Frontiere. In Polonia c’è chi sparge l’odio verso gli l’altri
Articolo di Dagmara Bastianelli pubblicato sul supplemento La Lettura del Corriere della sera del 23 agosto 2020, pag.45
Nella mia famiglia polacca, sparsa tra la laboriosa Kakatowice e la vibrante Cracovia, esiste una consuetudine che non necessita di essere ricordata ma solo rispettata: varcata la soglia dei quattordici anni – età minima consigliata per confrontarsi con una delle pagine più buie della storia – si viene accompagnati in visita presso il campo di concentramento di Auschwitz.
A 14 anni e mezzo, nel pieno della consueta vacanza estiva nella mia terra d’origine, ho varcato anch’io la soglia di questo luogo. Ad accogliere un silenzio straziante interrotto solo da un leggero vento che sembrava voler narrare, senza riuscirci, le innumerevoli storie di quello spazio imbevuto di dolore.
Il contatto con le teche contenenti migliaia di occhiali o trecce è stato il momento più toccante della visita. Ogni occhiale e ogni treccia, così come ogni valigia e ogni fotografia, dicevano come fantasmi del passato che sussurravano, al di là del vetro, hai visto cosa si è compiuto qui?
A distanza di 23 anni, complice una seconda visita nel 2008, la sensazione di dolorosa incredulità provata dinnanzi alle teche è ancora viva. Tuttora non riesco a credere a quanto ho visto. O meglio, credo nei fatti ma la mia mente rifiuta l’idea che esseri umani possano avere in ferro tanta sofferenza ad altri esseri umani.
Auschwitz è emblema di un male ingiustificabile. Si visita Auschwitz ma è come se si visitasse anche un Gulag, Sarajevo, Hiroshima e ogni altro luogo dove l’uomo ha dimenticato la sua anima, di struggendo altri uomini e quindi sé stesso.
Ma questo e altri luoghi sono anche un ammonimento che, talvolta, sembra cosi naturale dimenticare. Le ideologie, l’egoismo e il nazionalismo sono alcune delle cause che possono confluire in azioni feroci.
Per tutte esiste una madre, la paura, che vive e si propaga attraverso pensieri, parole e azioni figlie di convinzioni estremiste che non lasciano spazio al confronto con l’altro e con gli altri.
Dalla mia posizione privilegiata di custode di una doppia identità – polacca e italiana — che mi ha abituata a sentirmi parte del mondo piuttosto che di una nazione, mi rattrista notare che la paura sia al governo in molti Paesi, inclusa la mia amata Polonia.
Nel Paese che ospita Auschwitz, conteso sin dalla sua nascita, più volte invaso e cancellato, la storia, per alcuni, non sembra essere stata maestra.
Le elezioni dello scorso giugno hanno confermato Andrzej Duda, un presidente ultra sovranista e ultrareligioso che dal 2015 ha instaurato un governo repressivo e intollerante.
Il partito di destra in carica, Diritto e Giustizia (PiS), ha giocato con l’ignoranza delle persone inculcando un senso di pericolo costante.
Primo nemico? Quella che ritiene «l’ideologia Lgbt». Non solo parole ma anche fatti: zone Lgbt-free, l’uscita dalla convenzione contro la violenza sulle donne, ridotta la libertà d’espressione, arresti di manifestanti. Una storia che si ripete.
Ma il presidente uscente, che pensava di avere la vittoria in tasca, è stato eletto con il 51% dei voti. Il suo avversario, il sindaco di Varsavia Rafał Trzaskowski, ha ottenuto, dopo soli due mesi di campagna, il 49%.
È in questo risultato dolceamaro, così come nell’affluenza record, che si annida la speranza che qualcosa cambi, che lo spirito del popolo polacco, che ha resistito ad anni di storia travagliata guidato da una profonda aspirazione alla libertà e alla pace, non stia dormendo.
Quando ho incontrato mio nonno e mia zia, nel 2019, ho chiesto perché? Entrambi mi hanno risposto: to wina nie nawisci («è colpa dell’odio»).
E proprio cosi. L’odio, come ci suggerisce il premio Nobel Wisława Szymborska (1923-2012) in una delle sue straordinarie e lucide poesie, si mantiene sempre efficiente e, se si addormenta, il suo non è mai un sonno eterno. Siamo noi, in ogni momento, che dobbiamo restare svegli.