Il movimento omosessuale visto da Gianni Geraci: perché metterci la faccia contro le discriminazioni
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Intervista di Giacomo Vitali a Gianni Geraci del Guado, gruppo di cristiani omosessuali di Milano, quinta parte
Passiamo ora ad assumere una prospettiva diacronica ad ampio raggio e parliamo brevemente della “storia delle discriminazioni” nel nostro paese. Tra le categorie sociali più discriminate nella nostra storia troviamo ebrei, rom, “matti” e, nella storia coloniale più recente, i “neri” che, per noi italiani “brava gente”, erano eritrei, somali e soprattutto etiopi.
Nel novembre del ’38 saranno emanate in Italia le leggi razziali, ma già nel ’37 Mussolini introduce il divieto di matrimoni misti. In questo contesto gli omosessuali non sono solo apparentemente discriminati dal regime, si preferisce infatti non parlarne: il “si fa, ma non si dice” è la regola, ma sappiamo, sulla base della ricca documentazione e delle testimonianze orali dei sopravvissuti, che ad Auschwitz saranno internate anche migliaia di persone omosessuali, costrette a portare un triangolo rosa cucito sulla divisa.
E vengo alla domanda: quale eredità storica, secondo te, ha lasciato in Italia questa persecuzione nella memoria collettiva, nell’immaginario e nella percezione degli omosessuali dal secondo dopoguerra fino al XXI secolo?
Gianni Geraci: In realtà anche gli omosessuali vennero perseguitati durante il ventennio fascista, come racconta in maniera molto ammiccante il libro La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista che Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio hanno pubblicato con Donzelli nel 2006.
Tra l’altro quel tipo di persecuzione evidenzia uno stile tipico delle dittature: quello di non considerare necessario il supporto di leggi specifiche per perseguitare qualcuno: la scelta fatta dal codice Zanardelli del 1990 di non includere la sodomia tra gli illeciti penali non viene modificata.
D’altro canto, anche nell’Italia democratica del secondo dopoguerra gli omosessuali andavano incontro a guai con la giustizia anche in assenza di norme legislative specifiche, basti pensare alla condanna di Aldo Braibanti per plagio o alle ripetute condanne per oltraggio al comune senso del pudore che hanno accompagnato inchieste come quella sui “balletti verdi” nel 1960.
Per questo motivo, secondo me, è ancora più scandaloso il fatto che non si sia sviluppato, tra gli omosessuali del XXI secolo, alcun atteggiamento inclusivo nei confronti delle diversità. Da anni collaboro con l’associazione Il grande Colibrì, che si occupa di omosessualità e interculturalità, e che dedica una particolare attenzione a tutte le minoranze.
Tutte le volte in cui ci confrontiamo con l’atteggiamento della minoranza omosessuale nei confronti dei diritti delle altre minoranze ci accorgiamo che, al di là delle scelte politicamente corrette delle associazioni LGBT, sono diffusissimi innumerevoli pregiudizi nei confronti degli stranieri, nei confronti delle persone di colore, nei confronti di alcune minoranze religiose, in particolare quelle islamiche.
Più di una volta, nel constatare il razzismo di qualche omosessuale, mi è capitato di pensare: «A questo qui l’omosessualità non è servita proprio a niente!». Da questo punto di vista direi che la minoranza omosessuale non è per nulla diversa e, quindi, condivide gli stessi meccanismi di inclusione e di esclusione che hanno gli eterosessuali. L’unica differenza significativa si registra sul tema dei diritti civili, dove l’appartenenza a una minoranza porta ad una maggiore sensibilità.
La scelta del regime fascista di non includere la sodomia tra i reati penali, e quindi di “tollerare” i comportamenti omosessuali, mi richiama alla mente recenti documentari, curati da Focus Storia, che testimoniano l’omosessualità dichiarata del capo delle SA naziste, Röhm, e del gerarca responsabile della propaganda del Reich, Joseph Goebbels: è ipotizzabile che anche tra i gerarchi fascisti si nascondesse qualche personaggio omosessuale, chissà…
È paradossale inoltre, come sottolinei tu, che una parte consistente delle persone omosessuali, discriminate all’inizio del loro percorso di scoperta di sé e di emancipazione dall’omofobia interiorizzata, discriminino a loro volta altre minoranze, verso le quali dovrebbero invece manifestare simpatia, solidarietà e soprattutto empatia.
Dal punto di vista antropologico e culturale quali furono, ma sono ancora oggi, le caratteristiche ed i tratti di alterità, di minaccia per l’ordine sociale e per la sicurezza pubblica, e di pericolosità sociale, attribuiti agli omosessuali? Sappiamo infatti che la storia, come diceva lo storico Vico, è fatta di “corsi e ricorsi”.
In questo senso c’era e c’è ancora una paura recondita di intaccare la “purezza eterosessuale” e del “matrimonio cristiano” riconoscendo in tutti gli ambiti di vita, lavoro, società, mondo della cultura e sport, religione, pari dignità alle persone omosessuali?
Fino agli anni Novanta del secolo scorso la maggior parte delle persone omosessuali nascondeva la propria omosessualità e quindi tutti gli atteggiamenti sociali che c’erano nei confronti delle persone omosessuali erano condizionati dall’immagine che ne davano i mezzi di comunicazione. E com’era questa immagine?
Grazie a un ciclo di incontri che il Guado ha dedicato alla storia delle rappresentazioni dell’omosessualità che la cultura italiana ha dato nel secondo dopoguerra, sono riuscito a farmene un’idea abbastanza precisa. In quel contesto ci siamo imbattuti in una testimonianza tragicamente illuminante contenuta in un libro, pubblicato nel 1958, in cui Carlo Camilleri, un commissario di polizia, racconta le sue memorie.
Ecco di seguito il brano a cui mi riferisco: «L’inversione sessuale è connessa ad uno stato di immoralità, il più delle volte costituzionale e spesso è causa occasionale di reati, anche gravi. (…) Lo stato d’immoralità costituzionale degli omosessuali resiste a qualsiasi intervento della polizia.
Gli omosessuali sono generalmente predisposti al delitto. (…) Il loro stato di immoralità costituzionale costituiva quasi sempre l’occasionalità per la perpetrazione di delitti. Molti invertiti, da me interrogati, riconoscevano la colpevolezza e l’ignominia della loro turpe passione, ma non potevano spiegarne la genesi, dichiarando, però, energicamente di non poterla vincere e di essere impossibilitati ad emendarsi.
La pederastia è uno dei mali sociali più pericolosi, che dovrebbe preoccupare seriamente i legislatori, poiché, oltre ad estrinsecarsi a danno della pubblica morale, dà luogo a gravi azioni criminose, tra cui primeggiano il ricatto per evitare uno scandalo, il furto, la truffa, la violenza e spesso l’omicidio.
I pervertiti, alla anomalia sessuale, accoppiano sempre altre anomalie etiche, che li conducono al delitto. (…)
Tenacissimi nelle loro torbide passioni, gli omosessuali, non si vergognano del loro stato e si adattano ad ogni bassezza pur di soddisfare le loro insane voglie» (cfr. Polizia in azione. Incursione nel mondo che ho combattuto, Ordine Pubblico, Roma, pp. 35-38). L’unica forma di omosessualità socialmente accettabile era quella della macchietta effemminata, alle prese con il dramma di avere «una psiche femminile intrappolata in un corpo maschile».
Nel maggio del 1971, in piena rivoluzione sessuale, un accademico come il neurologo Andra Romero, pubblicava su La Stampa un articolo intitolato: «L’infelice che ama la propria immagine» in cui recensiva il libro “Diario di un omosessuale pubblicato” da Feltrinelli (una casa editrice considerata allora molto progressista) in cui Giacomo D’Aquino, uno psicanalista cattolico che sarebbe poi diventato molto famoso, aveva trascritto i verbali delle sedute di terapia di un suo paziente gay che, a suo dire, «era stato redento dall’omosessualità» grazie alle sue cure.
La cosa scandalosa è che quando la persona che si è riconosciuta nel libro di D’Acquino, ha chiesto ad Angelo Pezzana, un libraio torinese, di mandare al quotidiano torinese una lettera di rettifica in cui si diceva che il protagonista della storia non era stato affatto «redento dall’omosessualità», il direttore che era nientepopodimeno che Alberto Ronchey, ha fatto rispondere che: «di certi argomenti si era parlato fin troppo».
Questo episodio ha insegnato agli omosessuali che si incontravano nella libreria di Pezzana che, se non volevano più che altri si appropriassero delle loro storie, stravolgendole per adeguarle ai loro stereotipi, dovevano metterci la faccia, dovevano “venir fuori”. E non credo sia un caso se il movimento che nacque da quell’episodio si chiamò, appunto, FUORI, una sigla che stava per “Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano”.
Con il passare degli anni lo spirito antagonista e rivoluzionario si è affievolito anche perché le persone che diventavano visibili molto spesso non si riconoscevano in un antagonismo rivoluzionario che era ormai in crisi.
Negli anni Novanta gli omosessuali hanno iniziato a dialogare con le istituzioni: con i sindaci per ottenere degli spazi; con i questori perché gli omosessuali fossero difesi dalle aggressioni e dai ricatti; con le strutture sanitarie per combattere l’AIDS; con la politica per iniziare a chiedere il riconoscimento di alcuni diritti che si stavano affermando anche nel resto dell’occidente.
Ed è stato a questo punto, quando degli omosessuali “normali” hanno chiesto di essere trattati per quello che sono, ovvero da persone “normali” che è iniziata una narrazione in cui gay e lesbiche sono stati presentati come nemici del matrimonio e come agenti di una fantomatica “ideologia” che aveva nell’eliminazione delle differenze di genere il suo principale obiettivo.
Si trattava chiaramente di accuse assurde che, con il tempo, si sono smontate e che ora debbono fare i conti con la normale visibilità di migliaia di coppie dello stesso sesso che vivono in tutta Italia. Si potrebbe dire che la “normalità”, riconosciuta ormai da quasi tutti gli italiani, sia una conquista che non verrà mai messa in discussione.
Quello che è successo però nella Germania nazista, dove gli spazi conquistati dagli omosessuali durante la Repubblica di Weimar sono stati distrutti nel giro di qualche mese e nella Russia contemporanea, dove la tranquillità conquistata dopo la fine del comunismo si è trasformata in una persecuzione sempre più serrata, dicono che nessun diritto viene mai “conquistato per sempre”.
La persecuzione delle persone omosessuali in Italia sembra acuirsi più nel dopoguerra, negli anni ’50 e ’60, quando l’omosessualità, considerata in sé e per sé moralmente degradante, viene accostata ed assimilata alla pedofilia, un refrain che ritorna oggi nelle frange ultraconservatrici della Chiesa cattolica che identificano nell’omosessualità la causa degli abusi di minori nel clero.
Dagli anni ’70 fino agli anni ’90 si sviluppano poi le così dette terapie riparative, volte a correggere l’orientamento sessuale degli uomini gay, sdoganate dallo psicoterapeuta clinico americano Joseph Nicolosi, parallelamente però nascono anche movimenti rivoluzionari di liberazione, come il torinese “FUORI”, apripista per le altre organizzazioni LGBT delle maggiori città italiane. È proprio invece negli anni ’90 che si registrano due tendenze opposte: mentre le istituzioni si aprono al dialogo con le associazioni gay, inizia purtroppo una seconda ondata repressiva.
Nel ’97 la scrittrice dell’Opus Dei Dale O’ Leary pubblica il saggio “the gender agenda”, con cui accusa le organizzazioni LGBTQI di voler cancellare la differenza sessuale uomo – donna e di portare avanti programmi per la decostruzione dei generi e dei sessi in seno agli organismi delle Nazioni Unite. Da questo j’accuse si dipana l’odierna campagna antigender promossa da papa Benedetto XVI dal 2012 e rilanciata da papa Francesco.