Voci cattoliche alla Conferenza Internazionale sull’AIDS
Riflessioni di Francis DeBernardo tratte dal blog di New Ways Ministry (USA), 26 luglio 2012, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
La Conferenza Internazionale sull’AIDS, il più grande congresso al mondo di ricercatori dell’AIDS/HIV, educatori, attivisti, assistenti sanitari e pastorali si è tenuta quest’anno [dal 22 al 27 luglio scorsi n.d.t.] a Washington DC.
Per la prima volta in più di 20 anni la conferenza si svolge negli Stati Uniti dove, per molti anni, le leggi statunitensi sull’immigrazione non hanno permesso alle persone sieropositive l’accesso al Paese, impedendo così che il congresso si svolgesse su suolo americano. I cattolici non mancheranno all’incontro.
Lo scorso weekend Catholic Charities USA ha ospitato un incontro di tre giorni, di preparazione alla conferenza, di cattolici impegnati nella cura pastorale e sociale di persone con HIV/AIDS. Anche la facoltà di teologia della Howard University di Washington ha ospitato una tre giorni ecumenica su fede e problematiche legate all’HIV/AIDS.
Tra coloro che hanno presenziato a tutti e tre gli incontri troviamo due cattolici del Regno Unito, Vincent Manning e Adela Mugabo. La coppia ha presentato alle due pre-conferenze il ministero cattolico che sta portando avanti in Gran Bretagna con l’organizzazione Positive Catholics.
La loro presentazione ha riguardato il bisogno di passare da un modello di sostegno tra sieropositivi a un modello in cui i sieropositivi esercitano anche il ministero.
In un articolo sul National Catholic Reporter sulla conferenza delle associazioni cattoliche, Manning descrive questo nuovo modello di ministero come “una fratellanza dei deboli”:
“Manning, del gruppo britannico Positive Catholics, ha detto ‘lo stigma e la paura producono un silenzio che isola ed esclude’ e l’obiettivo del gruppo è ‘ascoltare con grande partecipazione – la guarigione comincia quando una persona si sente notata e ascoltata.’”L’occasione della Conferenza Internazionale ravviva anche il ricordo di coloro che ci hanno preceduti e le riflessioni su quanto siamo andati lontano.
Michael Sean Winters, che tiene una rubrica sul National Catholic Reporter, ha offerto questa acuta descrizione nel suo post dedicato all’incontro di Washington:
“La memoria appassisce. È doloroso. Si radica nell’esperienza, e proprio per questo non è facile da condividere. Quelli fra noi che hanno vissuto la crisi dell’HIV prima che si profilasse una terapia ritornano con dolore a quei tempi. Come ha scritto Agostino della morte del suo amico d’infanzia, le nostre lacrime hanno preso il posto dei nostri amici. Il vuoto che hanno lasciato tanti amici e colleghi che un tempo ci riempivano la vita ma che sono morti troppo presto per questa temibile malattia, quello rimane.
Alla Messa della domenica, durante la preghiera eucaristica, il sacerdote ci invita a pregare per coloro che se ne sono andati prima di noi, e poi di solito fa una pausa. Io prego prima di tutto per mia mamma, poi per zii e zie, e i nonni, per padre Kugler e monsignor Ellis, e poi comincio con la lista dei morti per AIDS: David è sempre il primo perché era il mio migliore amico, e nemmeno un giorno è passato dalla sua morte senza che mi mancassero la sua arguzia e la sua saggezza, Stephen, Damien, Nalty, Bryan, Hooper, Robert, il cliente, il cui nome ho dimenticato, che aveva sempre una cerchia di amici con sé quando veniva nel ristorante in cui lavoravo.
Mi sembra di non avere mai il tempo di menzionarli tutti prima che il sacerdote continui con la preghiera. Mentre continua, i versi seguenti del Canone Romano ricordano apostoli e martiri: Giovanni il Battista, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio… La lista dei miei amici che sono morti, che sto ancora recitando in silenzio, si mescola ai nomi dei santi, e la cosa mi piace.”
Il post di Winter continua sfidando la comunità gay, che a suo dire ha abbandonato la vecchia priorità dell’HIV/AIDS per buttarsi sulle cause politiche come la parità matrimoniale e l’abrogazione del “Don’t ask, don’t tell” [“Non chiedere, non dire”, la politica, in vigore fino a poco tempo fa nell’esercito USA, che limitava l’accesso degli omosessuali alla carriera militare n.d.t.]. Winter osserva:
“Con risorse finanziarie e politiche limitate, mi sembra che la battaglia contro l’HIV, in modo particolare perché ora colpisce in maniera sproporzionata i gruppi di minoranza, dovrebbe avere l’assoluta priorità per i gruppi dei diritti gay. Uno non si può sposare se è morto. Uno non può servire nelle forze armate alla luce del sole se è morto.”
Lancia poi la sfida a TUTTI i cattolici di continuare a lavorare per le persone affette da HIV/AIDS: “Come cattolici, non possiamo abbandonare la lotta contro l’HIV, tanto meno la compassione per chi contrae la malattia. Come cattolici dobbiamo combattere lo stigma che accompagna la malattia. In quanto cattolici dovrebbe pungolarci la coscienza e l’attenzione vedere una malattia che comincia a colpire in maniera sproporzionata i gruppi di minoranza.
In quanto cattolici dobbiamo combattere per difendere l’Affordable Care Act [la riforma sanitaria voluta dal presidente Obama n.d.t.] che assicurerà un’assistenza di alto livello a tutti, non solo ai ricchi. In quanto cattolici, chiamati ad amare il prossimo, e sicuri che saremo giudicati da come ci poniamo nei riguardi degli affamati, degli stranieri, degli assetati e dei malati, non possiamo stornare lo sguardo da questa perniciosa epidemia e da tutti i peccati socioculturali che essa rende manifesti.”
Un’altra serie di ricordi viene da un blog della Oxford University Press scritto da Richard Giannone, un professore emerito della Fordham University che ha recentemente pubblicato un libro di memorie, “Hidden: Reflections on Gay Life, AIDS, and Spiritual Desire” (Nascosto: riflessioni su vita gay, AIDS e desiderio spirituale). Giannone torna ai primi tempi dell’epidemia e ai suoi effetti su una parrocchia cattolica di New York:
“Anche se la Chiesa cattolica non era stata una gran madre per i suoi figli gay, alcuni venivano comunque alla Messa delle 17.30 alla chiesa di St. Joseph nel Greenwich Village. Vestiti che penzolavano da uomini emaciati dai 25 ai 40 anni circa. Pustole punteggiavano le carni sbiancate di molti. Cappellini sportivi tenevano le lesioni facciali nascoste alla vista degli spettatori. Alcuni usavano il trucco per mascherare le macchie divenute più scure. Ma nulla copriva le ossa dei sofferenti o zittiva il suono della malattia, che dai banchi punteggiava le parole di Dio pronunciate all’altare.
“Nella loro condizione di abbandono questi uomini riportavano la vita in una Chiesa che li aveva dati per morti. Si accostavano alla Mensa del Signore per avere nutrimento, per avere altra vita. La vitalità della loro presenza spiccava clamorosamente sullo sfondo del cristianesimo privo di vita che sviliva il loro essere gay [nel testo originale: “gayness”, che può significare “omosessualità” ma anche “gaiezza” n.d.t.]. Una simile sfida spirituale mi insegnò quello che avevo bisogno di sapere e ricordare.
“L’AIDS era la nostra passione. La sua agonia cacciò a forza la vita gay nel vortice della storia del ventesimo secolo. Questa veracità, prima censurata, sostò nelle file dei banchi di chiesa perché tutti considerassero l’omosessualità parte della storia della provvidenza. La loro perseveranza mi chiedeva di dare fiducia al corpo, ed è quello che feci.
“Alla liturgia, le persone con l’HIV non venivano viste come portatrici di peste, oltraggiate e rifiutate dalla società. Corpi che ospitavano l’infezione cercavano la fonte della guarigione sacra. Il loro ritorno alla casa che li respingeva mostrava come lo spirito divino andasse ben al di là di ogni barriera di separazione che gli esseri umani hanno eretto per se stessi. L’amore che non osa dire il suo nome gridava dal cuore con la voce che gli era rimasta per reclamare il suo posto nel piano di Dio. Il culto modellava una Chiesa e una società a cui sentivo di poter appartenere.”
Possano queste memorie, come l’attuale testimonianza di coloro che continuano a combattere con la malattia, come coloro che lavorano per prevenire e curare, come coloro che si prendono cura di chi ne è affetto, incoraggiarci a maggiori sforzi per fermare l’epidemia.
Testo originale: The Catholic Dimension at the International AIDS Conference