Il mio amore non può farti male. Paterlini e la “Vita (e morte) di Harvey Milk”
Dialogo di Silvia Lanzi con lo scrittore e giornalista Piergiorgio Paterlini
Ci sono un pugno di personaggi del mondo LGBT, Oscar Wilde, Gertrude Stain, Alan Turing, Virginia Woolf (per citarne solo alcuni dei più noti) che tutti conoscono per i loro meriti artistico-scientifici. C’è ne sono altri, parlo ad esempio di Sylvia Rivera, Vito Russo, Audre Lorde e Mario Mieli che invece sono noti solo agli “addetti ai lavori”.
Tutti però conoscono Harvey Milk, attivista, politico e martire, assurdo agli onori della popolarità grazie all’omonimo film del 2008 di Gus Van Sant con Sean Penn.
A riproporne questa figura, in chiave un po’ particolare, come vedremo, è il giornalista Piergiorgio Paterlini che nel libro “Il mio amore non può farti male – Vita (e morte) di Harvey Milk” uscito un paio d’anni fa per i tipi di Einaudi Ragazzi, ne traccia un vivido ritratto.
Da dove è nata l’idea di proporre una figura così complessa, come quella di Harvey Milk, a dei lettori adolescenti?
Devo essere onesto ma non mi dispiace affatto dirlo, al contrario. L’idea non è venuta a me ma all’editore, che da sempre è un editore libero e coraggioso, il primo in Italia, decenni fa, a proporre narrativa “LGBT”, come si direbbe oggi, proprio rivolta agli adolescenti.
Ricordo il bellissimo romanzo di Aidan Chambers, “Un amico per sempre” (poi “Danza sulla mia tomba“, Rizzoli) che le Edizioni Einaudi Ragazzi ha pubblicato già nel lontano 1997, anche se con un titolo un po’ generico che non lo individuava immediatamente come quel “romanzo gay” che è. In ogni caso è stato l’editore a propormi di scrivere questo libro, lasciandomi completamente carta bianca su tutto, e quando dico tutto intendo proprio tutto: approccio, scrittura, scelte. Questa fiducia e libertà assoluta – che avevo già sperimentato – mi hanno definitivamente convinto.
Ha dovuto in qualche modo “semplificare” il personaggio visto il pubblico cui il libro è rivolto?
Sinceramente non so se io abbia semplificato il personaggio, credo di no. Anzi. Non sono nemmeno sicuro che il mio sia un libro per “giovani adulti”. Certo, ho tenuto conto della fascia d’età cui era rivolto, ma credo sia un libro per tutti e, alla fine, racconti un Harvey Milk molto complesso, quale credo fosse.
Un libro che non fa apologia e nemmeno sconti, a differenza – se posso permettermi – del film di Gus Van Sant con Sean Penn (otto candidature e due Oscar), che può permettersi di farne un eroe tutto d’un pezzo limitandosi a raccontarne gli ultimi anni di vita, dal momento in cui Milk diventa un attivista convinto.
Io do molto spazio invece anche ai suoi primi quarant’anni, durante i quali era stato una persona confusa, contradditoria, uno che aveva lasciato un fidanzato proprio perché non sopportava la sua militanza, un gay represso e che si nascondeva, un uomo che – negando il proprio orientamento sessuale – non aveva idea di cosa fare nella e della sua vita, tant’è che ha cambiato mille mestieri.
Io – sempre se posso permettermi – apprezzo molto di più e comunque trovo assai più affascinante un uomo che ribalta la sua vita a quarant’anni, che ci dice che mai nulla è perduto, fino all’ultimo istante, che si può cambiare, che non siamo prigionieri del nostro passato, un uomo che trova faticosamente la propria strada mutando radicalmente rotta, che non una persona che sembra nascere già “imparata”, senza contraddizioni, senza conflitti, senza fatica, senza dolore, senza errori. Spero sia un libro che si legge facilmente, ma non è un libro “facile”. Sono due cose diverse.
Perché l’espediente di scrivere in prima persona?
Scrivere in prima persona è diventato, negli anni, il mio stile preferito. E per certi libri trovo sia quasi indispensabile. Il protagonista si rivolge direttamente al lettore, come se parlasse solo a lui e proprio per lui, lo tira dentro, lo coinvolge, lo interroga, gli chiede anche di schierarsi, di prendere posizione, in qualche modo. E può farlo senza arroganza perché lui, il protagonista del racconto, per primo si mette a nudo, con totale sincerità. Mi sembra un modo efficace, ed emozionante (anche se non dovrei dirlo io) di dialogare con il lettore.
La documentazione su Milk è sterminata. Essendo la sua un’opera tra saggio e fiction, con un target adolescente, come l’ha utilizzata?
Non conoscevo bene Milk. Dunque, semplicemente, prima di scrivere ho studiato. Molto. Come credo dovrebbe fare chiunque – ma non sono qui per fare prediche o per dare lezioni – prima di parlare di qualunque argomento. Cerco di essere una persona seria, banalmente. E responsabile. Chi scrive ha una responsabilità grandissima.
Non è nuovo a pubblicazioni LGBT… Ha qualche novità all’orizzonte in merito?
No. E vorrei dire spero di no. Nel senso spero non ci sia l’urgenza di farlo. Sono stato il primo, trent’anni fa, a raccontare gli adolescenti omosessuali (Ragazzi che amano ragazzi,1991). Semplicemente perché non lo faceva nessuno e non capivo perché, e perché avrei voluto leggere io un libro così, e non c’era.
Sono stato il primo, oltre quindici anni fa, a raccontare le famiglie omosessuali (Matrimoni gay, 2014) Idem come sopra. Pensavo non avrei più scritto alcun libro a tematica LGBT, poi questo editore è arrivato a tradimento (in senso buono), ma direi che ciò che dovevo dire l’ho detto.
In una ventina di libri ho raccontato molte storie, altre storie e storie altre, e ne ho ancora tante. Se non sembrasse una questione di lana caprina, mi piacerebbe essere considerato più un narratore che genericamente uno scrittore. Davvero ho molte altre storie da raccontare. Il mondo è così vasto, le persone così affascinanti e misteriose…
L’attivismo non va mai in vacanza. Non bisogna abbassare la guardia soprattutto con adolescenti e giovani che sono i primi da educare alla libertà e alla tolleranza: il bel libro di Paterlini sembra un ottimo passo in questo senso.
Piergiorgio Paterlini, Il mio amore non può farti male. Vita (e morte) di Harvey Milk, Editore, Einaudi Ragazzi, 2018,136 pagine