La chiesa ortodossa e l’omosessualità
Riflessioni di Pietro C.
E’ noto a tutti il rapporto complesso che la Chiesa cattolica ha verso l’omosessualità. La parte gerarchica più conservativa la considera una patologia, una situazione moralmente sempre inaccettabile. La parte più attenta al vissuto delle persone, nel basso clero, la considera qualcosa che deve trovare una sua collocazione, magari in un quadro di relazione stabile e duratura. Talora questa posizione si riflette in qualche esponente della gerarchia, come ultimamente nell’arcivescovo di Berlino (giugno 2012) il quale ha mostrato una certa apertura al matrimonio dei gay.
Il mondo ortodosso, invece, è molto impermeabile ad ogni genere di riflessione articolata che ha cercato di caratterizzare il mondo cattolico e, soprattutto, quello protestante.
Quando qualcuno cerca d’affrontare questo tema – ricordo il tentativo d’un prete romeno ortodosso in Francia – lo fa in modo insufficiente, retorico e inconcludente.
Se l’apporto delle scienze umane è riuscito a scalfire un poco certe infondate sicurezze del Cristianesimo occidentale, mostrando che l’omosessualità non è una realtà voluta ma, piuttosto, qualcosa che un uomo vive e gestisce, uno stile con il quale impronta affetti e relazioni, tutto ciò pare non essere stato assolutamente recepito in Oriente.
Le società in cui è tradizionale la confessione cristiano ortodossa hanno, sull’argomento, opinioni come quelle dell’Europa occidentale di ottant’anni fa. Mi riferisco, soprattutto, alle società uscite dal comunismo sovietico.
L’identità delle Chiese orientali è fortemente improntata sul concetto di tradizione, laddove per tradizione si deve intendere tutto un genere d’orientamenti e interpretazioni bibliche provenienti dalla vita e dalla riflessione di santi, teologi e asceti.
Almeno in teoria, dunque, la dimensione di questo Cristianesimo è molto ascetica. L’ascetismo ortodosso non conosce punte estreme di rifiuto del corpo, esistite o ancora esistenti in Occidente, ma subordina il mondo delle sensazioni corporee a quello spirituale senza una necessaria e costante opposizione tra i due. E’ questo ad aver generato una certa valutazione della vita sessuale, al punto che pure i preti si sposano.
Ciononostante l’omosessualità è sempre stata ritenuta un’attività disordinata e riprovevole comunque la si ponga.
Nella storia delle Chiese orientali, l’omosessuale era invitato a divenire monaco, ad allontanarsi dal mondo e a santificarsi evitando le trappole del demonio rappresentate dal suo genere di affettività.
Ancora oggi nel Monte Athos esiste qualche monaco che piange su se stesso ritenendosi un insulto a Dio per il semplice fatto d’essere omosessuale!
Questo spiega perché nella storia della Chiesa ortodossa ci sono stati dei santi, molto probabilmente omosessuali, che non hanno mai dato ascolto al loro tipo d’affettività reputandola un male in se stessa. Uno di essi era san Simeone il Nuovo Teologo (XI sec).
Abbastanza recentemente, nei primi decenni del ‘900, un santo greco, responsabile d’un collegio maschile, san Nectario di Egina, esortava i ragazzi a recidere ogni amicizia tra loro se iniziava ad avere sviluppi troppo affettivi. Evidentemente si riconosceva l’esistenza di tali situazioni ma le si recideva sul nascere, forse nella convinzione che l’omosessualità potesse essere un semplice stadio evolutivo verso l’eterosessualità alla quale tutti inevitabilmente dovevano pervenire senza indugi, convinzione oggi molto relativizzata se non smentita dalle scienze antropologiche. L’omosessualità rappresentava l’inciampo d’un cammino affettivo e, soprattutto, un’espressione insana e odiata da Dio.
L’epoca attuale con il suo liberalismo sessuale ha avuto il suo effetto dirompente anche nelle società tradizionalmente ortodosse. Si è creata, così, una sorta di dicotomia che, come sta, è insanabile ed assurda. Abbiamo, dunque, due posizioni. Da una parte ci sono i cultori della tradizione per i quali l’omosessualità, qualsiasi applicazione possa avere, è riprovevole perché contraria a quant’è stato da sempre stabilito da Dio nella rivelazione genesiaca.
“Se proprio cadete nel peccato sessuale, seguite la natura, non andatele contro”, afferma qualche monaco atonita contemporaneo a certi pellegrini, dimostrando, con questo, una perfetta ignoranza sull’omosessualità.
L’ultima esternazione, in tal senso, è quella presentata dall’Arcivescovo Metropolita greco-ortodosso d’Australia, dinnanzi alla proposta di matrimonio gay da parte dello Stato (giugno 2012). L’Arcivescovo ritiene che impedire allo Stato l’approvazione dei matrimoni omosessuali sia un “sacro dovere”. La retorica bizantina con la quale si vuole ritenere “sacra” l’opinione contro i matrimoni gay è ridicola agli occhi della mentalità laica odierna. Ma questo è tutt’altro che intravisto da chi, come lui, sembra essere impermeabile ad alcune importanti riflessioni contemporanee.
Dall’altra parte, c’è la presenza di chierici e laici i quali, senza neppure tentare d’articolare una mediazione, un discernimento e un’analisi intelligente tra i comportamenti omosessuali e la tradizione, approvano o tollerano parecchie soluzioni “alternative”.
Così se, da un lato, abbiamo l’esistenza di vescovi di fatto conviventi (mentre almeno i vescovi tradizionalmente non dovrebbero avere relazioni e rimanere monaci), dall’altro abbiamo alcuni sacerdoti che convivono o con donne o con uomini, altri che praticano la promiscuità, altri ancora che, pur essendo sposati, hanno relazioni extraconiugali, qualcun altro che è addirittura attivista all’interno di realtà omosessuali, ecc.
Tutte cose che, nel loro insieme, sono indice d’una straordinaria confusione e giustapposizione che può portare ad un pericoloso sdoppiamento della personalità e ad un isolamento totale tra la dimensione religiosa e quella personale.
Anche nel mondo Ortodosso, dunque, sembra che si tollerino molte cose a patto che non siano note e non si reinterpreti la tradizione ad esse relativa lasciandola inalterata, come se fosse perfetta in ogni suo aspetto. Infatti, un atteggiamento più sano di riflessione sull’omosessualità trova le Chiese ortodosse ancora refrattarie, come se tutto ciò non le riguardasse affatto e le soluzioni adottate dalla tradizione fossero sempre valide in ogni tempo e luogo.
Bisogna ammettere che il Cristianesimo occidentale, nonostante molte opposizioni, si affatica a comprendere meglio questa realtà. Al contrario, l’Oriente ortodosso non ne vuole assolutamente sapere, pur avendo nel suo stesso seno laici e chierici omosessuali. Così se, in quel contesto, un omosessuale cerca consiglio dal confessore, si sente rispondere che deve divenire monaco o deve sposarsi.
Gli vengono propinate queste due classiche vie senza neppure capire se effettivamente le può sostenere. Un uomo con tentazioni omosessuali deve pregare tantissimo, a differenza di uno con tentazioni eterosessuali il quale può trovare la sua pace e soluzione nel matrimonio.
Non è neppure concepito consigliare un rapporto fedele e monogamo omosessuale. Il XXI secolo è dunque appiattito al VI o al II.
Ecco perché nel mondo ortodosso sembra che non si senta lo stridore di certe affermazioni, proprie alla sua tradizione, come quella di san Giovanni Crisostomo, per cui l’omosessualità, in se stessa, è l’espressione d’un abbandono da parte di Dio. Il santo affermava che quando Dio abbandona qualcuno, immediatamente la sua natura s’inverte e questo spiega l’esistenza dell’omosessualità (San Giovanni Crisostomo, Homilia IV in Epistula Pauli ad Romanos; cfr. Patrologia Graeca, vol. 47, coll. 360-362).
Il bisogno di reinterpretare la tradizione rappresentata da questi autori nei riguardi dell’omosessualità sembra, al momento, ancora qualcosa d’immensamente lontano e se qualcuno osa sollevare tale questione potrebbe essere visto come un eretico.
Questo staticismo formalista, però, non è certo espressione di discernimento e, soprattutto, finisce per rovinare in alcuni il senso vero d’una tradizione della quale gli ortodossi si ritengono gli unici fedeli rappresentanti.
Portare un omosessuale particolarmente attivo a vivere una scelta che non può sostenere, significa farlo inciampare e renderlo infelice, fargli maledire la sua fede.
Se il vecchio vino non è dunque portato in otri nuovi finisce inevitabilmente per corrompersi! Purtroppo questa preoccupazione pare non sfiorare neppure lontanamente gli ambienti del Cristianesimo ortodosso. Si mantiene, così, una facciata ligia alla tradizione e una pratica che può anche discostarsene radicalmente.
Il prodotto finale di questi due elementi è sempre terribile e consiste nello svuotamento di una Chiesa e di una fede, cosa che gli ortodossi sono ancora lungi dal considerare ma che sta già avvenendo.