“Hanno bussato e lui ha aperto”. Le trans aiutate dal prete di Papa Francesco
Articolo di Alessandra Coppola pubblicato su La lettura, supplemento settimanale del Corriere della Sera, n.455, del 17 agosto 2020, pag.42-43
La vicenda. Don Andrea Conocchia, 49 anni, dal 22 settembre è parroco della chiesa della Beata Vergine Immacolata sulla piazza centrale di Torvajanica (Roma). Quando è iniziato il lockdown, ai primi di marzo, si è organizzato per distribuire aiuti alimentari ai parrocchiani. Tra questi, si sono presentati alla sua porta numerose transessuali sudamericane che si prostituiscono nella zona: con il virus non riuscivano più a lavorare.
Arrivano dal Sudamerica (Argentina, Uruguay, Paraguay…), si prostituiscono sul litorale laziale. Il coronavirus le ha lasciate senza clienti e senza speranze. Allora hanno bussato alla chiesa di don Andrea. E lui ha aperto.
Se esiste una Vergine protettrice delle prostitute trans, deve essere questa – Beata e Immacolata – che dà il nome alla parrocchia di pietra chiara sul litorale di Torvajanica.
Ombrelloni piantati in disordine, venditori di pannocchie, tatuaggi sbiaditi su schiene e décolleté, coppiette di adolescenti, anziani con la sedia pieghevole, una «Love Boat» che s’avvicina alla costa al ritmo di reggaeton promettendo divertimento e bagni al largo «a soli 5 euro!».
Don Andrea Conocchia è arrivato l’anno scorso, il primo giorno d’autunno, quando le sdraio erano state riposte e la brezza si faceva più fredda. È della provincia di Roma, ha 49 anni portati da ragazzo, con barba e capelli neri, e ha già avuto esperienza qua attorno, vice-parroco ad Anzio.
Eppure su questo tratto di spiaggia ha incontrato una comunità che non conosceva, bisogni che l’hanno messo alla prova come mai prima. Anche stavolta, la novità è arrivata col Covid. «Ai cancelli della parrocchia si era formata una coda, quaranta, sessanta persone, che avevano bisogno di aiuto. Era più o meno metà marzo», racconta. Qui come altrove in Italia, la chiusura totale per contenere il contagio da coronavirus aveva colpito per primi i lavoratori fragili, senza contratti né tutele, e aveva generato un impoverimento diffuso.
Il prete si attrezza, allora, per distribuire buste di latte, pasta, scatolette. E quando un pomeriggio in fila si trova davanti, tra gli altri, «una persona trans», non si ritrae. Non è scontato, fino al suo arrivo non è stato così. La voce si sparge. «Questa persona ritorna appena il giorno dopo con un’amica – continua don Andrea – e poi l’amica ne porta un’altra…».
Il passaparola conduce al parroco una popolazione sommersa che in chiesa non era mai riuscita a metter piede, stigmatizzata dal sesto comandamento («Non commettere atti impuri») e da una tradizione di pregiudizi. Stremata da una vita ai margini, desiderosa di riconoscimento fino alle lacrime.
Don Andrea non solo le accoglie, le ascolta, le consola («Io davo alimenti, loro in cambio mi offrivano frammenti di umanità»); ma fa per loro qualcosa di impensabile: chiede aiuto all’elemosiniere del Papa. E il cardinale Krajewski risponde a stretto giro con le parole che gli ha affidato lo stesso Francesco: «La carità è senza limiti». Paola è congestionata dal caldo e dallo sforzo di non piangere: «Sono stata dalle sette del mattino nella pineta di Ostia — ora sono le 5 del pomeriggio, con la luce che scende obliqua in una stanzetta della parrocchia — neanche un cliente: non lo so se è la paura, il virus, la crisi… Non ho «pandémia» con l’accento sulla «e», in spagnolo: è il cataclisma che ha sferzato le trans di Torvajanica, riducendole alla fame.
«Sono 28 anni che mi prostituisco, mai c’è stata una situazione così drammatica — dice —. Continuo ad andare al lavoro perché a casa morirei di depressione. Noi siamo nessuno, gente dimenticata. Che la Vergine mi preservi don Andrea da ogni male, lui ci aiuta materialmente e anche moralmente. Ringrazio il Signore che ha mandato Papa Francesco a cambiare la Chiesa. Per lo stress mi era venuta la febbre di Sant’Antonio, ma mi hanno curata e sto meglio».
Le «amiche trans» hanno lunghi percorsi di fuga, trasformazione, dolori e sfruttamento alle spalle, dal Sudamerica a Roma. Se a Paola hanno tagliato la luce — il frigo è spento e non sa dove mettere gli yogurt che le offre il parroco — è perché «siamo nate con una sfortuna più grande»: ma, soprattutto, in molti ne hanno approfittato.
Lei non ne fa cenno, e non lo racconta nessuna delle sue colleghe. Ma lo spiega un’indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, competente sul litorale, che nel 2015 ha individuato e disarticolato un’associazione a delinquere per lo sfruttamento delle transessuali; gestita da un’internazionale di briganti, con soprannomi come «Cici», «Perla Bianca» o «El Diablo», argentini, romeni o autoctoni.
Attiravano in un hotel di Buenos Aires ragazzini spersi, promettevano cambiamenti di sesso e soldi facili in Italia, e li legavano poi eternamente al circuito; privandoli del passaporto, forzandoli a prostituirsi per giorni e notti infinite in «piazzole» a pagamento, costringendoli ad affitti maggiorati e presunti debiti con la «Mama» che non si estinguevano mai, sotto il controllo di autisti-picchiatori.
Le prime ad avvicinarsi a don Andrea sono state non a caso trans argentine, ex adolescenti delle province povere del Nord come Jujuy e Salta, ormai quarantenni che lavorano dietro gli arbusti tra Castelfusano e la Pontina. «Argentine come il Papa: perché non gli scrivete raccontando con semplicità e cuore aperto la vostra condizione?», ha proposto il parroco. Non osavano, «pensavano di non essere degne».
Infine ci hanno provato, assieme al prete, «e ci siamo ritrovati tutti a piangere attorno a un tavolo». La risposta con il timbro della Santa Sede conteneva 4 biglietti da 50 euro. Ancora lacrime «quando ho aperto la busta, una cosa pazzesca: io sono cattolica alla mia maniera, ho detto oddio la chiesa fa qualcosa addirittura per noi che siamo transessuali… Ringrazio tanto Papa Francesco che non giudica».
A parlare è Gervasio «nome di battesimo da trans: Laura». Ha passato i cinquant’anni, ha aiutato a lungo la famiglia ad Asunción, Paraguay, «siamo gente umile», ormai non gli resta più nessuno: «La mia vita è qui, da quella parte non ci torno».
Nel suo caso, la rotta è passata dal Brasile, poi Belgio, Germania, Milano e infine Roma, il seno nuovo e tutto il resto. «Vedevo amiche che erano partite e andavano con soldi, appartamento, macchina: mi sono detto, voglio arrivare anche a quello».
Ci sono stati tempi migliori, dice, poi la pandemia ha portato «una situazione terribile»: «Ero da quaranta giorni in casa senza cibo, sentivo dire che un prete ci aiutava, uno con barba e occhiali, ho pensato saranno chiacchiere, ma vado a vedere».
Come le altre, Laura ha trovato la porta aperta ed è tornata a bussare ancora. Una volta sono fette biscottate, un’altra – questo pomeriggio, per esempio – sono mascherine chirurgiche bianche candide che la Santa Sede ha ordinato in Giappone e spedito alle parrocchie bisognose, Torvajanica tra queste.
Don Andrea ne distribuisce cinque a testa. «Lo capisco bene di essere in una zona di confine per la Chiesa – ragiona -, ma io penso di dover accogliere le persone chiedendo: che cosa posso fare per te? Senza pregiudizio né tanto meno giudizio».
E a quanto pare il Vaticano stesso lo benedice. Marcela avesse potuto, racconta, avrebbe continuato la scuola: «Ma ho cominciato piccola, in un’epoca in cui non eravamo accettati, era difficile: per diventare trans dovevi prostituirti perché non avevi altra scelta. A me piaceva studiare, ma ho sempre lasciato a metà per bullismo, come si dice: mi prendevano in giro anche i professori». A 16 anni, dall’Uruguay, con i documenti di un vicino che si chiamava anche lui Marcelo e aveva i capelli lunghi, scappa di casa, finge di essere maggiorenne, passa la frontiera e s’avvia per questa strada. «Una famiglia semplice, i nonni erano contadini dalla Basilicata, non mi mancava niente». Ma aveva bisogno d’altro.
La mamma, che l’aveva avuta molto giovane, prima si è disperata, poi si è rassegnata, infine l’ha accettata e oggi le parla in videochiamata da Montevideo dandole consigli di trucco e raccomandandole di non mangiarsi le unghie.
Squilla un cellulare, come suoneria c’è la canzone Soldi di Mahmood. Minerva ride imbarazzata e la spegne. È arrivata dal Perù, più o meno come le altre, tanti fratelli e poche risorse: «Sono partita per potermela cavare in qualche modo».
Le prime operazioni le ha fatte in Argentina, le ultime in Italia. «Non volevo essere una superstar – racconta timida -, attirare l’attenzione. Avrei voluto passare inosservata». I clienti se li procura via internet: «Ci sono moltissime pagine per farlo, a pagamento». Ma con la pandemia, anche lei, ha smesso: «Non rispondeva più nessuno».
I visitatori abituali, aggiunge Marcela, se una volta venivano ogni settimana, adesso si presentano se va bene ogni due. «E parlano anche loro della crisi, dei soldi che mancano».
Tocca pure consolarli. «Io lo dico sempre che noi ragazze trans siamo psicoanaliste a buon mercato», sorride Marcela: «Ma prima di incontrare don Andrea, a noi chi ci ascoltava? Chi ci aiutava?»