Anno settimo del pontificato. Francesco tra profezia e geopolitica
Articolo di Marco Politi* pubblicato sul sito della rete Viandanti il 24 agosto 2020
“Oh baby, baby it’s a wild world”, cantava Cat Stevens mezzo secolo fa. “È un mondo selvaggio ed è difficile farcela solo con un sorriso…”. È davvero aspro il panorama internazionale in cui si sviluppa il pontificato di Jorge Mario Bergoglio.
Un nuovo contesto internazionale
Negli ultimi cinquant’anni due papi spiccano fortemente sulla scena internazionale: Francesco e Giovanni Paolo II. E tuttavia, guardando retrospettivamente, papa Wojtyla si muoveva in una dimensione internazionale ancora sostanzialmente stabile. Prima dell’89, grazie all’equilibrio atomico fra le due superpotenze Usa e Urss, e nei primi decenni dopo il crollo dell’impero sovietico grazie alla supremazia americana che apparentemente sembrava eterna.
Papa Francesco opera nel mezzo di uno sconvolgimento multiplo causato in larga parte dal manifestarsi di un nuovo soggetto: il populismo sovranista xenofobo e tendenzialmente suprematista, con preoccupanti accenti nazional-clericali. L’Europa e l’Italia di Bergoglio non sono più quelle di Karol Wojtyla.
L’irrompere del sovranismo ha portato in Italia – per quanto riguarda i rapporti tra politica e Chiesa cattolica – un fenomeno inedito nella storia repubblicana: l’emergere di leader e raggruppamenti politici in frontale opposizione al pontefice regnante. Salvini, che a Milano – con una precisa manipolazione dei simboli religiosi – sventola il rosario invocando l’aiuto della Madonna per le elezioni europee, è il primo antipapa politico della storia italiana contemporanea.
Non è folclore, è un segno dei tempi: la comparsa sulla scena internazionale di movimenti politici “salvifici”, che agitano il vessillo dell’identità etnica e della apparente ribellione alle élites – movimenti in cui confluiscono anche spezzoni della guerra civile in corso nel cattolicesimo.
Populismo, sovranismo e clericalismo nazionalista
L’Europa orientale, che Giovanni Paolo II dopo la caduta del muro di Yalta sognava saldamente integrata nel disegno europeo, rivela il predominio in Ungheria e in Polonia di regimi autoritari, ideologicamente aggressivi, intolleranti nei confronti dell’indipendenza della magistratura e della libertà di stampa. Al posto del “ritorno alla democrazia”, auspicato dai dissidenti dell’Est negli anni ’60-’70-’80 del secolo scorso, si sono affermati regimi ibridi fieramente avversi alla liberaldemocrazia. Con un risorgere inaspettato di un clericalismo nazionalista.
Quando nell’ottobre 2017 – mobilitando un milione di fedeli dal Mar Baltico ai monti Tatra – ventidue su quarantadue diocesi in Polonia hanno organizzato una giornata di rosario nazionale alle frontiere polacche per invocare la difesa della Madonna contro lo spettro dell’ateismo e di una pretesa invasione islamica, l’Osservatore Romano ha ignorato glacialmente l’evento. Non è questa l’Europa, non è questa la Chiesa che papa Francesco ha in mente. Non corrispondono alla sua visione neanche i fili spinati anti-migranti, esibiti dal premier ungherese Viktor Orban e ammantati dalla retorica di un’Ungheria fondata sui “valori cristiani”.
D’altronde nel Vecchio Continente sono cresciuti anche movimenti populisti e sovranisti di impronta laica come i fautori della Brexit in Gran Bretagna e i sostenitori dell’AfD, l’estrema destra tedesca, xenofoba e spesso intrisa di nostalgie naziste, che nel 2017 ha fatto ingresso nel parlamento federale di Berlino con oltre il 12 per cento dei consensi.
L’ondata sovranista è il primo dei fattori negativi con cui la Santa Sede si deve misurare nella nuova temperie internazionale. L’integrazione europea, che da Paolo VI a papa Francesco è stata un punto fermo della politica vaticana (al di là dei richiami alle “radici cristiane”), è oggi messa in discussione. Il rischio di una disgregazione non è immaginario. Per Bergoglio è un motivo di grave preoccupazione.
La disgregazione del multilateralismo
Altrettanto inquietante è per il Vaticano il corso politico imboccato dal presidente americano Donald Trump. Dopo la seconda guerra mondiale, con situazioni anche varie – si pensi all’alleanza tra Wojtyla e Reagan per sostenere Solidarnosc in Polonia e poi alla dura opposizione di Wojtyla all’invasione dell’Irak attuata nel 2003 dal presidente George W.Bush – sempre Washinton ha rappresentato un punto di riferimento per la politica vaticana, un centro con cui si poteva sia dissentire che collaborare, in ogni caso nel contesto di un continuo dialogo.
Con l’amministrazione Trump questo rapporto pluridecennale si è rotto. Trump ha perseguito in questi anni una politica di disgregazione del multilateralismo sul piano sociale, economico e politico. L’esatto opposto della linea propugnata da Francesco. Trump ha rifiutato di firmare la convenzione Onu sui migranti, ha ritirato gli Stati Uniti dall’Accordo sul clima, dall’Unesco, dal comitato Onu per i diritti umani, dall’Organizzazione mondiale della sanità.
E ancora, il presidente americano si è lanciato in una corsa alla militarizzazione dello spazio, ha denunciato l’accordo Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) con la Russia sui missili nucleari a media gittata, ha denunciato l’accordo Open skies che permette la reciproca ricognizione aerea tra Washington e Mosca per evitare valutazione erronee su possibili attacchi.
In Medio Oriente Trump ha denunciato l’accordo nucleare con l’Iran e ha lanciato un fantomatico piano di pace (rigettato da Unione europea, Cina e Russia), che incoraggia il premier israeliano Netanyahu a occupare fino al 40 per cento delle terre palestinesi contrariamente a ogni norma del diritto internazionale.
In tal modo sta collassando tutta l’architettura del multilateralismo, su cui si è fondato lo sviluppo delle relazioni internazionali dagli anni Settanta in poi: un processo di disarmo e di ricerca di equilibri pacifici che la Santa Sede ha costantemente incoraggiato.
Il sovranismo aggressivo, mescolato o meno a fondamentalismo religioso – negli Usa i fondamentalisti evangelical e gli ultraconservatori cattolici fanno parte della base elettorale trumpiana – è un aspetto imprescindibile della realtà geopolitica odierna, che trascende l’area cristiana.
In Turchia Erdogan forza la ri-trasformazione di Santa Sofia in moschea, in India il fondamentalismo indù aggredisce musulmani e cristiani, in Myanmar il fondamentalismo buddista perseguita ed espelle con la violenza i Rohingya di fede islamica.
Contrastare la cultura dell’odio
È l’era del darwinismo nazionalistico, l’era degli autoritarismi, delle leadership di ferro: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, Netanyahu, Al Sisi, Duterte, Bolsonaro. Papa Francesco ha colto da subito la gravità del fenomeno. Di fronte alla miscela esplosiva di nazionalismo e populismo papa Francesco da qualche anno mette in guardia dalla cultura dell’odio evocando espressamente il nome di Hitler.
Ancora a febbraio, incontrando a Bari i vescovi del Mediterraneo, il pontefice ha ammonito che alcuni interventi di attuali leader populisti gli ricordano parole “che si sentivano negli anni ’30 del secolo scorso”. Al giornalista Austen Ivereigh il pontefice ha dichiarato che certi comizi assomigliano ai “discorsi di Hitler nel 1933”. Il populismo che semina odio, ha sottolineato dinanzi ad una platea di giovani l’anno scorso, apre la strada ad “un cammino di distruzione … (è) preparare la terza guerra mondiale”.
In un recente colloquio telefonico tra il papa e la cancelliera tedesca Merkel, il termine ricorrente è stato Zusammenhalten: “Tenere insieme”. Tenere insieme l’Europa, tenere insieme l’architettura del multilateralismo, mantenere l’obiettivo della cooperazione internazionale per lo sviluppo di tutti.
In questa fase storica di mutazione Francesco insiste tenacemente sul tema della pace, del multilateralismo e del disarmo giungendo ad ammonire che già il possesso di armi nucleari è “immorale e criminale”, come ha affermato a Hiroshima nel novembre 2019.
Contemporaneamente si rifiuta di arruolare il Vaticano nella guerra fredda scatenata da Trump contro la Cina (benché tra Pechino e Santa Sede, a causa dell’invadenza del governo sull’attività delle religioni, i problemi non siano pochi: a partire dal divieto di impartire educazione religiosa ai minorenni).
Per una globalizzazione dal volto umano
Profeta, ha dichiarato un suo collaboratore in Vaticano, non è chi predice il futuro, ma interpreta i segni dei tempi. Francesco in questo senso è l’unica autorità internazionale che non solo denuncia sistematicamente l’azione disgregante del sovranismo aggressivo, ma indica alla platea internazionale i temi imprescindibili da affrontare e risolvere se si vuole costruire una “globalizzazione dal volto umano”. Il fenomeno epocale delle migrazioni, l’estendersi drammatico dell’“inequità” di massa, le nuove schiavitù e il legame stretto esistente tra degrado ambientale e degrado sociale.
Soprattutto papa Bergoglio, nell’imperversare della peste Covid-19, è l’unico leader internazionale che stia sostenendo a voce alta che non si può tornare al sistema economico-finanziario di rapina antecedente alla pandemia. “Da una crisi come questa non si esce uguali, come prima, – ha rimarcato – si esce migliori o peggiori”.
È il suo messaggio geopolitico e profetico insieme.
* Marco Politi è commentatore de “Il Fatto Quotidiano”, per diciassette anni corrispondente vaticano di Repubblica e, prima ancora, de “Il Messaggero”. Autore di due volumi di riferimento sul pontificato di papa Francesco: Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione (Laterza, Bari 20162); La solitudine di Francesco. Un papa profetico, una Chiesa in tempesta (Laterza, Bari 2019).