Tenendoci per mano, è possibile non affondare. La transizione di Marta e Zoe
Testimonianza di Dea Santonico*
Vi regalo una storia, quella di Marta e Zoe, complicata e bella, tanto incredibile quanto vera. Beh lo spero che per voi sia un regalo, per me lo è stata.
Zoe la conosco da meno tempo, arriverà tardi nel mio racconto, Marta da una vita. L’ho conosciuta in un campo dell’Azione cattolica, io avevo 15 anni, lei qualche anno di più. Verso la metà degli anni ’70 ci siamo poi ritrovate nello stesso gruppo di amici e amiche.
Ci sentivamo tutti sessantottini – il ’68 è un anno che è durato più di un anno – e noi ragazze avevamo scoperto il femminismo. Il modo di vivere l’esperienza di fede era cambiato per alcuni di noi, altri ci avevano dato un taglio, in rotta con la Chiesa cattolica, tra loro Marta. Un gruppo impegnato insomma, ma, impegni a parte, il ricordo vivo che ho di quegli anni è che ridevamo sempre, specialmente noi ragazze, di tutto. Riuscivamo a cogliere qualcosa di comico in ogni situazione, laddove altri non capivano cosa ci fosse da ridere. Poi, come in tutti i gruppi, sono nate delle storie. Quella di Marta con il suo ragazzo è andata male. Lei ne ha sofferto tantissimo e si è allontanata dal gruppo. Senza di lei non era più lo stesso: l’incantesimo si era rotto. Non ci vedevamo più come prima, ma il rapporto tra me e Marta non si è mai interrotto.
È passato qualche anno, poi finalmente Marta trova un nuovo amore. Ce lo fa conoscere: Matteo è alto, magro, con la barba scura, proprio un bel ragazzo. Ha qualche anno meno di lei. Quando siamo insieme è silenzioso, ma il suo sguardo mi piace e soprattutto colgo una cosa che mi fa felice: è innamorato di Marta. Vivono insieme e dopo qualche anno si sposano. Insomma tutto lasciava pensare ad una storia destinata a durare.
Un salto nel tempo ed arriviamo all’ottobre del 2016. Marta mi telefona e mi racconta del centro antiviolenza per cui da anni lavora come volontaria. Io però ho la testa altrove, a quello che era successo il giorno prima. Dopo qualche mese dal coming out in famiglia, Emanuele, mio figlio, aveva organizzato una festa per la sua laurea, invitando una sessantina di persone e lo aveva detto, con la voce tremante per l’emozione, ma lo aveva detto. Non ce la faceva più a tenerselo dentro.
Lo racconto a Marta e mi viene da piangere. Piango tutto il tempo. Le sue parole me le ricordo ancora. Anche lei stava vivendo una storia difficile, ben più difficile della mia, ma non le è sembrato il caso di dirmelo in quel momento ed ha rimandato ad un’altra volta.
Un pomeriggio ricevo una sua telefonata: Dea, sei seduta? E questa volta è lei a raccontare. Un giorno aveva trovato Matteo che piangeva e, tra le lacrime, le aveva detto di sentirsi una donna. Aveva allora 60 anni, da 28 anni stavano insieme. Sconcerto e rabbia: “Non mi poteva più toccare neanche con un dito, l’ho ferito e gli ho detto con rabbia: hai aspettato che tua madre morisse per dirlo, a lei l’hai risparmiato, a me no”.
In realtà Matteo glielo aveva già detto una decina di anni prima, ma, vista la sua reazione, aveva lasciato cadere l’argomento, per paura di farle troppo male. O forse di perderla? È stato lui a ricordarglielo, Marta lo aveva completamente rimosso. E improvvisamente qualcosa cambia in Marta: doveva essere davvero grande l’amore di Matteo per lei se aveva accettato un sacrificio così grande… Perde otto chili di peso. Deve elaborare un lutto: Matteo era morto.
Dopo un po’ di tempo ci siamo incontrate. Avevamo tante cose da raccontarci. Marta mi ha detto del nuovo nome, Zoe, era stata lei a darglielo: “Mi piacevano tanto le sue gambe pelose, ora la aiuto a farsi la ceretta”. Una cosa però ci sorprende: man mano che andiamo avanti a raccontarci le nostre esperienze, soffermandoci su alcuni particolari, ci viene da ridere, e ridiamo fino alle lacrime, come ci capitava da ragazze. Ho capito così che stavamo guarendo.
Zoe l’ho incontrata per la prima volta l’anno scorso ad una manifestazione contro la violenza sulle donne. Sorridente, come non avevo mai visto Matteo. Parliamo un po’. Un giorno ha provato a vestirsi da donna, è uscita, ha visto che non succedeva niente ed ha continuato così. Ha preso coraggio ed anche a lavoro è andata vestita da donna: da oggi sono Zoe – ha detto ai suoi colleghi. Una persona un po’ bloccata come Matteo non l’avrebbe mai fatto. Ma lei non era più Matteo, era Zoe, e sentirsi nel corpo giusto, quello di Zoe, le dava coraggio.
Anche con il condominio è andata bene, Marta ha aiutato parlando lei stessa con i vicini di casa. A chi le diceva: “Mi manca Matteo”, rispondeva “A chi lo dici!”. Mentre parliamo mi viene spontaneo dirle che era carina – e lo era davvero. A Matteo non glielo avevo mai detto che era carino. Segno di quella confidenza e complicità che nascono nel rapporto tra donne?
Questa storia mi ha presa, mi ci sono calata dentro al punto che una volta, con l’approccio un po’ infantile che ancora non mi scrollo di dosso, ho detto a Stefano (uno dei ragazzi del gruppo degli anni ’70 che è diventato mio marito): “Se tu diventassi una donna, io ti vorrei bene lo stesso”.
E poi, ad aumentare lo sconcerto che avevo procurato, ho aggiunto: “Tu che faresti se io diventassi un uomo?” Nessuna risposta. Poi, guardando l’espressione del suo viso, mi sono messa a ridere. È finita lì e così non saprò mai cosa farebbe Stefano se io diventassi un uomo!
Marta e Zoe non sono eroine, nessuna chiesa le farà mai sante. Non sono e non vogliono proporsi come modello per nessuno: i modelli sono pericolosi per chi se li fa e sono una trappola per chi a modello è assunto. Né sante, né eroine, persone normali che si sono trovate a vivere una storia più grande di loro, di cui volentieri avrebbero fatto a meno.
È che Zoe spingeva troppo per uscire fuori e Matteo non ce l’ha fatta a trattenerla. E Marta, dopo la rabbia e le resistenze iniziali, l’ha aiutata a venire al mondo, le ha dato un nome ed ha imparato ad amare e proteggere quella creatura, fragile ed incerta sui suoi primi passi, che le aveva portato via per sempre il suo Matteo.
Proprio perché questa storia ha conosciuto la sofferenza, la rabbia, la paura di non farcela, non giudica chi arranca e non ce la fa. Spiazza però chi pensa di sapere cosa è famiglia e cosa non lo è, cosa è amore e cosa no, i crociati lanciati in battaglia al grido: “Proteggiamo i nostri figli”, che si dimenticano che anche i figli gay e trans vanno protetti. Spiazza chi pensa di poter dispensare condanne e assoluzioni, ridicolizza l’intera classifica, ricca quanto fantasiosa, di peccati sessuali.
Le ho incontrate recentemente, erano serene, ho sentito Marta che, parlando con Zoe, la chiamava “amore”. Forse perché era abituata a chiamare così Matteo. O forse non solo per questo. Hanno chiesto che il loro matrimonio rimanesse valido, ma non glielo hanno concesso. Ora sono unite civilmente.
Da Marta e Zoe, non credenti, e dalla loro esperienza ho imparato, a loro totale insaputa, a rileggere con occhi nuovi quel brano del Vangelo di Matteo in cui Gesù, camminando sulle acque, invita Pietro a scendere dalla barca e ad andargli incontro.
Lo abbiamo chiamato miracolo e ci siamo messi al sicuro: l’invito di Gesù, indubbiamente scomodo, non ci riguarda! Ma quell’invito rimane lì, forte quanto inascoltato, a chiederci di lasciare la barca delle nostre sicurezze e camminare laddove mai penseremmo di poter camminare, per sorprenderci a scoprire che, tenendoci per mano, è possibile non affondare.
* Ringraziamo Dea per averci voluto donare la sua testimonianza raccolta nell’ambito del Progetto TRANSizioni de La Tenda di Gionata
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