Il movimento omosessuale visto da Gianni Geraci: una storia da ricostruire
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Intervista di Giacomo Vitali a Gianni Geraci del Guado, gruppo di cristiani omosessuali di Milano, sesta parte
Per concludere, approfondiamo il rapporto fra single Story, della maggioranza, e plural stories, delle minoranze latamente intese. Al capitolo sei del suo saggio, “L’istinto di narrare”, Jonathan Gotschall, antropologo, dice che anche «la Storia è una storia», e cita l’esempio della leggenda che avvolge la figura di Cristoforo Colombo, ritratto nei manuali di storia come conquistatore benevolo e amico degli indios.
Pensiamo a come sarebbe andata a finire se adesso studiassimo invece quella storia, la storia della colonizzazione del continente americano, dal punto di vista delle popolazioni indigene.
È possibile, secondo te, decostruire la Storia d’Italia e ricostruirne un’altra, più aderente alla realtà, una controstoria o contronarrazione degli ultimi quarant’anni dal punto di vista dei “subalterni” omosessuali? In fondo, ancora negli anni Settanta l’omosessualità era malattia, peccato e reato.
Gianni Geraci: Questa domanda mi ripensare a quando, verso la metà degli anni Novanta, sono diventato per la prima volta presidente del Guado, il gruppo di riflessione su fede e omosessualità, in cui sono impegnato ancora adesso.
Proprio in quei mesi un amico che insegna Storia in Statale mi ha parlato di un libro che era appena stato pubblicato negli Stati Uniti in cui George Chauncey, uno storico della Yale University, ricostruisce la storia degli omosessuali della città basandosi su diari, interviste, memoriali e altro materiale primario (Cfr. Gay New York: Gender, Urban Culture, and the Making of the Gay Male World, 1890-1940, Basic Books, 1994). Abbiamo così deciso di approfittare del fatto che il Guado fosse frequentato da persone piuttosto anziane per tentare di recuperare la memoria collettiva della minoranza omosessuale in Italia.
Il ciclo di conferenze che è scaturito da quell’idea è stato molto interessante e ha permesso di ricostruire la storia degli omosessuali italiani dal punto di vista di chi non aveva voce. Lo stesso lavoro hanno fatto Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio nel libro che ho già citato. Antonio Veneziani (Cfr. La gaia vecchiaia. Anziani omosessuali si raccontano, Coniglio editore, 2006) e soprattutto Cristoforo Magistro (Cfr. Adelmo e gli altri. I confinati omosessuali in Lucania, Ombre Corte, 2019). Si tratta di una scelta vincente, perché Andrea Pini, che per scrivere il suo “Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia di una volta” (Il Saggiatore, 2011), che ha invece attinto ai media tradizionali, ha ottenuto dei risultati molto più scontati e modesti.
In anni più recenti, sempre al Guado, siamo riusciti a ricostruire la storia del movimento omosessuale italiano. In questo caso, però, credo che si tratti più di una “narrazione” che di una “contronarrazione”, perché in realtà chi l’ha raccontata (da Franco Grillini ad Angelo Pezzana, da Giovanni Dall’Orto a Mattia Morretta, da Maurizio Bellotti a Felix Cossolo) non solo ha vissuto in prima persona gli episodi a cui si riferiva, ma è stato anche la fonte a cui, chi ha poi tentato di scrivere una storia ufficiale, ha attinto il materiale di cui si è servito (Cfr. Gianni Rossi Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, 1999; Myriam Cristallo, Uscir Fuori. Dieci anni di lotte omosessuali in Italia: 1971-1981, Teti, 1999; Franco Grillini, Laura Maragnani, Ecce omo. 25 anni di rivoluzione gentile, Rizzoli).
Direi quindi che il lavoro di decostruzione e di ricostruzione della storia degli omosessuali italiani dagli anni ottanta in poi non solo è possibile, ma è anche stato in gran parte fatto, visto che, per restare all’interno della suggestione che richiami nel testo della domanda, forse la parte che ne è uscita sconfitta, è quella che, all’inizio degli anni ottanta, sembrava sicuramente vincente.
Il lavoro di decostruzione della storia del movimento omosessuale e di ricostruzione di un’identità sessuale matura da parte dei protagonisti di quella stessa storia è un’opera preziosa che merita di essere adeguatamente approfondita.
Mattia Morretta, che tu citi, psichiatra, psicoterapeuta e sessuologo, ex presidente dell’Associazione Solidarietà AIDS di Milano, propone una sua interpretazione originale della storia del mondo gay italiano e delle sue prospettive nel saggio “Che colpa abbiamo noi, limiti della sottocultura omosessuale”, del gruppo editoriale Viator. L’autore si chiede, a fronte del tramonto prossimo dell’epoca delle rivendicazioni dei diritti e dell’imitazione dell’eteronormativismo, quale contributo positivo umano e socio – culturale le persone omosessuali possano dare alla società in cui vivono in termini di “doveri”.
La trasgressione non solo non paga più, ma ha avuto anche costi umani molto alti – soprattutto nel mondo omosessuale maschile – come comportamenti sessuali a rischio e promiscuità da una parte, e dall’altra il radicamento nella popolazione italiana dello stereotipo del gay vizioso effeminato e macchiettistico, che scontra sempre un difetto di essenzialismo e riduzionismo.
In un excursus storico – letterario molto pregevole Morretta, criticando aspramente la deriva ideologica delle associazioni LGBTQI dagli anni ’80 in poi, recupera sapientemente esperienze culturali innovative, come quella di Pier Paolo Pasolini e nella musica italiana di Giuni Russo, una mistica contemporanea. Infine propone, al di là di steccati ideologici e di barriere culturali, etniche e religiose, la valorizzazione dell’amicizia tra uomini omosessuali come forma di riscatto e di maturazione di un’autocoscienza, perché è solo nel confronto tra diversi, ma simili, che si può veramente crescere.
Conclusioni
“La memoria rende liberi” è il titolo di una recente autobiografia della senatrice Liliana Segre, che fa il verso all’insegna di Auschwitz “Arbeit macht frei”. L’importanza di coltivare e custodire la memoria dei nostri padri è riemersa in questo tempo di pandemia e mi ha indotto a proporre a Gianni Geraci di scavare negli “archivi della mente” per ripercorrere le tappe della storia dell’emancipazione omosessuale, che pure rimane, in alcuni ambiti, come quello ecclesiale o religioso in genere, ancora incompiuta.
La vicenda personale di Gianni, che nasce in un ambiente di provincia, un paesino del varesotto, è estremamente interessante sotto due punti di vista. Innanzitutto perché la sua storia personale si intreccia con la Storia d’Italia degli ultimi quarant’anni e contemporaneamente con la “microstoria” della minoranza omosessuale, potremmo dire un cammino di redenzione laica: dalla clandestinità alla trasgressione, dalla ribellione alla liberazione, dall’inerte passività all’attivismo protagonista, dalle condanne alle riabilitazioni, dal separatismo alla piena integrazione.
In secondo luogo dobbiamo considerare che per Gianni raccontarsi ai giovani rappresenta una “missione”: già agli inizi della sua esperienza di portavoce del coordinamento dei gruppi di omosessuali cristiani, quando qualcuno gli chiedeva perché mai si impegnasse in prima linea e si esponesse così tanto, pagando di persona, per rendere visibili gli invisibili, lui ha sempre risposto che lo faceva per garantire un futuro alle nuove generazioni.
Una resistenza personale civile, paragonabile per certi versi alla “Resistenza e resa” del pastore luterano antinazista Bonhoeffer, perché noi ragazzi e ragazze omosessuali credenti del ventunesimo secolo potessimo essere liberi ed accolti nella nostra Chiesa.
D’altronde è lo stesso Gesù che nel Vangelo di Luca, al capitolo 11, 9-10, dice: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.” La storia di Gianni è infine affascinante per la sua complessità: essa rende ragione della poliedricità e della unicità delle nostre identità personali, siano esse eterosessuali o omosessuali. La teologa queer femminista e monaca benedettina catalana Teresa Forcades, passata agli onori della cronaca europea per le sue posizioni scomode(io direi “profetiche”) sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa e per la sua apertura al matrimonio egualitario e alle adozioni gay, parla a questo proposito di un cammino più precisamente di “cristificazione” della persona.
Da appassionata ai gender studies, da cui la sua cattedra di Teologia queer a Berlino che condivide con una pastora protestante, traccia nel suo saggio “Per una teologia queer, siamo tutti diversi”, un percorso, personale e comunitario – relazionale, di riconoscimento, promozione e valorizzazione delle diversità di ciascuno. La sua condizione di monaca di clausura, al contempo docente, medico e divulgatrice –unicum nella storia recente della Chiesa cattolica- le ha consentito di elaborare un nuovo pensiero femminista, in cui si sforza di coniugare il femminismo della differenza sessuale della seconda ondate con il femminismo dell’uguaglianza della prima ondata. Suor Teresa parte infatti dalla consapevolezza che si nasce maschi o femmine, sessuati, e che quindi nell’infanzia ed adolescenza avviene un processo di differenziazione sessuale, una costante che le antropologhe statunitensi Ruth Benedict e Margaret Mead ravvisano in tutte le civiltà umane.
Nel tempo tuttavia, nel corso del processo di crescita, la differenza sessuale non è più sufficiente a spiegare l’originalità di cui sono portatrici le persone e che esse esprimono. In questa intuizione, che si rifà alla teologia paolina(“Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”) si innesta il pensiero femminista dell’uguaglianza: siamo tutti “pezzi unici”, uguali in dignità, ma tutti diversissimi l’uno dall’altro, non semplicemente come uomini e donne, ma come persone co-creatrici dell’opera di Dio e in lui cristificate. La stessa vita di Gianni Geraci può essere presa a modello di quest’esperienza umana: nessun percorso di vita è mai propriamente del tutto lineare, piano e in discesa.
Nasciamo maschi e femmine, diventiamo uomini e donne e per tutta la vita lottiamo per umanizzare le nostre relazioni e soprattutto per umanizzarci come persone. In questo cammino i conflitti e le sofferenze, i fallimenti e i successi, e quindi le gioie della consolazione acquistano nuovo significato alla luce dei passi compiuti verso la meta finale, il fine, consapevoli come credenti che “la nostra vita è pellegrinaggio, del cielo siamo fatti: ci soffermiamo un po’ qui e poi riprendiamo la nostra strada”.