano scenari inediti che potrebbero far pensare – per il momento soltanto sul piano pastorale – ad una rivisitazione della dottrina sulla sessualità, sulla contraccezione e sugli atti omosessuali.
Un piccolo segnale positivo, oltre al riaffermarsi del primato della libertà di coscienza, è arrivato dalla pubblicazione del documento “Che cos’è l’uomo?”, della Pontificia Commissione Biblica, che fornisce la corretta interpretazione dell’episodio di Sodoma e Gomorra: il peccato di violazione dell’ospitalità.