Il pensiero debole che non sa costruire il nostro futuro
Riflessioni di Carlo Buttaroni (presidente Tecné) tratto da L’Unità del 27 agosto 2012
Per secoli, il mondo occidentale si è disposto verso il futuro come un territorio da esplorare e conquistare, ricevendo in cambio un progresso che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Un percorso lungo il quale gli uomini hanno sviluppato le loro azioni, costruito i loro progetti, impegnato le proprie esperienze e le proprie speranze. Oggi quell’idea di futuro è in crisi. Viviamo un presente opaco, che non contiene alcuna chiamata, nessun ingaggio, dominato dalla precarietà del lavoro, delle relazioni, dei riferimenti, dei valori, della vita stessa.
L’incertezza e l’instabilità sono la nuova cifra dell’esistenza, e l’ottimismo dello sguardo orientato al futuro si è perso nella dissolvenza di orizzonti talmente lontani da sembrare irraggiungibili. Siamo pessimisti su quello che ci riserva il domani.
Siamo impauriti. Viviamo un presente senza coerenze con il passato e senza orientamenti al futuro. Ogni istante è vissuto in modo autonomo, slegato da un’idea di causa ed effetto, fatto di momenti posti l’uno accanto all’altro, come eventi paralleli che non riescono a diventare una trama di significati.
PERDITA DI SENSO
Se un eccesso di senso dominava il mondo della modernità, il presente si caratterizza, al contrario, per il dissolvimento di quei pensieri unificanti che, fino a pochi decenni fa, tracciavano una linea che univa passato, il presente e il futuro. Il sapere di oggi è senza nuclei forti, sostituito da una pluralità di narrazioni il cui senso e la cui logica non sono più garantiti da un’idea di fondo.
E, infatti, assistiamo all’eclissi di filosofie che offrivano risposte a ogni domanda, al venir meno di ogni progetto di emancipazione, al declino delle tensioni progettuali e ideali, al nichilismo dei valori in sede morale, politica, etica e religiosa, senza quelle certezze che erano in grado di indicare all’individuo sentieri certi, delimitati, definitivi.
Non vi sono edificazioni né verità, ma solo un pensiero debole che deve rinunciare a stabilirsi su quelli che un tempo erano descritti come i fondamenti del sapere.
Pare affermarsi, invece, un nichilismo tenue, senza una ragione universale capace di spiegare il tutto, dove l’incertezza è il sentimento dominante, e l’individuo appare come un soggetto debole, costretto a convivere con una libertà e un’autodeterminazione che non sa più utilizzare.
Ne deriva una vita di relazioni provvisorie, dove i rapporti sono privi di un coinvolgimento definitivo. Per l’individuo disorientato, figlio di un pensiero in fuga tra sentieri interrotti, senza valori universali ai quali ispirarsi, il futuro appare come una minaccia più che un’opportunità.
E per potersi adattare ricorre a cambi d’identità che gli permettono di apparire sulla scena dell’immagine e della superficialità. Fotogrammi e parole che galleggiano in superficie, tra un tweet e un social network, mentre in profondità la coscienza vive un profondo senso di solitudine.
Prevale – per dirla con Galimberti – una cultura del «risparmio emotivo», dove le parole si presentano come una lingua che parla a se stessa, perché manca l’elemento proprio del linguaggio rappresentato dalla relazione con l’altro.
La precarietà ha inaugurato il nostro tempo dandoci in cambio una solitudine di massa. Le nuove generazioni dello zapping emotivo sono le più esposte perché hanno davanti il niente che li aspetta. Vivono un’assenza di sollecitazioni che li porta ad abbandonarsi a immagini violente, a sensazioni tanto forti quanto artificiali.
I loro pensieri sono confusi, l’anima fiacca. E i sentimenti non bruciano nel cuore, come dovrebbe accadere agli adolescenti che si preparano alla vita.
Una vita che può essere raccontata con le parole di Tullio Avoledo: «Era lì con lo stato d’animo dell’ultima foglia su un ramo, a novembre, e in una mattina di vento».
L’INSICUREZZA DIFFUSA
L’identificazione, l’autostima, il sistema delle motivazioni, le personali sicurezze sono venute meno e l’angoscia, l’insicurezza e la disseminazione di paure fondano l’insorgere di un malessere rispetto al quale anche l’ottimismo della scienza è costretto a cedere. Se, da un lato, la
paura permette di elaborare strategie di difesa consapevoli, la precarietà fa nascere un senso d’impotenza nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e costringe ad accettare compromessi che annullano la coscienza di sé e dei propri diritti.
Ci si uniforma, cioè, alla nuova etica della precarietà. Un atteggiamento adattivo più preoccupante di una manifestazione di sofferenza lucida, ma che lascia aperta la porta del cambiamento. Lo stato d’allarme permanente fa insorgere forme preoccupanti d’instabilità emotiva e stress, che sono alla base di quelle forme di depressione non più imputabili solo a cause biologiche.
La vera preoccupazione è rappresentata dall’assenza di coscienza di essere al mondo in quella straordinaria modalità umana che ha aperto all’uomo le strade del progresso. Perché il futuro, rispetto al presente e al passato, contiene una differenza qualitativa che si esprime nella creatività. Vivere solo al presente o al passato significa perdere ogni elemento creativo, ogni possibilità di avanzamento.
Quando conta solo ciò che si vive in un determinato momento, la nozione dei valori positivi svanisce, e il bene non può rinviarci di là da noi stessi. Ecco che, quindi, la precarietà si riflette in tutto: nel desiderio, nella speranza, nella volontà. Persino nell’esperienza del bene e del male.
Senza una visione positiva del futuro si dissolve quel sentimento di speranza, che fonda e rende possibile la vita come un orizzonte che si apre e dischiude. Il cittadino della crisi della certezza non partecipa al futuro perché è incapace di conquistare un’indipendenza dal presente. E vive la costante sensazione di restare indietro in rapporto alla vita, perché in lui si è spezzata la sintonia col divenire di cui si alimenta la quotidianità. Si aggiunge il sentimento d’impotenza, di non essere in grado di seguire il ritmo espansivo della vita.
Proprio da qui, dal sentirsi oppressi da un peso così poco sostenibile, affiora un sentimento diverso per un cambio di prospettiva, nel momento in cui torna a far parlare di sé il singolo che costruisce e progetta, che rientra in gioco mettendosi in discussione.
Ognuno secondo le proprie possibilità. Il saper farsi carico, ciascuno, dell’idea di bene comune vuol dire tornare a una dimensione naturale dell’uomo-sociale. Perché nell’eclissi degli dèi non c’è l’eclissi dell’uomo, ma nell’attesa cresce, per dirla con Bauman, «la solitudine del cittadino globale», la sua insicurezza di fronte alle nuove incertezze.
SAPER ASCOLTARE
Tenere conto dei sentimenti, dei bisogni umani più profondi delle donne e degli uomini, dei giovani e degli anziani può sembrare anti-economico e superfluo, ma è l’unica strada per ricongiungersi al futuro perché il cambiamento può avvenire solo se ognuno ha la possibilità di parlare. Sentendosi ascoltato. Se ciò non accade, le persone restano isolate, non riescono a creare un’identità collettiva che permette loro di sentirsi soggetti riconosciuti e chiamati per nome. C’è bisogno di parole che rompano la solitudine, restituendo significato alla vita.
Vi è una parte importante della società, dalla voce inascoltata, che esprime un’ansia di rinnovamento e di riscatto, ma ha bisogno di luoghi e strumenti reali, dove trovarsi, conoscersi, capirsi, collaborare, integrarsi reciprocamente.
È proprio da queste culture che può essere recuperato quell’io-solidale che non ha smarrito la sua natura sociale ma, al contrario, è alla ricerca di una nuova dimensione dello stare insieme, dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.
Se l’uomo resta animale sociale e politico è perché nessuna tecnica lo rende capace di essere sufficiente a sé stesso ma può sopravvivere solo se si unisce ai suoi simili in un progetto che guarda al futuro dando un senso al presente.